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Quando sono finiti gli anni dell’ingenuità?

di Francesco Lamendola - 18/06/2012


 


Gli anni passati sembrano sempre gli anni dell’ingenuità, se non altro perché sono gli anni della giovinezza o addirittura quelli dell’infanzia; ed è proprio dei bambini e dei ragazzi, o almeno lo era, essere ingenui.

Così, a una persona anziana possono sembrare ingenui, visti dal presente, gli anni che precedettero la seconda guerra mondiale; a una persona adulta, gli anni che la seguirono; e poi… e poi, è difficile dire, perché, dopo gli anni del “boom economico” e quelli dei primi cantanti beat, o almeno dei primi giunti in Italia, si direbbe che l’ingenuità si sia perduta per strada.

Ci spieghiamo meglio: i bambini di oggi non sembrano ingenui, così come non lo sembrano i ragazzi delle medie o del liceo; e nemmeno i loro padri devono esserlo stati, se non hanno vissuto in prima persona gli anni Cinquanta e i primissimi anni Sessanta del secolo scorso. Questa, almeno, è l’impressione che si ha, guardando indietro dalla soglia del presente: di quel presente che noi chiamiamo “oggi”, ma che un tempo sarà divenuto “ieri”.

È difficile, insomma, separare l’elemento soggettivo, personale, autobiografico, in una riflessione di costume sulla scomparsa dell’ingenuità, da quello collettivo; è difficile, soprattutto, individuare il momento preciso in cui essa si è consumata; però il fatto è quello: a un certo punto, l’ingenuità è divenuta una moneta fuori corso, e ha cessato di circolare.

Non intendiamo anticipare, sul fatto in se stesso, un giudizio di valore; il giudizio di valore, semmai, deve aver luogo a conclusione di un ragionamento, di una riflessione; ci limitiamo a dire, per intanto, che quella dell’ingenuità non è una categoria negativa, così come non è una categoria positiva: è una categoria sociologica e morale, puramente e semplicemente. La persona ingenua, la società ingenua credono fermamente in cose che, forse, non esistono; cose belle o cose brutte, comunque ci credono: pertanto l’ingenuità implica un atteggiamento di fede nei confronti del mondo, e, dato che tali cose forse non esistono, e dato che forse si sa che non esistono, implica anche un atteggiamento di incanto, di abbandono, un lasciarsi andare.

Ecco: la persona ingenua sa lasciarsi andare; si lascia andare ai propri sogni. Possono essere sogni belli o brutti, sogni di gloria o sogni di denaro, sogni d’amore o sogni di potere: comunque sono sogni che essa vive ad occhi aperti, cioè con troppa consapevolezza per crederci del tutto e con troppo poco cinismo per non crederci affatto; insomma ci crede, e quel suo credere dà alla sua vita un tono particolare, un tono inconfondibile, perché in essa la linea di confine tra il possibile e l’impossibile sembra magicamente sospesa.

Ora, a noi sembra chiaro che la società presente è rimasta interamente spogliata dal manto dell’ingenuità: se sia divenuta migliore o peggiore, non sta a noi dirlo in questa sede; ma di certo non è una società ingenua. Eppure, basta guardare un Carosello televisivo dei primi anni Sessanta, o riascoltare una canzone di Dusty Springfield o di Petula Clark, e riflettere sul fatto che queste cantanti hanno venduto milioni di dischi non sono nel loro Paese, ma in tutto il mondo, per rendersi conto che c’è stato un tempo in cui la società presentava un alto tasso di ingenuità: e quel tempo non è così lontano che non lo possano distintamente ricordare coloro che oggi hanno poco più di cinquant’anni e non sono neanche divenuti nonni.

Il problema che qui poniamo, dunque, è duplice: quando è finita l’era dell’ingenuità e quando i bambini hanno incominciato a non essere più ingenui. Ma le due cose sono evidentemente collegate: in una società totalmente disincantata, i bambini non possono conservare la propria ingenuità. Un bambino che non ha mai creduto a Babbo Natale o alla Befana, non è mai stato ingenuo; e un bambino che non è mai stato ingenuo diverrà precocemente adulto. Allo stesso tempo, un bambino che non ha mai creduto alla Befana o a Babbo Natale è il prodotto di una società che non crede più nei sogni e che non crede più nel diritto dell’infanzia ad essere se stessa.

Quando è avvenuto tutto questo, esattamente, in Italia?

Lo scrittore Carlo Castellaneta ha una risposta: al giro di boa del 1961. Così, nella conclusione del suo romanzo «Anni beati» (Milano, Rizzoli, 1979), egli ha rievocato l’atmosfera di una “prima” alla Scala di Milano nel dicembre del 1961, vista come il simbolo della fine di un’epoca; quella, appunto, degli anni beati del “miracolo economico”:

 

«Pettinature superbe a pagoda, cascate di boccoli ancora caldi di ferro, chiome costruite come castelli e incorniciate dentro colli di pelliccia, caschi platinati e gole lampeggianti di smeraldi e rubini, il foyer già gremito mezz’ora prima dello spettacolo, dicono che qualche abbonato abbia venduto il suo biglietto a prezzo di borsa nera, perché lo spettacolo vero è questo qui: pochettes d’oro e d’argento, corsettine ricamate di perle, stole d’ermellino, uno sfavillio di collier e di solitari, ancora sangue nel Katanga! gridavano gli strilloni nella piazza, ma stasera non si ha voglia di ascoltarli, la gente preme ai cordoni, contenuta dagli agenti della Celere, per vedere l’arrivo delle carrozzerie luccicanti fin sotto il portico della Scala, e a ogni toilette che scende scoppia un applauso… […]

In quella serata di gala nessuno avrebbe immaginato che stava per chiudersi, insieme all’anno che terminava, un periodo intero: quello della grande illusione, della fiducia, della pace coatta. Altri tempi erano già alle porte, gli anni della congiuntura, poi della disubbidienza e della rivolta, infine della violenza eretta a sistema, del rifiuto del lavoro e della fatica. Sia per coloro che sedevano su quei velluti rossi, sia coloro che erano rimasti fuori del teatro stava per finire un’epoca di grandi aneliti, di certezze, di illusioni ingenue, di slanci e di fede. Quegli anni, nei quali chi era stato povero aveva potuto illudersi d’esserlo di meno, e chi era ricco non era mai stato così ricco, quegli anni beati già volgevano alla fine…»

 

Al di là dell’ambientazione specifica di una certa città e di una certa classe sociale, questa scena illustra con rara efficacia un momento cruciale di svolta, non solo economica, politica e sociale, ma soprattutto culturale e spirituale, e perfino psicologica, dell’intera società italiana.

Ora, abbiamo visto come il problema della scomparsa dell’ingenuità, a livello sociale, sia legato all’altro problema, quello della scomparsa dell’ingenuità dall’anima dei bambini. I bambini sono degli indicatori sensibilissimi: come certi alberi dei viali cittadini, la cui malattia ci indica che i livelli di tollerabilità dell’inquinamento atmosferico sono stati oltrepassati, così la scomparsa dell’ingenuità nei bambini ci indica che qualcosa di nuovo e di mai visto si sta verificando nelle radici stesse di una data società.

Ingenui erano i giovanotti dei primi anni Sessanta che pestavano sui tamburi di una batteria, sognando di diventare altrettanti Ringo Starr; ingenui erano gli adulti che si entusiasmavano, al cinema, davanti alle imprese poliziesche ed amatore di un giovane Sean Connery, calato nella parte dell’inappuntabile Agente 007; e ingenui erano i bambini che, la notte di Natale o quella dell’Epifania, andavano a letto sognando i regali che Babbo Natale o la Befana avrebbero portato loro, non senza un segreto timore di trovare invece, a causa del loro comportamento non sempre encomiabile, un sacchetto pieno di carbone.

Intendiamoci: anche allora, proprio come oggi, esistevano le fabbriche dell’ingenuità, specialmente cinematografica; ma erano anch’esse, come dire?, ingenue: vendevano un prodotto artificiale, ma lo vendevano con tale ingenuità da smentire le proprie intenzioni. Vogliamo dire che lo spettatore di «Via col vento» sapeva di assistere ad uno spettacolo abilmente orchestrato per farlo sognare, ma sognava ugualmente davanti alle vicende di Rossella O’Hara e di Rhett Butler; mentre gli spettatori de «Il tempo delle mele» sanno di essere davanti a una ruffianata e non se lo scordano mai: sempre con le dovute eccezioni, si capisce, che dipendono da fattori soggettivi.

Oggi non si vede più un atteggiamento diffuso di ingenuità: si passa direttamente da un estremo realismo, confinante magari col cinismo, a un estremo idealismo (quest’ultimo molto più raro), confinante col velleitarismo. Oggi si vorrebbe tutto e subito e non si accetta il crollo delle proprie sicurezze, specialmente economiche: anche per questo i suicidi sono in aumento, ma lo sono soprattutto i malati di depressione, più o meno cronici. Se ne deduce che l’ingenuità funge, tra le altre cose, da cuscinetto protettivo fra la cruda realtà e i nostri sogni più delicati: ammortizza gli urti e rende più tollerabili le delusioni.

Che cosa è accaduto nel frattempo? Chi o che cosa è stato l‘agente che ha modificato radicalmente la situazione, facendo sparire l’ingenuità dal nostro orizzonte spirituale?

Ebbene, se è vero che i bambini sono degli indicatori preziosi e se è vero che l’elemento caratterizzante del bambino è il gioco, allora noi una risposta ce l’avremmo: basta osservare la vetrina di un negozio di giocattoli.

Fino ai primi anni Sessanta le vetrine dei negozi di giocattoli esponevano bambole, gioielli finti, costruzioni e soldatini; poi hanno cominciato ad esporre giochi automatici, come le bambole parlanti, e giochi elettrici, come i trenini; da ultimo hanno esposto principalmente giochi elettronici, giochi, cioè - indipendentemente dal giudizio pedagogico o morale che si voglia dare su ciascuno di essi - nei quali il bambino non gioca più, anche se crede di farlo, ma in realtà si limita ad assistere ad un gioco che la macchina gli fa vedere.

Ecco: da quando l’elettronica ha tolto ai bambini la capacità di giocare veramente, e perciò anche quella di sognare, l’ingenuità è scomparsa dalla loro vita; e ciò non è avvenuto per caso, ma per un calcolo economico da parte degli adulti: basta pensare a quanto costa un gioco elettronico e a quanto costava uno dei vecchi giochi “manuali”.

Certo, se l’elettronica, ossia una tecnica inventata dall’uomo, è riuscita a togliere alla società i suoi sogni, vuol dire che quella società stava già disimparando a sognare, per cui è bastato un fattore esterno, e sia pure potente ed onnipervasivo, per far sparire quel poco che ancora restava.

Potremmo spingerci ancora più in là e ipotizzare che la scomparsa dell’ingenuità era già implicita nell’invenzione del giocattolo come merce del mercato: i nostri nonni, per giocare, non avevamo bisogno di andare in un negozio e comprare i giocattoli, perché i giocattoli se li fabbricavano da soli. Da soli si costruivano gli aquiloni; e ciò che non potevamo costruire con le mani, lo costruivano con la fantasia. Le nostre nonne non giocavano con le bambole, perché, per sentirsi delle principesse, non avevano bisogno di avere in mano una bambola vestita da principessa: bastava che si mettessero in testa un velo della loro mamma, e il gioco - nel significato esatto del termine - era fatto.

In pratica, quando un fenomeno sociale comincia a manifestarsi, questo significa che i fattori che lo hanno messo in movimento erano presenti ed operanti da un tempo più o meno lungo; perciò può darsi benissimo che l’avvento dei giochi elettronici abbia rappresentato non già il punto di svolta, ma semplicemente l’atto finale, visibile anche ai più ottusi, di un processo che era ormai in corso da alcune generazioni.

Ma la scomparsa dell’ingenuità deve essere considerata, essa stessa, come un effetto o come una causa della società che ha perso la propria capacità di sognare? L’una e l’altra cosa, senza dubbio: ma più la prima che la seconda; più un effetto che una causa. La causa va ricercata più a monte, nel mondo dei valori: e finché non saremo capaci di fare onestamente i conti con esso, ossia tenendo conto non solo dei guadagni materiali ma anche delle perdite morali, non capiremo mai sino in fondo se quel che ci sta accadendo, ossia la scomparsa dell’ingenuità, sia stato un bene o un male.

Noi che, personalmente, quei conti abbiamo cercato di farli da tempo e con il massimo sforzo di onestà intellettuale, riteniamo di poter dare anche, alla fine, un giudizio di merito: ossia che vi è stata una perdita di valori, di cui la perdita dell’ingenuità è un segnale altamente negativo.

Una società non può vivere senza conservare i propri sogni, pena trasformarsi in un aggregato inerte e tendenzialmente necrofilo, dove le cose materiali diventano sempre più importanti e quelle dell’anima, sempre più superflue. Ma questo stravolgimento di valori impone un prezzo salatissimo da pagare, perché non tiene conto di come è fatta la natura umana, che non può accontentarsi di sicurezze economiche e di piaceri materiali, ma che ha bisogno, un bisogno estremo e vitale, di credere in qualche cosa che la proietti al di là di se stessa, verso la luce dell’Essere.

Chi perde i suoi sogni, perde se stesso, insegna la saggezza del popolo più antico del mondo, quello degli aborigeni. E, se sognare è indice di ingenuità, allora che essa ritorni al più presto fra noi…