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Sappiamo ancora parlare?

di Francesco Lamendola - 02/07/2012


 

 

Si direbbe, almeno stando alle apparenze, che mai nessuna epoca è stata dominata dal regno della “chiacchiera” (per adoperare un’espressione heideggeriana) quanto lo è la nostra; che mai, come nella società attuale, la gente parla, parla, parla in continuazione.

L’uso e l’abuso quotidiano dei telefonini cellulari rafforzano questa impressione; è sempre più raro, infatti, non imbattersi in qualcuno, pedone, ciclista o automobilista, che non vociferi più o meno animatamente al telefono mentre va per la sua strada, magari alzando la voce e gesticolando nella via deserta, con effetti quasi surreali.

Addirittura, può capitare, e anzi capita con sempre maggiore frequenza, che il nostro interlocutore interrompa di parlare con noi, magari mentre stiamo seduti al bar per fare una chiacchierata fra amici, perché il suo cellulare si è messo a squillare; al che egli, forse senza neppure una parola o un cenno di giustificazione, tralascia la conversazione a faccia a faccia per dedicarsi alla voce sopraggiunta da chissà dove, che chiede e ottiene precedenza assoluta in virtù del mezzo tecnologico di cui si sta servendo.

Ma è proprio vero che si parla ancora, che si sa ancora parlare?

Non stiamo insinuando che se non vi è una vera arte della conversazione, non vi è autentico dialogo: questo è un lusso che lasciamo agli oratori forensi; ci basterebbe constatare che le persone comuni sappiano ancora parlare davvero, ossia che sappiano ancora riempire di contenuti effettivi la loro conversazione.

Parlare dell’ultima puntata della soap opera televisiva, per esempio, non è parlare, perché non veicola alcun contenuto effettivo; è un parlare di nulla, puramente e semplicemente; un parlare perfino più povero e insignificante del fare qualche bislacca osservazione sul tempo o qualche generica riflessione sulla disonestà dei nostri governanti.

Contenuti effettivi di una conversazione sono quelli che permettono, in ogni caso, un autentico scambio di informazioni e un reciproco arricchimento della propria sfera esistenziale, e sia pure a livelli minimi; in questo senso, il problema non è tanto il “che cosa”, ma il “come”. Ad esempio, chiedere a qualcuno: «Come stai?» può esprimere un livello zero di comunicazione, se si tratta di un rito puramente formale e un debito frettoloso che viene pagato alle convenzioni sociali; mentre può corrispondere a un livello alto di comunicazione, se dietro quella domanda traspaiono un sincero interesse per lo stato dell’altro e una empatia non fittizia, ma reale.

Perché vi sia autentica comunicazione, non è dunque necessario che si parli di teologia, di filosofia o di etica; bisogna però che si parli con reale interesse di cose che attengono alla sfera esistenziale di sé o dell’altro e che gettino un ponte fra due soggetti ugualmente interessanti alla condivisione del proprio pensiero o dei propri sentimenti. Naturalmente, si può comunicare anche senza parlare, semplicemente con i gesti o con lo sguardo; questo, però, richiede una particolare confidenza reciproca e una speciale sensibilità, che non tutti possiedono. Di norma, comunicare vuol dire parlare, e parlare in entrambi i sensi: dall’io al tu e dal tu all’io; ecco perché né la radio, né la televisione, né il cinema creano comunicazione.

Si può discutere se l’uso del telefono crei una vera comunicazione, perché in esso mancano due elementi essenziali, la vicinanza fisica e il guardarsi negli occhi; nelle chiamate video è presente il secondo elemento, assente il primo; nei collegamenti tramite Facebook sono assenti entrambi, quindi vi è l’apparenza e l’illusione del comunicare, ma non l’autentico comunicare: non è tale, infatti, un rapporto in cui non si può sapere chi sia il proprio interlocutore, il quale può ingannarci e spacciarsi per quel che non è, simulando una età diversa, una situazione personale diversa e perfino un sesso diverso da quello dichiarato. Si usa parlare, in tale caso, di comunicazione virtuale, ma sarebbe più esatto parlare semmai di contraffazione della comunicazione.

Questo è un altro punto chiave: perché vi sia comunicazione, è necessario che vi sia, se non proprio la parola assolutamente onesta (il che sarebbe l’ideale, ma presuppone un altissimo livello di consapevolezza), perlomeno un certo grado di verità o, come requisito irrinunciabile, un rifiuto della menzogna sistematica e deliberata.

A sua volta, la parola limpida e sincera presuppone lo sguardo limpido e sincero su se stessi: chi non sa guardarsi entro, chi non sa vedersi se non con le lenti deformanti del proprio narcisismo o del proprio disprezzo di sé, non è in grado di parlare realmente con l’altro: la parola è sempre una, che sia rivolta all’interno del proprio io, o che sia rivolta all’esterno; se è limpida, lo sarà tanto nel primo caso che nel secondo. Non si può comunicare davvero con gli altri se non si è capaci di comunicare nemmeno con se stessi.

E, così come a monte della retta comunicazione con se stessi vi è la retta visione di se stessi, allo stesso modo perché vi sia retta visione di se stessi, bisogna che vi siano disponibilità leale, capacità di ascolto e, quindi, amore della verità; il che implica capacità di silenzio e di solitudine. Solo chi sa stare in silenzio e in solitudine, è poi capace di stabilire una reale comunicazione con l’altro; è capace, cioè, di scambiare con l’altro cose - pensieri, emozioni, sentimenti - e non solo parole. Scambiarsi vuote parole è chiacchierare, non parlare; dunque, non è comunicare.

D’altra parte, parlare vuol dire anche ascoltare la voce dell’altro: il soliloquio non è, salvo casi eccezionali, un vero parlare, perché l’altro è ridotto a destinatario passivo della comunicazione e quindi reificato, un po’ come accade al telespettatore; solo nello scambio reciproco di parole - e, naturalmente, di sguardi, di gesti e di silenzi - vi è reale comunicazione.

Colui che non sa ascoltare, non sa nemmeno parlare; perché parlare significa interagire, dare e ricevere, ricevere e dare; chi dà soltanto le sue parole, esercita uno sfogo o distribuisce una predica, non comunica; e chi ascolta soltanto, porge un orecchio misericordioso, o forse rassegnato, ma non comunica, è solo il pubblico delle parole altrui.

Parlare, inoltre, è una cosa che richiede tempo; o, per essere più precisi, è una cosa che richiede la disponibilità e la non avarizia del proprio tempo. Può assorbire qualche minuto o qualche ora, non si può sapere in anticipo; non si può dire, a un amico che ci sta aprendo il suo cuore, che cerca conforto e consiglio: «Scusa, si è fatto tardi; mia moglie avrà già cotto la pastasciutta, devo andare»; oppure: «Mi dispiace, mia sorella mi aveva chiesto di accompagnarla per scegliersi un vestito nuovo e l’ho già fatta aspettare un quarto d’ora».

Chi ha fretta non sa parlare; e, dal momento che viviamo in una società dominata dalla fretta, dai ritmi convulsi, dalla pretesa di fare cento cose al giorno (anche se non tutte, a ben guardare, sono poi così necessarie), si arriva facilmente alla conclusione che un po’ tutti, chi più e chi meno, vivendo in questo tipo di meccanismi, abbiamo disimparato a parlare: emettiamo ancora parole dalla bocca, ma questo non è saper parlare; anche un pappagallo ammaestrato sa fare la stessa cosa, ma chi vorrà sostenere che le sue parole sono una forma di comunicazione?

Purtroppo, stiamo diventando tutti dei pappagalli ammaestrati; ripetiamo parole e persino frasi, ma non parliamo veramente, non comunichiamo: siamo il prodotto dell’azione quotidiana dei giornali e della televisione, i quali ci rovesciano addosso una quantità prodigiosa di parole, ma, il più delle volte, esse non dicono assolutamente nulla.

Perché vi sia un parlare, bisogna che vi siano dei contenuti, per quanto modesti dal punto di vista intellettuale o morale; un parlare senza contenuti è parlar di nulla, letteralmente: flatus vocis, emissione di suoni e basta.

Per quanto riguarda i contenuti della comunicazione, infine, il vero parlare è sempre accompagnato, in qualche misura, da un auto-svelamento, da un mostrarsi dell'io al tu, dunque da un momento di verità che è, al tempo stesso, riconoscimento della propria verità interiore. Chi parla senza mai scoprirsi, senza mai svelarsi, non parla veramente, cioè non comunica: infatti il vero oggetto della comunicazione, qualunque sia l'occasione del dialogo, è sempre, in prima e ultima analisi, il riconoscimento e l'arricchimento del proprio Sé.

È quasi inutile precisare che vi sono rapporti consolidati nel tempo, perfino all'interno di una coppia, nei quali non si sa più parlare o, addirittura, nei quali non si è mai realmente parlato.

Una bella canzone di Luigi Tenco, peraltro assai poco conosciuta, che s’intitola «Passaggio a livello», racconta appunto di due innamorati i quali, per la prima volta, trovano l’occasione di parlare, e di svelarsi, mentre la loro auto è costretta a sostare davanti alle sbarre abbassate di un passaggio a livello. Lei, in particolare, mostra un lato di sé che, fino a quel momento, aveva tenuto gelosamente nascosto: si lascia andare, si abbandona al piacere di raccontarsi. Ma poi passa il treno, il viaggio riprende, e quel momento magico svanisce come fumo nell’aria, lasciando nel ragazzo una acuta e insoddisfatta nostalgia. «Torna a parlare di te, a parlare del cuore, delle cose dimenticate», egli esorta la sua amica, quasi pregandola; ma lei, ridendo, risponde con un «No» secco, che non ammette repliche; e torna a rinchiudesi nel proprio mutismo, quel mutismo che l’ha seme caratterizzata e dal quale, evidentemente, non vuol saperne di uscire mai più, forse già pentita di aver scoperto una parte segreta di sé, che non aveva mai rivelato ad alcuno.

Eppure, il punto è proprio questo: parlare con l’altro, vuol dire gettare un ponte dall’io al tu; ma nessun ponte potrebbe mai unire le due sponde, se viene a mancare l’elemento della fiducia, della disponibilità a lasciar trasparire qualche cosa di sé. Non è detto che ci si debba mettere interamente a nudo, senza difese: ciò dipende dal livello della comunicazione e, naturalmente, dalla persona dell’interlocutore; ma è certo che, se viene a mancare questo elemento, cade il presupposto fondamentale della comunicazione.

In fondo, parlare è come giocare una partita a carte: prima o dopo viene il momento in cui bisogna far vedere all’altro le proprie carte; non ci si può ragionevolmente aspettare che egli continui a giocare con le carte coperte, semplicemente fidandosi di quel che noi gli diciamo di avere in mano. Sarebbe una pretesa assurda; e, quando anche trovassimo un giocatore disposto, per amor nostro, a fidarsi così ciecamente di noi, è quasi certo che saremmo portati ad approfittarcene, perché tale è la natura umana: chi sa di poter esercitare un potere illimitato, immancabilmente sarà indotto ad abusarne.

Ora, proprio il fatto che molte persone provino un senso di imbarazzo e quasi di terrore davanti allo svelamento dell’altro, che la conversazione talvolta porta con sé, ci fa avvertiti di quanto ci siamo allontanati dalla vera comunicazione, di quanto abbiamo disimparato a parlare. Specialmente presso i popoli nordici è considerato un vero e proprio strappo alle regole del buon vivere civile, il mettersi a parlare troppo apertamente di se stessi, soprattutto se la conoscenza fra i due soggetti è recente; come qualcosa di molto indiscreto e di molto sconveniente.

La persona bene educata non spinge mai tropo a fondo la conversazione, questo si pensa e questo viene insegnato presso alcune società: l’arte del saper vivere prevede una conversazione cortese, ma generica e non troppo impegnativa ma, soprattutto, non eccessivamente personale e non eccessivamente franca. Nel romanzo «Fosca», di Iginio Ugo Tarchetti, il protagonista, Giorgio, rimane turbato dalla sua interlocutrice, fin dal loro primo incontro, perché la donna spinge la conversazione verso temi personali, con una sincerità e con una spontaneità che il codice non scritto dei rapporti sociali può soltanto disapprovare.

In simili casi, il primo pensiero che nasce nel destinatario di una comunicazione così franca e diretta, è press’a poco di questo tenore: «E adesso che cosa vorrà da me questa persona? Perché mi racconta tutte queste cose, perché mi fa delle domande così personali? Non le hanno mai insegnato un po’ di buona educazione?». Certo, si tratta di senso della misura. Siamo d’accordo che non sia una cosa opportuna prendere a confidente delle proprie cose più intime, il primo che capita a tiro; senza contare che non fa una bella impressione quando tali confidenze vengono fatte con leggerezza e con superficialità. Ciascuno di noi “sente” che un certo livello di comunicazione esige un corrispondente livello di familiarità con il nostro interlocutore, e che tale familiarità non può essere improvvisata dal nulla.

Tuttavia, vi sono sempre delle eccezioni. Può accadere che una persona, afflitta da gravi problemi personali, non chieda di meglio che di potersi aprire con uno sconosciuto, proprio perché sa che non lo rivedrà più; questo pensiero ha un effetto liberatorio nei confronti delle remore interiori che ciascuno di noi si porta dietro. In situazioni di questo genere, bisognerebbe che fossimo sempre capaci di intuire l’autentico bisogno di parlare dell’altro, anche se lo conosciamo poco o niente…