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Su Carmelo Bene

di Lukas Brodocz - 02/07/2012

Fonte: lintellettualedissidente

CB

L’unica forma di governo che garantisca qualcosa è la democrazia, paradossalmente è la più accettabile. Ma vi domando: che cosa garantisce una democrazia che una dittatura non possa garantire? Certo, garantisce qualcosa: l’invivibilità della vita. Non risolve la vita. Chi sceglie la libertà, sceglie il deserto.

In questi termini Carmelo Bene si proponeva nel ’94 al gregge del “Maurizio Costanzo Show”, durante una delle sue preziosissime e da lui derise apparizioni in tivù. CB, così lo abbreviava nei suoi saggi Gilles Deleuze, è stato secondo l’alta critica, uno dei più grandi intellettuali, attori e scrittori di teatro del ‘900. Eppure non appare sui libri scolastici. Eppure non si conoscono le sue opere, i suoi pensieri, il suo “non-voler-essere”.

CB, infatti, è stato sempre deriso come pagliaccio mediatico dalla più bassa critica (essa stessa tra l’altro di genesi televisiva), o classificato come “scienziato pazzo” del teatro, come messaggero incomprensibile di una nuova concezione dello stesso significato di “messaggio”. Ma come Nietzsche scrisse –“Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate”-.

E, di fatto, forse grazie al recente anniversario della sua morte (16 marzo ‘02), le sue azioni e i suoi pensieri come un barlume nato in una lampada a olio, fievolmente stanno acquistando lucentezza.

Ma cosa mai avrà fatto CB per meritarsi questi alti elogi, cosa avrà mai detto di così profondo per entrare nel nostro olimpo?

Difficile e troppo profondo da scriversi.

Egli, prima di tutto, non fece e non disse. Tutta la sua vita, o meglio non-vita, CB la volle vivere il più vicino possibile all’immateriale, all’inorganico. La sua più alta speranza fu di sfuggire a quell’oppressione della catena di montaggio “kafkiana”, che inevitabilmente ci sovrasta e ci insegue, diventando sempre più forte nella strada che percorriamo, nel tram, nell’auto, poi a casa, in famiglia, nell’amore, ma ancor di più nella Rivoluzione e soprattutto, nell’Entusiasmo. Solo liberandoci da tutto ciò, solo disfacendo quindi il concetto di “soggetto”, dice CB, possiamo diventare noi stessi dei Capolavori, dei liberi “frequentatori” della nostra vita. Solo così possiamo sfuggire alla prigionia dell’Azione, e divenire, in fine, parte di un fulmineo ma eterno Atto.

Gioca così un ruolo fondamentale nella produzione artistica beniana, il liberarsi da ogni significato e significante. CB fu sempre contro un “teatro di testo”. Fare il “teatro del già detto” era per lui un mero ripetere a memoria le parole di altri senza creatività. Avviene dunque la completa distruzione dell’Io sulla scena, l’interpretazione in un ruolo, a favore di un teatro del soggetto-attore: il Grande Teatro, sorretto dalla macchina-attoriale. Il linguaggio e la terminologia per spiegare il suo modo di concepire e “dis-fare” il teatro sono unici ed inequivocabili: -“ … un non-luogo soprattutto; quindi è al riparo da qualsivoglia storia. È intestimoniabile. Cioè, lo spettatore per quanto Martire, testimone, nell’etimo [da martyr], per quanti sforzi possa compiere lo spettatore, dovrebbe non poter mai raccontare ciò che ha udito, ciò da cui è stato posseduto nel suo abbandono a teatro.

E dunque, anch’Io, ora, come i testimoni delle sue rappresentazioni, mi trovo nello scomodo paradosso: quello di volervi introdurre ad uno dei più grandi pensatori italiani, per il quale però il più alto riconoscimento, non è di certo l’essere ricordato tramite meri significanti come i caratteri di questo articolo, ma di essere vissuto tramite le sue molteplici vite: i suoi personaggi e le sue opere.