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Il Logos trascendente della natura vivente

di Giovanni M. Tateo - 09/07/2012

Fonte: centrostudiparadesha

 

Ponendoci nella prospettiva di chi intenda dedurre l’esistenza di un’Intelligenza trascendente dell’Universo a partire dall’ordine razionale che in esso è possibile riconoscere, ciò è decisamente più facile da effettuare se ci si riferisce all’osservazione della realtà terrestre, anche attraverso i parametri della scienza moderna e profana. Oltre alle leggi naturali, valide sia per gli enti animati che inanimati, ossia le leggi fisiche generali, è in particolare la realtà vivente che abita il Cosmo – anche se essa pare essere presente solo sulla Terra – a rivelarne nella maniera più eclatante il Logos superiore. Premettendo che una rigorosa logica interna è riscontrabile già nei minerali – i quali, infatti, dimostrano di crescere e svilupparsi sulla base di precise ed evidentissime direttrici matematiche e geometriche -, noi osserviamo che ogni organismo vivente possiede una struttura biologica estremamente intelligente. Nel caso degli ecosistemi, inoltre, è evidente che le varie specie viventi si trovano integrate in maniera ottimale, ad esempio, nei cicli delle catene alimentari; e che ciò fa sì che i singoli gruppi, in condizioni normali, possano sempre sopravvivere malgrado la distinzione tra predatori e prede, o tra parassiti e ospiti; e dovrebbe far riflettere molto che tutto ciò sia dovuto all’insieme complesso delle interazioni tra specie animali e vegetali, e, all’interno delle prime, tra esseri il cui habitat naturale può essere sia l’aria, che la terraferma o l’acqua. Si tratta, in altre parole, di riconoscere che l’ecosistema terrestre dimostrerebbe, se non vi fosse l’interferenza esiziale dell’attività industriale umana, di essere costantemente in uno stato di equilibrio perfetto malgrado questo dipenda essenzialmente dalla conciliazione ottimale di un numero incalcolabile di variabili.

Volendo dunque abbracciare, con un unico sguardo intellettuale, questo complesso e straordinario panorama comprendente milioni di specie viventi di tutti i tipi, che coesistono armonicamente malgrado le loro notevoli diversità ed asimmetrie, nonché i loro istintivi antagonismi, a rigore, non si dovrebbe che pensare che tutti questi esseri viventi, malgrado siano comparsi e scomparsi di volta in volta nelle varie ere della storia biologica terrestre, essi siano stati concepiti simultaneamente da un’unica intelligenza onnisciente, in modo tale che ciascuno di essi, occupando il singolo e specifico posto che gli compete, si inserisca perfettamente all’interno dello sconfinato e multiforme quadro della natura vivente.

È altresì evidente che lo sguardo capace appunto di riconoscere questa verità appartiene unicamente all’intelletto dell’Uomo; per quanto ne sappiamo, infatti, e dal nostro punto di vista tradizionale ne siamo assolutamente certi, eccezion fatta per il Logos cosmico, che in qualche modo è sia immanente che trascendente, nell’Universo non esiste altra forma di intelligenza che quella umana.

Dimostreremo, quindi, la nostra tesi indagando sui limiti strutturali di questa stessa intelligenza rispetto alla conoscenza della stessa biologia umana, e, dato che il metodo assunto, come s’è detto, prevede il ricorso alle logiche della scienza moderna, verificheremo se effettivamente l’intelletto in questione debba identificarsi o meno col cervello umano; giacché, se si intendesse negare la natura divina di tale intelletto, allora non resterebbe che considerarne quella umana, e solo biologicamente intesa, ossia senza far affatto ricorso alle categorie teologiche dell’anima e dello spirito.

Dunque, se da un lato l’intelletto umano è capace di riconoscere negli esseri viventi, nei minerali, o negli insiemi naturali complessi come gli ecosistemi, la presenza imprescindibile di un progetto senza il quale non si avrebbe alcun ordine interno nelle forme considerate, nel contempo si è costretti ad ammettere, seppur tacitamente, l’evidenza assolutamente ineludibile che l’intelligenza che ha concepito quei progetti o programmi è del tutto superiore e trascendente rispetto agli enti configurati e strutturati da essi. Secondo la tesi evoluzionista l’intelligenza sarebbe il prodotto di un’evoluzione casuale degli organismi più complessi, ma è fin troppo evidente che: 1) la loro struttura non ha assolutamente nulla di casuale, ma risponde sempre ad una logica rigorosa; 2) che l’intelligenza in oggetto dovrebbe essere semmai un presupposto indispensabile del loro progetto genetico e non solo un suo esito finale; anzi, bisognerebbe considerare proprio questo come prova irrefutabile di quell’origine intelligente. Essa non può essere affatto solo un prodotto organico senza esserne stata anteriormente la produttrice su un altro piano dell’esistenza. Se davvero è stata la presunta evoluzione a produrre la coscienza e l’intelligenza come noi comunemente le conosciamo, allora come mai tale importantissimo risultato evolutivo non implica anche la necessaria consapevolezza di tale processo e la cognizione precisa e permanente della propria struttura interna? Se l’intelligenza non fosse altro che il cervello, ossia se la sua natura non fosse altro che biologica, come mai esso è del tutto incosciente della stessa biologia del corpo di cui è la parte direttrice? Perché, in base alla comune esperienza, la nostra coscienza pare manifestamente estranea alla realtà organica del corpo in cui essa abita? Con ciò intendiamo più precisamente dire che, malgrado ogni essere vivente sia ciò che è in virtù del proprio codice genetico, che appunto costituisce il programma o progetto della propria architettura biologica, tale essere, oltre a non esserne affatto l’autore, non è nemmeno minimamente consapevole di esso. In effetti, l’uomo stesso non possiede fin dalla nascita la completa conoscenza e consapevolezza del proprio DNA, o la cognizione precisa ed integrale della propria struttura organica, e delle sue varie funzioni; bensì, egli è costretto a studiare e ad indagare la propria biologia, come se il proprio corpo fosse quasi un ente estraneo a se stesso, un oggetto esterno, che, quanto alle sue logiche e dinamiche interne più profonde, gli è praticamente ignoto da sempre. Egli, infatti, non conosce direttamente i propri organi, gli apparati, né le sue ossa, o i suoi vari tessuti biologici, ed ignora completamente tutte le cellule del suo corpo. Prova evidente di ciò è la stessa ricerca medica, giacché è chiaro che se l’uomo conoscesse spontaneamente, completamente e perfettamente il proprio organismo, non avrebbe alcuna necessità di studiarlo per conoscere sia le malattie di cui può soffrire, che le loro relative cure. Nessuno, infatti, può dimostrare che il DNA, umano o di qualunque altra forma di vita, contenga, o abbia mai contenuto, un’informazione genetica tale da consentire a tale forma di possedere autonomamente, ossia senza avere alcun bisogno di effettuare alcuna ricerca scientifica su se stessa, la piena cognizione della propria costituzione ed eredità biologica. Il genoma umano è stato interamente esplorato e mappato, e tutti i suoi geni sono stati precisamente identificati senza che sia mai emerso alcun dato del tipo considerato; anzi, forse dovrebbe stupire non poco che, a quanto ne sappiamo, nel dibattito scientifico tale questione non sia mai emersa; prova ulteriore del ragionamento precedente. Nel caso dei vegetali, poi, l’impossibilità della cognizione naturale e diretta del proprio patrimonio genetico è del tutto palese, in quanto essi non posseggono alcun sistema nervoso.

Sarebbe affatto insostenibile affermare che, in un’epoca remotissima, nel DNA tale informazione strategica sarebbe invece stata presente, e che solo successivamente essa sarebbe andata perduta in seguito ad una qualche atrofia di quella parte del cervello la cui funzione fosse stata precisamente quella di rendere disponibile alla coscienza tale complesso di cognizioni fondamentali. È impensabile che il «genio dell’evoluzione» abbia potuto consentire la perdita irreparabile di una funzione talmente importante, sia per ragioni intrinseche, e sia per la stessa fondamentale esigenza di sopravvivenza della realtà vivente. L’eventualità di tale immane e disastrosa perdita, a causa del suo carattere drasticamente involutivo o regressivo, implica la netta contraddizione, ossia la negazione completa, della stessa teoria evoluzionista. E nemmeno se si adducesse l’argomento di una mutazione nociva, ciò basterebbe a spiegare tale catastrofe, poiché, oltre all’impossibilità concreta di dimostrare la realtà di tale evento ipotetico nella storia biologica terrestre – e lo stesso dicasi per il caso della suddetta atrofia -, bisognerebbe inoltre spiegare come mai esso abbia colpito la totalità delle specie viventi conosciute, e non soltanto un certo numero di esse. È infatti più che ragionevole ritenere che, se effettivamente tale mutazione si fosse verificata, e avesse colpito tutte le specie viventi di quell’intervallo evolutivo, essa avrebbe dovuto necessariamente avere un potere ed un impatto tali, o da portarle tutte all’estinzione, oppure da produrre su di esse degli altri effetti collaterali, talmente profondi da compromettere anche altre loro importanti funzioni biologiche. Affermiamo ciò sulla base della ragionevole convinzione che l’ipotetica funzione cognitiva in oggetto non avrebbe potuto sussistere se non in piena sinergia con tutte le altre funzioni di ogni organismo, anzi, in qualche modo, si potrebbe, o dovrebbe, pensare che essa avrebbe dovuto costituire una sorta di agente di supervisione dell’intera attività biologica di tale organismo. A quel punto, la mutazione catastrofica ipotizzata non avrebbe mai potuto non provocare delle ripercussioni tali da impedirci oggi di avere di fronte agli occhi il mondo naturale che ci è noto, poiché le gravi anomalie che sarebbero sorte in quello sciagurato caso sarebbero state di una tale entità da non poter mancare di compromettere significativamente il corso dell’evoluzione nel suo complesso.

Se poi si obbiettasse che l’organismo necessita dell’involontarietà completa dell’esercizio delle sue funzioni fondamentali – quelle vegetative -, risponderemmo che questa non sarebbe stata affatto pregiudicata dalla facoltà del cervello di essere pienamente e perfettamente cosciente dell’intera biologia dell’organismo stesso: il cervello, infatti, avrebbe potuto benissimo conservare la totalità delle informazioni in oggetto senza interferire in alcun modo con le attività fisiologiche involontarie. Esso, inoltre, avrebbe potuto mantenere quel patrimonio informativo a livello inconscio, in modo da poter richiamare a volontà singole informazioni in base ed esigenze specifiche; magari immagazzinandolo in quella parte del sistema nervoso centrale che non ha funzioni di tipo decisionale, ma che poteva fungere da banca dati consultabile di volta in volta. Bisogna comunque ricordare che siamo partiti dall’ipotesi per assurdo dell’esistenza, in un precedente stadio evolutivo, di esseri pienamente consapevoli del proprio patrimonio genetico; per cui, in quell’ipotetica fase, la loro costituzione organica sarebbe dovuta essere tale da conciliare perfettamente tale facoltà con la necessaria involontarietà delle funzioni vegetative primarie.

Non si può nemmeno obbiettare che l’evoluzione abbia naturalmente prodotto il cervello come organo assolutamente incapace di possedere la cognizione che si è detta, perché è chiarissimo che invece, seppur indirettamente, per mezzo dell’indagine scientifica, esso è in grado di studiare e conoscere l’intera biologia corporea, specialmente nel caso della sua memoria genetica. Pertanto, se effettivamente si fosse avuta la mutazione distruttiva precedentemente ipotizzata, attualmente il cervello non possiederebbe affatto le facoltà atte alla conoscenza scientifica delle strutture viventi, compresa la propria. Questa conoscenza biologica, lo ribadiamo, appare come il frutto di un’attività artificiale, compiuta con strumenti esterni e diretta verso degli obbiettivi che, pur essendo realtà interne, in quanto appartenenti al corpo stesso, appaiono di fatto come oggetti estranei. Il corpo ignora il corpo, la realtà biologica ignora la propria stessa biologia. La coscienza non conosce affatto in maniera innata il proprio strumento corporeo malgrado, secondo la supposizione dei pensatori materialisti, esso ne condivida totalmente la natura. L’evoluzione biologica che avrebbe prodotto l’intelletto, risulta esser stata incapace di conferirgli la cognizione spontanea della sua stessa biologia. La vita avrebbe generato la coscienza, ma questa stessa coscienza ignora del tutto la vita stessa che l’ha generata, ossia la propria stessa realtà, poiché questa coscienza sarebbe necessariamente vita essa stessa, non avendo altra origine e sostanza che quella. Inoltre, se la vita non intelligente avesse davvero prodotto la vita intelligente – ipotesi di per sé assai problematica -, allora quest’ultima dovrebbe esserle senz’altro superiore, e, possedendo la facoltà conoscitiva, dovrebbe essere in grado di conoscere naturalmente la prima, sia in quanto essa le è inferiore, e sia in quanto le sarebbe congenere; ma così non è affatto. Tutte queste contraddizioni della teoria evoluzionista sono enormi e palesi.

Più in generale, se la materia contenesse già in se stessa, intrinsecamente, l’intelligenza produttrice delle forme biologiche, allora noi dovremmo percepirla nel nostro intero corpo, in ogni suo atomo, ed invece sappiamo con assoluta certezza che così non è affatto. Noi siamo effettivamente autocoscienti, ma il nostro corpo, in quanto tale, non lo è per niente; la materia, infatti, è notoriamente inerte ed assolutamente incapace di plasmarsi, o anche solo muoversi, da sé.

Resta dunque che noi possediamo un’intelligenza che non è affatto confondibile col nostro cervello, e, pur essendo perfettamente coscienti della razionalità indubitabile della struttura degli organismi, siamo costretti a riconoscere che l’intelligenza che l’ha prodotta è necessariamente una misteriosa entità esterna, la quale dev’essere posta inevitabilmente al di fuori dello stesso universo fisico. Intelligenza indipendente, trascendente, divina.