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Fenomenologia del nichilismo. L’individualismo senza individuo

di Fabio Bentivoglio - 17/07/2012

Proponiamo ai lettori un articolo che risale al 2003, ma che ha il passo e la durata di un pensiero lungo.

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Il quotidiano La Repubblica, tra l’agosto e il settembre 2002, ha dedicato otto pagine culturali ad altrettanti sostanziosi articoli di Umberto Galimberti, sotto il titolo “I vizi capitali di questo secolo”. L’iniziativa merita attenzione, dato il ruolo dei protagonisti nel panorama mediatico e culturale. La Repubblica è il quotidiano che in Italia ha formato la mentalità del nuovo ceto medio colto di sinistra, e ha ragione Costanzo Preve, quando osserva che in questo ventennio il giornale di Scalfari ha avuto la funzione di traghettare la generazione di sinistra italiana degli anni Sessanta e Settanta, verso una progressiva acculturazione funzionale al capitalismo globalizzato. E ha ragione quando scrive che «La Repubblica è stata a tutti gli effetti L’Unità del nuovo ceto medio di sinistra, e ne ha influenzato la mentalità, i comportamenti di costume, politici ed elettorali» (Indipendenza, n° 9, gennaio-febbraio 2001).

Questa tribuna mediatica diventa poi particolarmente efficace, quando si avvale di intellettuali come Galimberti, che sanno tenere insieme linguaggio filosofico e capacità divulgativa.

Nel loro insieme, gli otto articoli di Galimberti descrivono con estrema chiarezza quella che chiamerei la fenomenologia del nichilismo, riconosciuta nei più comuni stili di vita e nelle forme dominanti della personalità. Il discorso, nel complesso, è piuttosto articolato: ripercorriamolo in estrema sintesi, e vediamo di riflettere sui punti essenziali.

I temi affrontati sono, nell’ordine: consumismo, conformismo, spudoratezza, sessomania, psicopatia, diniego, vuoto (pubblicati nei giorni 8, 15, 24, 28 agosto, e 1, 5, 8 settembre 2002).

 

dees Food Chemicals ImageIl consumismo. Si tratta di un vizio, osserva Galimberti, perché crea in noi una mentalità a tal punto nichilista da farci ritenere che solo adottando sistematicamente il principio del consumo degli oggetti, possiamo garantirci identità, stato sociale, libertà e benessere. In realtà il mondo dell’economia, fondato sulla circolarità produzione- consumo, ha come sua condizione il principio della distruzione; l’apparato economico crea un universo di cose sostituibili con modelli più avanzati, per cui produce “un mondo da buttar via”, in cui finisce per essere coinvolto l’uomo stesso.

Il principio della distruzione immanente alla produzione, genera il dissolvimento della durata temporale: il tratto nichilista dell’economia consumista che vive della negazione del mondo da essa prodotto, perché la sua permanenza significherebbe la sua fine, destruttura nei consumatori la dimensione del tempo, sostituendo alla durata temporale, che è fatta di passato, presente e futuro, la precarietà di un assoluto presente che non deve aver alcun rapporto col passato e col futuro.

Gli effetti della cultura del consumismo sulla costruzione e sul mantenimento dell’identità personale sono disastrosi, perché l’individuo senza più un ordine di riferimenti costanti, senza più luoghi di ancoraggio per la sua identità perde la continuità della sua vita psichica. Perde anche la sua libertà, perché in una cultura dove nulla è durevole, la libertà si riduce ad essere scelta di mantenersi aperta la libertà di scegliere, con il sottinteso che si tratta di indossare e scartare le identità così come facciamo con gli abiti. Diversamente la libertà si riconosce dove la scelta produce differenze, modificando il corso delle cose.

 

Il conformismo. In tutte le epoche gli uomini hanno dovuto adattarsi in misura maggiore o minore al proprio tempo. La peculiarità della nostra epoca, quella della tecnica e dell’economia globale, è di essere la prima a chiedere l’omologazione di tutti gli uomini come condizione della loro esistenza. Gli scopi che l’apparato tecnico si propone non rientrano nelle competenze del singolo individuo, e ciò comporta che la coscienza dell’individuo si riduce alla coscienziosità nell’esecuzione del suo lavoro. Qui germina il conformismo. Del resto, ricorda Galimberti, fin da piccoli ci siamo sentiti dire che il successo si consegue più facilmente se ci si adatta alle esigenze degli altri, e come l’accoglienza in una comunità sia direttamente proporzionale al nostro grado di adattamento.

Ma l’uniformità che ci viene chiesta oggi ha caratteristiche peculiari: «Affinché l’adattamento non venga avvertito come una coercizione è necessario che il mondo in cui viviamo, che è poi il mondo della tecnica e dell’economia globale, non venga avvertito come uno dei “possibili” mondi, ma come l’“unico” mondo, fuori dal quale non si danno migliori possibilità di esistenza». Si tratta di avvertire gli obblighi imposti da questo mondo come condizioni naturali di essere nel mondo.

Conclude Galimberti: «Quando un mondo riesce a farsi passare come l’unico mondo, l’omologazione degli individui raggiunge livelli di perfezione tali che i regimi assoluti o dittatoriali delle epoche che ci hanno preceduto neppure lontanamente avrebbero sospettato di poter realizzare». La diffusione dei mezzi di comunicazione che la tecnica ha reso esponenziale tende ad abolire la necessità della comunicazione, perché non si dà esigenza di comunicazione là dove è abolita la differenza specifica tra le esperienze del mondo che sono alla base di ogni bisogno comunicativo. L’omologazione che esige la società spinge i singoli individui, ad essere sempre meno se stessi e sempre più congruenti all’apparato. Per esserci bisogna apparire, perché il mondo, tra uomini e merci è diventato una mostra. Ma chi non ha nulla da mettere in mostra – una merce, un corpo, un’abilità… – espone la propria interiorità.

 

Ecco la spudoratezza, con riferimento non tanto allo scenario sessuale, quanto al crollo di quelle pareti che consentono di distinguere l’interiorità dall’esteriorità. «I tracciati profondi dell’anima, in cui ciascuno dovrebbe riconoscere le radici profonde di se stesso, una volta immessi senza pudore nel circuito della pubblicizzazione, quando non addirittura in quello della pubblicità, non sono più propriamente miei, ma proprietà comune … il pudore, prima di una faccenda di mutande è una faccenda d’anima che, una volta depsicologizzata, perché si sono fatte cadere le pareti che difendono il dentro dal fuori, l’interiorità dall’esteriorità, non esiste semplicemente più».

 

obseksuaAnche la sessualità è risucchiata nel vortice della mercificazione e del conformismo, trasformandosi in sessomania, il quarto dei vizi capitali. La tesi di Galimberti è che «nonostante il suo innegabile tripudio e la sua ostentazione senza limiti, nella nostra cultura non c’è più sessualità, perché ciò che si persegue è la parodia della sessualità, già ampiamente controllata dai produttori della sessualità che l’hanno iscritta nella contrattazione e nella ripetizione, dove ciò che si legge è solo l’estinzione del desiderio e il suo inganno». Riguardo al quinto dei vizi capitali, la psicopatia (nel senso di immaturità affettiva, indifferenza alle frustrazioni, incapacità di esprimere sentimenti positivi…)

Galimberti pone una domanda, anche sotto l’urgenza dei tanti fatti di cronaca che dai lanciatori di sassi dai cavalcavia ad Erika ed Omar occupano con troppa frequenza la cronaca: «Disponiamo ancora di una psiche capace di elaborare i conflitti e, grazie a questa elaborazione, in grado di trattenerci dal gesto?». La questione è di grande rilevanza, perché è difficile pensare di governare la propria vita senza un’adeguata conoscenza di sé. Credo di no, risponde Galimberti, perché la nostra società ha sviluppato un individualismo esasperato e una possibilità di scelta e di libertà che le società che ci hanno preceduto non hanno mai conosciuto, arginate com’erano dalle ristrettezze della povertà e dall’inquadramento offerto dalla tradizione religiosa condivisa, che fungevano da strutture di contenimento. Oggi questi argini sono saltati – grazie a Dio – ma la nuova individualità che si va affermando pare proprio non avere la forza di reggere lo spazio di solitudine e di libertà che le è stato concesso.

Arriviamo così al sesto vizio capitale, il diniego, che merita un’attenzione particolare: esso consiste nel negare, nelle forme più svariate ed ipocrite, l’esistenza di ciò che esiste e per giunta si conosce. Un vizio antico ma che oggi i mezzi di informazione hanno reso esponenziale. Come reagiamo quando al mattino leggiamo nelle pagine degli esteri dei nostri giornali le atrocità perpetrate a Timor Est, in Uganda, in Ruanda o in Guatemala? Il più delle volte assorbiamo tutto e restiamo passivi: «Per catturare Bin Laden gli americani e i loro alleati hanno ammazzato cinquemila afgani civili, non importa se uomini, donne, bambini. Erano innocenti tanto quanto le vittime americane delle due Torri. Qui il diniego si manifesta con una frase che è girata ovunque come un dettato ipnotico che tranquillizzava tutte le coscienze: “Mi dispiace per la popolazione innocente, ma ci voleva una risposta”. Niente impediva che al posto di questa frase ce ponessimo un’altra: “Siamo disposti a uccidere cinquemila innocenti pur di catturare Bin Laden?”. Quale meccanismo induce la gente a negare cose come se non sapesse quello che sa? Non c’è in questo mancato riconoscimento la prima radice, e se vogliamo la più profonda, dell’immoralità collettiva?».

 

Arriviamo così all’ultimo dei nostri compagni di vita: il vuoto. Galimberti incentra l’analisi soprattutto sul mondo giovanile, su cui «si buttano le nuove aree di profitto che hanno fatto proprie le istanze stilistiche, comportamentali ed espressive tipiche della condizione psichica giovanile, che la pubblicità, la produzione dell’abbigliamento, le agenzie di viaggio e l’industria del divertimento hanno decodificato molto meglio di quanto non abbiano fatto le analisi psicologiche del profondo e la cultura devitalizzata della scuola. In questo modo tra i quindici e i venticinque anni, quando massima è la forza biologica, emotiva e intellettuale, molti giovani vivono parcheggiati in quella terra di nessuno dove la famiglia non svolge più alcuna funzione, e la società alcun richiamo, dove il tempo è vuoto, l’identità non trova alcun riscontro, il senso di sé si smarrisce, l’autostima deperisce. …. All’ io di questi giovani è stato insegnato tutto , ma non come mettere in contatto il cuore con la mente e la mente con il comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo che gli eventi del mondo incidono nel loro cuore. Queste connessioni che fanno di un uomo un uomo non si sono costituite e perciò nascono biografie capaci di gesti tra loro a tal punto slegati da non essere percepiti neppure come propri».

 

Da questa ricognizione dei predicati della soggettività contemporanea emerge dunque quanto segue. Elenco nell’ordine: destrutturata, quanto alla dimensione del tempo; privata della possibilità di realizzare una forma di libertà originale ed autentica; omologata senza avere la coscienza di esserlo; incapace di comunicare; depsicologizzata; incapace di vivere la dimensione più specificatamente umana della sessualità; priva del tutto di conoscenza di sé; profondamente immorale nel suo abbandonarsi alla corrente del diniego; vuota. Non si potrebbe descrivere meglio la fenomenologia del nichilismo. Qui però non siamo di fronte ad una soggettività deviata, ma all’annullamento della soggettività. Questo è il punto da cui dipanare il nostro ragionamento.

Gli articoli di Galimberti offrono lo spunto per discutere una questione filosofica che giudico strategica. Chi scrive è convinto che oggi una critica radicale al capitalismo globalizzato, non possa prescindere da una fondazione filosofica, trascendentale, logico-razionale, di struttura coscienziale universale di uomo. Senza disporre di questo fondamento non saprei su quali basi, se non soggettive e contingenti ancorché nobili, auspicare il superamento dell’attuale configurazione dei rapporti di produzione. In quale direzione, poi? “Superare” non significa approdare nel sereno mondo dei fiori.

Fare riferimento ed identificare le strutture trascendentali dell’essere dell’uomo, significa cogliere la verità (trascendentale) dell’uomo. Non credo di sbagliare dicendo che nell’attuale universo filosofico il vero discrimine passa tra quanti negano realtà ad un’idea di uomo con strutture permanenti di essere (liquidando la questione a priori, perché metafisica, secondo un’accezione premoderna della metafisica), e quanti invece ne propongono l’attualità (un’esigua minoranza), annoverandola con urgenza nell’agenda della filosofia con il fine di ricostruire quel linguaggio umano che, come denuncia lo stesso Galimberti, oggi è oscurato.

 

labyrinth nihilSarebbe davvero poca cosa se chi proponesse l’attualità di una ricerca sul fondamento veritativo dell’uomo fosse animato solo dall’intenzione soggettiva di reperire comunque uno strumento critico per rifiutare l’esistente. L’idea di uomo sarebbe allora un conforto strumentale, e la questione non meriterebbe di essere discussa. Ciò che si afferma invece è ben altro, e cioè che uno dei tratti più devastanti dell’attuale pensiero nichilista è proprio quello di aver concettualizzato a livello filosofico un’idea di realtà umana illimitatamente plasmabile, con un dispositivo teorico che legittima ontologicamente qualsiasi modalità dell’esistenza dell’uomo, rubricata comunque sotto la categoria dell’essere. Sia pure di un essere che oscura se stesso. Galimberti si muove in questo orizzonte, caratterizzato, però, da più di una contraddizione.

La dimostrazione della verità di un assunto filosofico, nel nostro caso l’idea di un fondamento ontologico dell’essere dell’uomo, può essere diretta, ma anche “indiretta”. Si può cioè verificare se quelle teorie che negano tale assunto, non finiscano poi per contraddirsi.

È il metodo che Hegel ha utilizzato nella Fenomenologia dello Spirito per dimostrare la verità dell’assunto idealistico dell’identità soggetto-assoluto: tutte le concezioni del mondo o “figure” che muovevano da un presupposto diverso – quello cioè di una verità che trascende l’essere dell’uomo – dimostra Hegel come finiscano per contraddirsi, rivelandosi così dei saperi apparenti. Vediamo allora se l’idea di struttura coscienziale umana, universale e immutabile nei suoi fondamenti trascendentali, agisce anche all’interno di una teoria che la nega.

 

Riprendiamo allora il discorso di Galimberti sulla soggettività contemporanea: identificati i suoi predicati, o meglio i non-predicati, credo che il lettore, oltre a perdere coraggio, si sarà domandato: se questa è la condizione della soggettività, quella cioè di essere un guscio vuoto senza più alcun tratto di umanità, che dobbiamo fare? La stessa domanda se l’è posta Galimberti.

 

La sua risposta sarà oggetto della nostra riflessione:

«Che fare? Nulla. Perché l’identità personale a cui fare appello per arginare gli inconvenienti del consumismo non c’è più, essendo stata a sua volta risolta in un insieme di bisogni e desideri programmati dal mercato. A differenza dei vizi capitali che segnalano una deviazione della personalità, i nuovi vizi ne segnalano il dissolvimento, che tra l’altro non è neppure avvertito, perché investe indiscriminatamente tutti. I nuovi vizi, infatti, non sono personali, ma tendenze collettive a cui l’individuo non può opporre un’efficace resistenza individuale, pena l’esclusione sociale. E allora perché parlarne? Per esserne almeno consapevoli, e non scambiare per valori della modernità quelli che invece sono solo i suoi disastrosi inconvenienti. ... Ma che ne è di una società che fa a meno dei suoi giovani? È solo una faccenda di spreco di energie o il primo sintomo della sua dissoluzione? Forse l’Occidente non sparirà per l’inarrestabilità dei processi migratori, contro cui tutti urlano, ma per non aver dato senso e identità, e quindi per aver sprecato le proprie giovani generazioni».

 

Puntiamo l’attenzione su quel “disastroso inconveniente” della modernità. Galimberti non usa le parole con leggerezza, e non è un caso che sia ricorso a questa espressione per sintetizzare il suo pensiero. Come è possibile rubricare il dissolvimento della soggettività sotto la categoria dell’“inconveniente” sia pure “disastroso”? La parola nella sua corretta accezione rimanda ad un soggetto la cui azione è in qualche modo disturbata o limitata. Se i freni della mia bicicletta perdono di efficacia quando piove, è corretto dire che un inconveniente della bicicletta è la difettosità della frenata in caso di pioggia: è corretto perché il soggetto (la bicicletta) è limitato nel suo uso da un determinato disturbo.

Di fronte però ad una bicicletta senza ruote non potrei parlare di inconveniente, sia pur disastroso, perché verrebbe meno il soggetto di cui dovrei predicare il disturbo. Insomma, nel momento in cui il soggetto titolare degli inconvenienti non c’è più, non possiamo predicargli alcunché. Stesso discorso vale per la soggettività umana: questa è tale se si struttura in una identità. Se però l’identità contemporanea si risolve in “un insieme di bisogni programmati dal mercato”, l’identità cessa di essere tale, quindi di avere realtà, quindi non ha più senso parlare di soggettività umana e di inconvenienti che l’affliggono (è la bicicletta senza ruote).

Questa contraddizione che emerge a livello linguistico con l’uso improprio del termine “inconveniente”, è la spia di una contraddizione che si colloca a livello speculativo. Come è possibile rilevare la difettosità di una realtà se non alla luce di un’idea di compiutezza di cui quella realtà dovrebbe consistere? Torna bene l’esempio di Sartre del quarto di luna: in sé il quarto di luna è perfetto; se alla coscienza appare mancante è perché questa lo raffronta con la circolarità della luna piena. Nel caso in questione, la luna piena è l’idea di una struttura coscienziale trascendentale di uomo.

Solo alla luce di questo fondamento si può giudicare negata un’identità che si risolva nei bisogni programmati dal mercato. Senza un’idea di compiuta soggettività umana, che funga da criterio di giudizio veritativo, si potrebbe sostenere che la soggettività contemporanea (al pari del quarto di luna) è in sé perfetta, in quanto caratterizzata da quei predicati espressi dalla nostra epoca. Ma se giudichiamo negativamente un’identità che si costituisce sulla base dei bisogni imposti dal mercato da quali presupposti muoviamo?

Che cosa ha in mente Galimberti – e con lui i teorici del nichilismo – quando affermano che senza determinate connessioni interiori e senza una determinata conoscenza di sé “un uomo non è un uomo”?

La proposizione sottintende che i predicati che ineriscono la soggettività non siano illimitatamente modificabili, tanto più quando ci si viene a trovare nella contraddittoria situazione logica di dover dichiarare dissolto il soggetto di tali predicati.

Che fare, allora? Nulla, risponde Galimberti, perché il prototipo di soggettività in grado di reagire a questo spaventoso vuoto esistenziale, oggi non c’è più, per cui non si sa a chi far appello.

Il “nulla” della risposta merita un’ulteriore sosta riflessiva, non tanto per confutare la posizione personale di un intellettuale, quanto perché essa esprime un sentire comune, in questo caso nobilitato culturalmente con argomenti in parte veri.

La domanda “che fare?” rimanda ad una prospettiva di azione. Il concetto di “agire”, però, lo insegna Sartre, contiene numerose nozioni subordinate tra cui quella di modificare l’aspetto del mondo e di disporre dei mezzi in vista di un fine. L’agire è per sua natura intenzionale. Quali sono le condizioni che spingono l’uomo ad agire? Nessuno stato di fatto, qualunque esso sia, è suscettibile di causare per se stesso un atto qualsiasi nell’accezione appena detta; nessuno stato di fatto può determinare la coscienza a coglierlo come negatività o come manchevolezza. La sofferenza di una soggettività privata delle condizioni stesse della sua realtà, non può cioè costituire, da sola, il movente di un’azione volta a modificare quegli aspetti del mondo da cui deriva quella sofferenza, anche perché quello stato di fatto non può essere colto come manchevolezza dal soggetto che lo patisce. Riflettiamo su questo passo di Sartre tratto da L’essere e il nulla: «Qui bisogna capovolgere l’opinione generale e riconoscere che non è la durezza della situazione o le sofferenze che essa impone a dar luogo alla concezione di un altro stato di cose nel quale tutto il mondo migliorerebbe; invece è appunto dal giorno in cui si può concepire un altro stato di cose che una luce nuova cade sulle nostre pene e sulle nostre sofferenze, e allora noi decidiamo che esse sono intollerabili ... L’operaio del 1830 è capace di ribellarsi se gli abbassano i salari, perché immagina facilmente una situazione in cui il suo miserabile livello di vita sarebbe meno basso a confronto di quello che gli si vorrebbe imporre. Egli tuttavia non si rappresenta le sue sofferenze come intollerabili, si adatta, non per rassegnazione, ma per il fatto che egli manca di quella cultura e di quella riflessione necessarie a fargli concepire uno stato sociale in cui le sue sofferenze non esisterebbero. Perciò egli non agisce».

La condizione prima dell’agire è dunque la libertà del soggetto agente, che si manifesta nella possibilità di concepire un altro stato di cose: l’attuale profilo esistenziale della soggettività può essere avvertito come intollerabile solo alla luce di un’idea di compiutezza della coscienza che retroagisce sull’esistente in vista di una azione trasformativa. Galimberti annulla la condizione dell’agire, trasformando arbitrariamente la soggettività dominante nell’attuale orizzonte umano, nell’unica possibile soggettività. La generalizzazione assoluta del nulla legittima la terapia del nulla: in un mondo popolato interamente da soggettività simili a gusci vuoti, non può esserci soggettività in grado di percepire il proprio vuoto: non avendo l’idea del “pieno”, è ovvio, non si può far nulla, ma così si è provveduto a cancellare – arbitrariamente – la condizione stessa dell’agire.

In realtà ciò che viene descritto da Galimberti è sì l’impronta della soggettività contemporanea, ma questa, per quanto maggioritaria, non occupa l’intero orizzonte umano; se così fosse, non saremmo in condizioni di descriverla, perché quanti vi sono immersi non disporrebbero degli strumenti per potersi percepire come mancanti. Ciò che diciamo e scriviamo, invece, nasce da una alterità che osserva un orizzonte difettivo: l’Altro – inteso come altra possibilità d’essere della soggettività, come altro stato di cose – rivela quindi una sua realtà, sia pure residuale. Dal punto di vista ontologico l’Altro è l’idea di struttura coscienziale trascendentale, che costituisce il criterio veritativo di osservazione . Dal punto di vista storico l’Altro si sostanzia come lotta e dibattito nel mondo, con alfabeti diversi, sulla possibilità di “un altro stato di cose”, così come a livello individuale si sostanzia in tutte quelle soggettività la cui identità non è programmata dal mercato.

Allora per un intellettuale che denuncia la dittatura del mercato, ci sarebbe molto da fare: la cosa più lineare sarebbe di adoprarsi per fare cadere questa dittatura, così come è giusto che cadano tutte le dittature; in subordine potrebbe affermare la propria libertà, tenendo in vita la concezione di un altro stato di cose. Ma quest’ultima prospettiva è la più temuta e combattuta, anche a livello di senso comune: il militante del gruppuscolo comunista, il professore universitario progressista, l’operaio, l’elettore di Forza Italia, l’insegnante, il fruttivendolo, il sindacalista, l’impiegato, il bancario… discutendo di attualità, alla fine converranno tutti su un punto: l’inarrestabilità dei processi di trasformazione sociale ed umana imposti dal neoliberismo, e di conseguenza l’inutilità di ogni azione mirante a modificare sostanzialmente l’attuale stato di cose (cade fuori dal mio discorso, ovviamente, la stupidità criminale del terrorismo). È il trionfo del nichilismo: togliendo il senso ad ogni prospettiva umana diversa da quella storicamente dominante, si toglie senso al predicato fondamentale della soggettività, quello della progettualità trasformativa, ridotto a progettualità adattiva, tratto distintivo degli animali.

 

Recentemente, nel Liceo dove insegno, circolava una rivista che riportava l’intervista fatta da alcuni studenti a un partigiano, in occasione di un incontro con l’A.N.P.I. (Associazione Nazionale Partigiani Italiani). Tra le tante domande, gli studenti hanno chiesto all’ex partigiano, un anziano intagliatore in legno di mobili, se anche le ragazze erano coinvolte alle adunate del fascismo. Riporto e concludo con domanda e risposta:

d. E le ragazze?

r. C’erano le piccole italiane con la camicia bianca e la gonnella azzurra, venivano alle adunate, ma erano sempre le solite sette.

d. Loro venivano a discutere di attualità con voi?

r. No, e comunque a quei tempi nessuno parlava, ora sembra difficile pensarlo, ma a scuola e per strada si parlava di altro. Tanto quello era il sistema. Nessuno pensava alla possibilità che si potesse cambiare qualcosa.

 

 

Pubblicato su Koinè, Periodico culturale – N° 1 – Gennaio 2003

Tratto da http://www.petiteplaisance.it/ebooks/1001-1030/1009/el_1009.pdf