Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Tutte col grembiule

Tutte col grembiule

di Francesco Lamendola - 17/07/2012

 


 

Fino all’inizio degli anni ’70, in moltissime scuole d’Italia le ragazze venivano a scuola col grembiule, tanto alle elementari - come, del resto, i maschietti -, quanto alle medie e alle superiori; nelle scuole pubbliche, sia chiaro, e non solo in quelle private.

Indossavano tranquillamente il loro grembiule nero con il colletto bianco e solo le più audaci, che lo tenevano un po’ più corto, lasciavano intuire la minigonna che portavano sotto, o introducevano una nota lievemente sensuale, in tanta castigatezza, per mezzo degli stivali alti o, magari, delle calze trasparenti; e questo era tutto.

Non si respirava per nulla una atmosfera repressiva - repressivi, semmai, erano quei presidi che, in certi istituti, rimandavano a casa i ragazzi che si presentavano con la camicia senza cravatta, oppure con il maglione a girocollo; le ragazze vivevano l’obbligo del grembiule con la massima disinvoltura, come cosa assolutamente giusta e innocua.

Probabilmente non c’era nessun regolamento di istituto che lo prescrivesse in maniera esplicita; era piuttosto un uso, una consuetudine che si tramandava pacificamente da una generazione all’altra. Nemmeno il mitico ’68 era riuscito a scuoterla; anzi, per la verità, fra le innumerevoli assemblee, più o meno estemporanee, che continuamente interrompevano il regolare andamento delle lezioni, e nelle quali si parlava e straparlava letteralmente di tutto, dalla riforma scolastica al Vietnam, passando per tutte le gradazioni e le meraviglie della democrazia assembleare, non abbiamo alcun ricordo che si sia mai sollevata la questione “grembiule”.

Non era un simbolo di sottomissione e meno ancora di discriminazione di genere; era un fatto di civiltà. Grazie al grembiule sparivano, almeno visivamente e simbolicamente, le differenze di censo, per non parlare degli esibizionismi, delle sorde gelosie, delle inconciliabili invidie; sparivano, almeno fino a un certo punto, le ricche e le povere, le maggiorate e le bruttine, le sfrontate e le timide.

Non si sfoggiavano camicie o maglioni firmati da centinaia di euro; non si esibivano gonne o pantaloni griffati ancor più costosi; niente spacchi volgari, niente scolature procaci, niente ammiccamenti sessuali, niente sfoggio di ricchezza, di vanità, di competizione: per mostrare qualcosa di diverso, qualche volo di fantasia, qualche irruzione di creatività personale, restavano solo le scarpe e l’acconciatura dei capelli.

La fiera delle vanità, che sempre intossica l’atmosfera in un ambiente femminile, era sospesa, almeno in quelle poche ore e in quel determinato ambiente. A scuola si veniva per studiare, non per civettare o per provocare. Se le ragazze avevano molto seno oppure poco, se potevano sfoggiare belle gambe oppure no, questo lo si capiva a malapena e, in ogni caso, non era all’ordine del giorno; almeno nelle scuole di provincia e nelle scuole riservate ai ceti medio-bassi: le professionali, gli istituti tecnici e gli istituti magistrali.

I figli e le figlie di papà andavano al liceo e, poi, dritti all’università, che fossero portati oppure no; dalle loro file, nella maggior parte dei casi, sono poi usciti i capi e i capetti della contestazione universitaria, i Che Guevara in sedicesimo, i devoti seguaci del professor Toni Negri che sognavano la rivoluzione e intanto stavano col sedere al caldo grazie ai loro borghesi genitori.

Del resto, i ragazzi di quella generazione erano sulla stessa lunghezza d’onda delle loro compagne: niente zainetti ultimo grido, solo una cinghia per legare i libri; e niente capi vistosi o costosi, solo il Montgomery, l’inverno, per suggerire una propensione verso destra, o un Eskimo per indicarne una a sinistra. E non tutti, ma solo alcuni; specialmente nelle classi abbienti, vale a dire nelle classi dei licei, proprio quelli dove i presidi stavano di guardia sul portone per sorvegliare la camicia bianca e la cravatta dei loro alunni. Gli altri venivano a scuola indossando abiti pratici, non esclusa la giacchetta rivoltata del papà o del fratello maggiore.

Oggi non solo nelle scuole, ma anche negli uffici pubblici, si stenta a capire dove ci si trovi, tale è l’esibizione della vanità femminile, l’esposizione dei seni e dei fondo schiena, lo sfoggio dei reggipetti e dei perizomi a vista, con tanto di filo che sparisce nelle profondità proibite, in mezzo ai glutei. Siamo arrivati al punto che, per esempio, l’utente (maschio) di un ufficio postale non sa letteralmente dove posare lo sguardo, per non fare la figura del guardone o del porco sessista e prepotente.

Non che le donne, fra di loro, stiamo bene in tali ambienti: la competizione dell’abbigliamento e, in controluce, quella erotico-sessuale sono talmente serrate e feroci, che nessuna può fidarsi dell’altra; rare sono le amicizie, rari i casi di leale collaborazione professionale; regna un clima di sospetto, di invidia, di maldicenza. Non ne parliamo, poi, se il capoufficio è donna: subito si creano due partiti: quello delle favorite e quello delle diseredate, l’un contro l’altro armati.

Le migliori ci soffrono, le altre si adattano; ma non sono poche quelle che rimediano uno stato di frustrazione e di depressione cronica. Non è piacevole andare a studiare o a lavorare in un ambiente dove c’è sempre quella che si mette in mostra ostentando un vestito nuovo al giorno, torreggiando sulle altre coi suoi dodici centimetri di tacco, facendo sparire tutte davanti ai maschi, colleghi o clienti che siano, con acconciature da parrucchiere da cento euro e anche più, ogni settimana che Dio manda (ma dove troveranno il tempo, poi, oltre ai quattrini?).

Regnano il nervosismo, l’ostilità più o meno dissimulata, il rancore mascherato dietro i sorrisi, i pugnali avvelenati nascosti per mezzo di esagerate manifestazioni di cordialità, di interessamento e perfino di amicizia: consigli sulla palestra più “in”, su dove andare a prendere il sole, addirittura sugli asili nido per i bambini. Ma poi, alla prima occasione, ecco la frase maligna, l’insinuazione velenosa, l’unghiata nel punto più esposto, dove fa più male.

«Come sei pallida, cara, dovresti riposarti di più»; quando si sa benissimo che la poveretta va avanti a sonniferi e psicofarmaci, e forse la causa non ultima di tanta sofferenza è proprio la tossicità dell’ambiente di lavoro. «Ti vedo stanca, dovresti staccare la spina per un po’ e andare in ferie»; che, tradotto, vuol dire: hai un aspetto che fa schifo, nessuno ti fila neanche di striscio, guarda me invece che schianto, non c’è uomo cui non faccia girare la testa, dagli adolescenti ai vecchi decrepiti, e per tutti ho un sorriso assassino, uno sbatter fatale di occhioni. Impara, bimba, come si sta al mondo; mi sa che non vai mica lontana con quegli straccetti che ti metti addosso e quel colorito latteo che pare di ospedale.

Oppure: «Sai, dovresti proprio andare al mare qualche giorno con tuo marito», facendo finta di non sapere che il brav’uomo ha preso la tangente e chi sè visto s’è visto, si vocifera che abbia spiccato il volo con un’altra, più bella e molto più giovane, che potrebbe essere sua figlia. «Anche tu hai l’allergia al polline, povera cara, ne so qualcosa pure io», mentre si sa e si capisce benissimo che quegli occhi gonfi, quelle occhiaie spaventose sono il frutto di veglie interminabili e di pianti prolungati, perché la vita sentimentale della collega va a rotoli e tutte ne parlano e ci spettegolano sopra, peggio di una gazzetta della sera.

Per non parlare dei complimenti, ancor più velenosi della finta sollecitudine: «Come stai bene adesso, hai una linea da fare invidia a una quindicenne», per rimarcare, con quell’«adesso», che, prima della cura dimagrante, la disgraziata pareva una balena; e con quella allusione alle adolescenti per sottolineare che di anni, quella, ne deve avere almeno cinquantacinque, anche se ne dimostra un po’ di meno e si sforza disperatamente di tener segreta la sua data di nascita. E poi, cosa vuol dire: «hai una linea da fare invidia» a una che pare uno scheletro ambulante, con le guance infossate e le vene del collo in bella vista, che quando cammina ti par di sentire scricchiolare tute le sue ossa, come in una danza macabra?

Le donne sono le prime ad ammetterlo: trovarsi ogni giorno in un ambiente interamente o prevalentemente femminile è un supplizio, altro che «homo homini lupus» e «mors tua, vita mea»; lì non ci sono regole, non si concede quartiere, non si fanno prigionieri; ogni colpo, per quanto  basso, è legittimo e si punta a infliggere il massimo del male alle possibili rivali, onde spezzarne le velleità prima che possano dare ombra, prima che possano diventare pericolose. Solidarietà zero, se qualcosa va storto sul lavoro, se capita un incidente o se il capo ne prende una di mira e la umilia davanti a tutti, inutile aspettarsi un minimo di solidarietà o, almeno, di benevola neutralità; no, l’occasione è troppo ghiotta per non darle il colpo di grazia.

Insomma, tutto considerato crediamo che non sarebbe male un ritorno al grembiule nero per le studentesse e per le pubbliche impiegate; e osiamo pensare che moltissime di loro sarebbero d’accordo, se potessero esprimere il loro parere in segreto, cioè senza doversi esporre al dileggio e alle rivalse delle colleghe. Perché, nonostante certe apparenze, la maggioranza delle persone, donne comprese, va a scuola o in ufficio per studiare o per lavorare e non per fare a gara a chi ha il vestito più bello, più costoso e più sexy.

Così, questa che potrebbe sembrare una “boutade” o, peggio, una proposta biecamente maschilista, crediamo che andrebbe incontro ai segreti desideri di moltissime donne e ragazze e servirebbe a riportare un po’ di serenità in un ambiente già di per se stesso reso sgradevole da un clima di competizione esasperata e di mal dissimulata rivalità di tutte contro tutte.

C’è solo un piccolo particolare, per cui non verrà mai preso in considerazione: implicherebbe una ammissione della diagnosi testé fatta, ossia della assoluta incapacità, da parte delle donne, di organizzarsi fra loro in maniera da rendere un ambiente di studio o di lavoro sereno o, quanto meno, respirabile, mettendo da parte rivalità e gelosie e fondando le relazioni interpersonali sulla collaborazione franca e disinteressata.

Le femministe non lo ammetterebbero mai, nemmeno se fossero legate al palo della tortura; e anche molte altre donne, che pure riconoscerebbero ciò in privato, non sarebbero mai e poi mai disposte a dichiararlo in pubblico. Il motivo è che, nella donna, esiste una duplicità che è caratteristica del suo sesso: la stessa duplicità per cui, ad esempio, in pubblico non c’è donna che non ostenti il massimo disprezzo per un uomo come Salvatore Parolisi, sospettato di avere ucciso la moglie per amore di un’altra (e ne fanno fede innumerevoli, stucchevoli salotti televisivi straripanti di psicologhe, sociologhe, scrittrici, giornaliste, attrici, presentatrici e, magari, signore e signorine reduci dall’ultima edizione del Grande Fratello); ma è un fatto che, in prigione, il bellimbusto donnaiolo e, forse, uxoricida, riceve pacchi su pacchi di lettere scritte da ammiratrici che gli dichiarano tutta la loro devozione e la loro infuocata passione.

Quanto agli uomini, non c’è da aspettarsi molto da parte loro. Da quando si è imposta la cultura femminista, sono stati invasi dal terrore di non apparire aggiornati ai tempi nuovi, di poter essere anche soltanto sospettati di nostalgie per il caduto regime, odiosamente maschilista, che, come è noto, ha impazzato nel mondo per secoli e secoli; e ciò li spinge ad approvare incondizionatamente qualunque oracolo esca dalla bocca delle nuove o meno nuove sacerdotesse delle magnifiche sorti e progressive.

Dire, ad esempio, che la psicologia dell’uomo è diversa da quella della donna, sa già di eresia oscurantista; aggiungere che non esiste solidarietà femminile, mentre esiste quella maschile, è una provocazione bella e buona; figuriamoci se si vogliono trarre le conseguenze di quest’ultima affermazione e si prospettano i vantaggi di un ritorno al grembiule.

Accade frequentemente che la donna si lasci ingannare dalle apparenze e giudichi il rispetto dell’uomo nei suoi confronti non dai comportamenti concreti, ma dalle parole di lusinga e di adulazione con le quali certi uomini, in realtà assai poco virili, ma fortunatissimi in ambito sessuale, sanno circuirle e farle sentire appagate nel loro desiderio di ricevere attenzione.

Purtroppo molte donne non sanno riconoscere il vero rispetto da quello simulato e non si rendono conto di quanto poco le stimino quegli uomini che, accarezzando la loro vanità, anche di tipo intellettuale, le manovrano abilmente e le portano nell’unica direzione cui essi sono realmente interessati: quella della camera da letto.

Quante donne si concedono e si buttano via con uomini di nessun valore, solo perché hanno avuto la debolezza di lasciarsi sedurre da parole di ammirazione tanto sperticate quanto vuote; e quante donne sono disposte ad accettare l’omaggio mercenario di quegli pseudo-intellettuali che dicono loro tutto quel che esse amano sentirsi dire, anche se non è la verità; anche se la verità esigerebbe altri discorsi e altri atteggiamenti. Il vero amico, infatti, non è colui che ci adula e ci lusinga, ma colui che ci dice sinceramente il suo pensiero, per il nostro bene e non per un calcolo interessato…