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Nelle vecchie osterie di quartiere sopravvive l’anima genuina delle città

di Francesco Lamendola - 06/08/2012


Il passaggio è stato graduale e, come in molti altri casi - la scomparsa dei vecchi mestieri, ad esempio, o la rapida, silenziosa implosione della civiltà contadina - in molti non se ne sono accorti, a cominciare dai pretesi intellettuali, cioè coloro i quali, per professione, dovrebbero avere l’occhio e la mente esercitati e non lasciarsi sfuggire i passaggi epocali che avvengono sotto il nostro sguardo, ma così vicini da poter passare inosservati.

Stiamo parlando della progressiva rarefazione delle vecchie osterie di quartiere, che popolavano numerose i borghi cittadini fino a qualche anno fa e che ora sono diventate sempre più rare, anche se sopravvivono in alcune città a misura d’uomo che la valanga industriale non ha investito in pieno ma che ha lasciato un po’ in disparte, per loro fortuna, mentre fluiva impetuosa tutto intorno e disseminava le campagne e le periferie di capannoni, ciminiere e scarichi maleodoranti, imprigionandole in una fitta rete di strade, autostrade e svincoli trafficatissimi.

Là, negli antichi borghi medievali con le case a due o tre piani dai muri affrescati e incorniciati di edera, con i vasi di gerani alle finestre e i ponticelli che scavalcano fiumi e rogge quieti che portano un alito di frescura anche nel caldo torrido dell’estate, affacciate su qualche via dal pavimento acciottolato o su qualche piazzetta tranquilla con i panni stesi sui balconi ad asciugare, si aprono ancora le vecchie osterie, con  tavoli di legno massiccio e piani di marmo, le sedie impagliate, le pentole di rame appese alle pareti e magari qualche dagherrotipo, qualche sbiadita fotografia dei primi del Novecento, in cui si può misurare la trasformazione urbanistica che abbiamo vissuto con così scarsa sensibilità e consapevolezza.

Niente arredamenti di plastica, niente sedie di alluminio, niente musica ad alto volume e, soprattutto, niente giochi elettronici, niente macchinette mangiasoldi che, col loro clangore fastidioso e continuo, rendono difficile la conversazione; semmai, alcune mensolette di legno accanto ai tavoli, lungo le pareti, per posare i mazzi di carte degli affezionati della briscola; e ombra, ombra fresca come di cantina, poche finestre ma, in compenso, sovente, un bel cortiletto interno che, nella bella stagione, diventa il luogo ideale per sedere in santa pace a bere qualche bicchiere di buon vino in compagnia degli amici.

Quella delle osterie di quartiere è una vera e propria civiltà, una offerta di rapporto umano basato sulla serenità e sulla simpatia, fuori dalla fretta del mondo moderno, dai ritmi incalzanti dei rituali consumisti, dal vano agitarsi per fare mille cose di dubbia utilità; uno squarcio di democrazia pratica, ove si può incontrare il professore universitario che si gusta il suo bicchiere accanto al fruttivendolo o al falegname, in spirito di perfetta uguaglianza, accomunati dai discorsi sulla partita di calcio o su come preparare un piatto secondo l’antica ricetta.

In osteria non si andava, e non si va, solo per ingollare del vino; mentre si centellina il contenuto del bicchiere, accompagnandolo con un mezzo uovo sodo o con qualche fetta di patata lessa aromatizzata col prezzemolo, con qualche bocconcino di pomodoro secco, con due carciofini o con una acciuga sott’olio, per qualche minuto almeno ci si spoglia della veste affannosa della vita moderna e si ritorna uomini, si parla con gli altri, si riscopre il valore del tempo fuori dal tempo, il piacere di un buon bianco secco o di un rosso sincero che scorrono giù per la gola; il piacere di lasciar vagare lo sguardo sulle persone e sulle cose senza fretta, sena ansia; il piacere di assaporare pensieri ed emozioni; di tessere inconsciamente, ciascuno per la propria parte, la trama complessa della vita collettiva.

Ci si scambiano le ultime notizie, dov’è finito questo, dov’è andato quello; si viene a sapere di chi è nato e di chi è morto, di chi è partito e di chi è tornato, di chi si sposa e di chi si separa; e ci si accorge, vedendolo scritto sul volto del prossimo, del tempo che passa, impercettibile ma inesorabile, una capigliatura nera che è diventata grigia, un passo baldanzoso che si è fatto più incerto, una schiena dritta che si è incurvata; ma, nello stesso tempo, si vedono le nuove generazioni che subentrano a prendere il posto delle vecchie, come in un perenne respiro.

La partita a carte, la lettura del giornale, la chiacchierata senza pretese, ma non necessariamente insulsa, o anche il piacere del silenzio, nelle ore assonnate del primo pomeriggio o della sera tardi: tutto questo è socialità e, senza dubbio, è anche civiltà; molto più che lo stare chiusi in un ufficio, fra i computer, tutto il giorno; molto più che lo stare fermi alla catena di montaggio, ridotti a semplici appendici e servitori delle macchine, obbligati ad assumere i loro ritmi, a rispettare le loro esigenze, ad adeguarsi ai loro meccanismi.

Magari la vecchia osteria non è dotata dell’impianto ad aria condizionata e, d’estate, vi farebbe davvero troppo caldo, se non fosse per un ventilatore che ronza piano, appeso al soffitto; magari, d’inverno, bisogna sedere vicino alla stufa per scaldarsi come Dio comanda, perché il freddo si fa sentire; magari le mosche si posano sul bordo dei bicchieri e, scacciate, ritornano sempre, insistenti e fastidiose: e che, forse per questo ci sarà meno cara? Nemmeno la casa dei nostri vecchi genitori possiede tutte le comodità moderne: il deumidificatore, il videocitofono, l’ascensore; ma non per questo l’amiamo di meno, anzi semmai di più.

Così ha rievocato il clima delle vecchie osterie lo scrittore Cino Boccazzi, in un articolo apparso a suo tempo sul quotidiano «Il Gazzettino» e poi raccolto, con altri, in un volume (C. Boccazzi, «Vetrina», Riese Pio X, 1983, pp. 83-84):

 

«OSTERIA ALLE SCIATICHE. Una vecchia osteria sul vicoletto che da via Avogari  porta al Cortiletto degli Sbirri: si entrava da una porta, a vetri d’estate, spostando certe tendine di tubicini di latta.

A una tavola di legno scuro stava sempre seduto, alla sera, uno squisito umanista, Oreste Battistella, uno squisito umanista e un gran signore, alto imponente, il viso illuminato oltre che da un perpetuo sorriso, dal soffuso rossore del naso dovuto alle molte ombre di bianco di Soligo, un secco per cui il locale andava famoso.

Il nome picaresco veniva da una vicina clinica dove si curavano le sciatiche e negli intervalli fra i massaggi di erbe medicamentose che poi erano ortiche, raccolte nei prati di Cantarene, i malati venivano a dissetarsi  e a raccontare le loro disgrazie.

Proprietaria e cuoca la siora Nina, identica ala strega di Biancaneve,  tanto che quando a Treviso venne il film di Disney, si sussurrò che l’avessero presa come modella, il che la faceva sorridere compiaciuta, mettendo in mostra l’unico dente canino, lungo e verde. Eccelleva nel preparare la “fongadina”, un piatto che pareva fatto di tubi e invece era trachea e polmone, pressappoco la stessa cosa. Scriveva il conto su una lavagnetta e al momento di pagare, Oreste Battistella declamava un poema in latino che le aveva dedicato, ma non arrivava mai oltre il primo verso, che poi - scoprimmo dopo - era il solo: “Nina, sciaticarum, vacarumque regina…”. Vacarumque adirata scacciava tutti dal locale e Oreste se ne andava a San Nicolò, nella sua bella casa sulla piazza, a rintanarsi nella biblioteca, dove la madre lo attendeva per sgridarlo, perché, anche se aveva 67 anni e la madre 90, era sempre un bambino e trovava uno scodellone di latte che doveva bere d’un fiato.

L’osteria, alla sera, era frequentata dai vecchi scapoli di Treviso, abituati a cenare fuori di casa e c’era uno che s’era rovinato coi cavalli e con le donne, rovina meravigliosa paragonata a quelle di adesso, un altro on le carte, il giovedì sera arrivava i vecchio Gobbi, padre di Gilmo a portare il baccalà, la Paccagnana, unica cameriera, correva indaffarata dalle cantine alle tavole e qualcuno di quegli incontinenti si alzava sesso per raggiungere un locale che altro non si poteva chiamare che cesso, antro tenebroso comunicante con la cucina, a significare emblematicamente le esistenziali comunicazioni dei clienti, col mondo esterno.»

 

È importante che le osterie di quartiere sopravvivano; certo, per mandar giù un bicchier di vino si può entrare anche in un bar all’americana, non importa che razza di vino sia e non importa l’ambiente, che sia freddo o accogliente, anonimo o caratteristico: ma nelle veccie osterie quel che conta non è tanto l’atto di bere in sé, ma l’atmosfera, il ritmo, la filosofia di vita, se è vero che l’uomo non è soltanto un animale cui basta soddisfare i bisogni primari perché si senta sazio e soddisfatto.

Così, le osterie rappresentano molto di quel che ancora vi è di umano nella vita delle città e dei paesi; sono come delle minuscole oasi in cui il tempo scorre con un altro ritmo e i sapori, gli odori, le parole e gli sguardi si aprono su di una diversa prospettiva, restituiscono altre emozioni e delineano un altro modo di porsi davanti alla vita; in un certo senso, rappresentano la misura di quanto una città o un paese siano ancora vivibili, siano ancora a misura d’uomo.

Certo: c’è stato un momento in cui le osterie, non che un fattore di aggregazione e di socialità, hanno costituito un elemento di disorientamento e di disordine; per mettersi nella prospettiva di Padron ‘Ntoni, esse erano il polo opposto rispetto al “focolare domestico”, dove si sprecavano i magri guadagni del lavoro nel vizio del bere e in vuote chiacchiere all’inseguimento di impossibili sogni di fortuna.

Ma è stato, appunto, un momento: il momento in cui la “fiumana del progresso”, per dirla sempre col Verga, ha investito le strutture patriarcali della società contadina; passato il momento peggiore e giunte a un compromesso fra modernità e tradizione, le osterie sono tornate ad essere luoghi tutt’altro che negativi, luoghi essenziali per l’equilibrio sociale non meno che per il benessere dell’individuo.

Potrebbe sembrare una prospettiva minimalista, specialmente a noi che siamo figli della grande ubriacatura ideologica del XX secolo; potrebbe sembrare che, se non ci si occupa dei massimi sistemi, dell’economia, della politica, della cultura, si perde del tempo e si fa del narcisismo individualistico e piccolo borghese; o, almeno, così sembrava agli assatanati protagonisti della contestazione sessantottina, ardenti di sacro zelo rivoluzionario e tutti chiusi nella loro immacolata e orgogliosa purezza di “avanguardie” dell’uomo nuovo.

Ma questa è una sciocchezza, anche se c’è voluto un bel po’ di tempo per arrivare a capirlo; perché le cose grandi sono fatte di tante cose piccole e perché non si avanza mai in civiltà, se non si  è capaci di preservare la civiltà delle cose umili e semplici, delle cose minime.

Chi non è capace di considerare importante saper bere in compagnia, con moderazione ma in spirito di serenità, non può arrogarsi il diritto di costruire teorie sulla società perfetta del futuro e neanche, semplicemente, di una società migliore di quella presente.

Bisogna diffidare dei profeti che disprezzano le occasioni quotidiane di socialità, dei puritani che non si vogliono contaminare con i piccoli piaceri della vita, degli intellettuali saputelli e superciliosi che danno più importanza al bicchiere che a quello che c’è dentro, all’abbigliamento dei clienti che all’umanità e alla gradevolezza dell’ambiente. Per trangugiare hamburger e Coca-Cola basta un barbaro; per gustare e apprezzare un bicchiere di vino buono in compagnia degli amici, ci vuole un signore: e sovente le persone di condizione modesta sono più signorili dei ricchi.

La signora Alice, per esempio, andava sempre all’osteria, ogni volta che poteva. Vecchia, curva, mezza cieca, le mani callose di chi ha sempre lavorato, i vestiti sdruciti di chi non ha mai avuto il portafogli pieno; il suo bicchier di vino era un modo di mettere un po’ di spazio fra lei e le sue tristezze: una nuora cattiva, un figlio egoista, povertà e solitudine; e nemmeno un angolino tutto suo per piangere in santa pace.

Eppure, a suo modo, la signora Alice era una regina: aveva più dignità e più nobiltà di tutte le squallide divette, di tutte le Minetti dal seno rifatto che pretendono persino di far politica; e la sapeva più lunga di tutti gli evirati intellettuali che stanno sempre lì a intonare le giaculatorie del femminismo, per mostrarsi politicamente corretti e progressisti.

Ce ne fossero di più, di donne come la signora Alice. E ce ne fossero di più, di osterie di quartiere e di paese, dove la gente lascia cadere la maschera e si mostra per qualche minuto almeno, agli altri ed a se stessa, come realmente è.