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Crescita e lavoro, divorzio totale

di Igor Giussani - 27/08/2012

Fonte: decrescita


Le organizzazione sindacali sono tra le più attive propagandiste del mantra della crescita, di fatto principale condivisione ideologica con il mondo imprenditoriale. Il maggior sindacato italiano, la CGIL, ha addirittura dedicato uno sciopero generale alla necessità di crescere, indetto il 6 maggio 2011.
I sindacati e la sinistra in generale sostengono la necessità di incrementare il PIL perché l’aumento di reddito consentirebbe di allargare la base imponibile (con cui sovvenzionare i servizi al cittadino) ma soprattutto permetterebbe di fronteggiare la disoccupazione, secondo il ragionamento: più produttività = più posti di lavoro. Tale equazione – talvolta chiamata ‘effetto cascata’ – considerata una verità auto-dimostrata da tutti, dai liberisti più sfrenati ai comunisti più irriducibili, effettivamente ha avuto senso nel periodo dei ‘trenta gloriosi’ (1945-1975) quando la ripresa economica europea post-bellica era guidata dal modello di produzione fordista e da logiche economiche keynesiane basate su grandi investimenti pubblici a sostegno dei mercati interni, accompagnate a un progressivo accordo con le forze sindacali per migliorare le condizioni della classe lavoratrice, creando le premesse per un aumento dei consumi che originasse una congiuntura economica favorevole. Con tassi di crescita stabili intorno al 5-6% in un continente da ricostruire e modernizzare, la disoccupazione non fu mai un problema evidente.
Questo quadro però è drammaticamente cambiato a partire dagli anni Settanta, con la saturazione dei mercati europei, la fine della convertibilità del dollaro in oro e soprattutto con l’introduzione sempre più massiccia dell’automazione e delle tecnologie informatiche nella produzione industriale. Le tecnologie labor saving hanno permesso di risparmiare risorse umane e lo sviluppo delle reti informatiche ha emancipato il capitale dai vincoli della nazione di origine, spianando la strada alla produzione delocalizzata nelle aree del pianeta a minor costo del lavoro (il tramonto del fordismo e l’avvento del toyotismo su scala internazionale). Nel suo bestsellerLa fine del lavoro, Jeremy Rifkin ha affrontato per la prima volta questa scomoda verità:

“In un mondo nel quale il progresso tecnologico promette un incremento drammatico della produttività e della produzione aggregata, marginalizzando o eliminando dal mercato milioni di lavoratori, l’«effetto a cascata» sembra un’ingenuità, se non una vera stupidaggine. Continuare ad affidarsi a un obsoleto paradigma della teoria economica in un’era post-industriale e post-terziario rischia di essere disastroso per l’economia nel suo complesso e per la stessa civiltà del XXI secolo…
Oggi molte persone trovano difficile comprendere come il computer e le altre tecnologie introdotte dalla rivoluzione informatica – che avevano sperato fossero in grado di liberarli – possano invece essersi trasformati in un mostro meccanico che deprime i salari, distrugge l’occupazione e minaccia la stessa sopravvivenza di molti lavoratori. Ai lavoratori americani era stato fatto credere che, diventando sempre più produttivi, sarebbero riusciti a liberarsi dalla schiavitù del lavoro; ora, per la prima volta, si sta dicendo loro che spesso gli aumenti di produttività non provocano aumenti del tempo libero, ma code all’ufficio di collocamento”.

Solo per riportare alcuni dati concreti, nel febbraio-marzo 2010 la Commissione europea ha calcolato per la UE un aumento del PIL pari allo 1% – superiore a quella stimato, lo 0,7% – mentre contemporaneamente l’Eurostat registrava una disoccupazione stabile intorno al 10%. Nello stesso anno la Germania, locomotiva della crescita europea, a fine giugno segnava un +3,7% rispetto all’anno precedente e contemporaneamente 134.800 lavoratori tedeschi del comparto industriale perdevano il posto. Gli USA addirittura hanno chiuso l’ultimo trimestre del 2009 con una crescita netta del 5,7%, ma il Dipartimento del lavoro nel gennaio 2010 ha constato solo un lieve rallentamento del trend negativo, non una ripresa dell’occupazione.
Ma l’Europa e gli USA rappresentano il ‘vecchio’ mondo incapace di affrontare le sfide dell’economia attuale, per cui forse è più corretto concentrare l’attenzione sull’inarrestabile ascesa dei paesi del cosiddetto BRIC, ossia Brasile, Russia, India e Cina. Ecco le percentuali relative alla disoccupazione nel 2009, confrontate con la crescita economica media annua del quinquennio 2004-2009 (dati tratti da Il mondo in cifre 2012, edito da The Economist):

Brasile: crescita 3,5% disoccupazione 8,3%
Russia: crescita 3,9% disoccupazione 8,2%
India: crescita 8,3% disoccupazione 4,4%
Cina: crescita 11,4% disoccupazione 4,3%

Se Brasile e Russia preoccupano, perché i dati sulla disoccupazione non sono molto dissimili da quelli della zona Euro (9,4%) – che però, si badi bene, è cresciuta solo dello 0,8% – i due giganti asiatici sembrano invece confermare gli assunti tradizionali. In realtà, basta non fermarsi alla superficie per scoprire una verità sconcertante: India e Cina possono vantare una disoccupazione relativamente bassa perché, per molti aspetti, sono ancora paesi non completamente sviluppati. Di fatto, malgrado la grande esplosione industriale, sono ancora nazioni prevalentemente agricole, perché in Cina l’agricoltura occupa il 38% della popolazione, in India addirittura il 52% (a titolo di paragone, nell’Unione Europea gli addetti all’agricoltura sono poco più del 5%). Questi dati indicano la persistenza di un’agricoltura tradizionale a bassa tecnologia, che richiede un alto tasso di manodopera. In Brasile e in Russia, dove è già iniziata da tempo la modernizzazione del settore, gli addetti all’agricoltura sono rispettivamente il 20% e il 10%. Una volta promossa una massiccia modernizzazione agricola, ampiamente sostenuta da istituzioni internazionali come la Banca Mondiale, anche Cina e India si troveranno a fare i conti con lo stesso problema.
Se la crescita non è la soluzione ma un problema per la creazione di posti di lavoro, come intervenire a favore dell’occupazione? Le risposte sono fondamentalmente tre:

1) operare una drastica riduzione degli orari di lavoro e pensare a interventi come il reddito di cittadinanza per liberare il tempo umano dal lavoro;
2) riconvertire la società e l’economia a una logica di sostenibilità. Solo nel settore del risparmio energetico si potrebbero ottenere risultati impressionanti: il Rapporto sull’efficienza energeticaredatto da ENEA e CESI RICERCA e poi ripreso dalla Commissione Energia di Confindustria, sostiene la necessità di un “piano straordinario di efficienza energetica”, che secondo le stime sarebbe in grado in 10 anni di creare 1,6 milioni di occupati in più, permettendo un aumento della produzione industriale di 238 miliardi, il taglio di 207 milioni di tonnellate di CO2 e 14 miliardi di risparmio in bolletta.
3) intraprendere una seria riflessione sullo sviluppo tecnologico, che dovrebbe riconsiderare la possibilità di una tecnologia a basso consumo energetico e ad alta intensità di lavoro, meno alienante e più a misura d’uomo (una tecnologia ‘conviviale’ o ‘intermedia’, per utilizzare le definizioni di Ivan Illich ed Ernst Friedrich Schumacher)

Infine, a livello individuale e comunitario (è difficile immaginare un sostegno statale), si possono promuovere le pratiche di ‘scollocamento’ rese celebri da Simone Perotti nelle sue opere.
Se non si intraprenderà una svolta in questa direzione, possiamo solo sprofondare ulteriormente nel baratro della grande crisi economica, ecologica e sociale insieme alle illusioni di crescere.