Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Decrescita felice: critiche e risposte

Decrescita felice: critiche e risposte

di Massimo De Maio - 06/09/2012

 

Negli ultimi giorni sono spuntati come funghi sul web articoli critici verso l’idea di decrescita in generale e verso le tesi della “decrescita felice” in particolare. È un buon segnale: cresce l’interesse intorno a questi temi e la risposta del “pensiero unico” sviluppista non si fa attendere. Si cita spesso Serge Latouche le cui tesi, vogliamo ricordarlo, non esauriscono il ben più ricco dibattito culturale su questi temi. In Italia, in particolare, abbiamo la fortuna di avere Maurizio Pallante e il Movimento per la Decrescita Felice che, pur concordando con molte della analisi e delle proposte di Latouche, vanno oltre offrendo a questo movimento di idee un contributo importantissimo in termini di praticità e possibilità di attuazione di un differente modello di produzione e consumo.
Poichè Fare Verde ha abbracciato in ben due importanti occasioni le tesi della decrescita felice, vogliamo informarvi del dibattito in atto. E soprattutto, diffondere le risposte alle critiche. Di seguito riportiamo la risposta di Massimo De Maio, presidente di Fare Verde e socio fondatore del Movimento per la Decrescita Felice, ad uno degli articoli che criticano la decrescita. Per completare il quadro, vi indichiamo anche i link di alcuni altri articoli critici e delle relative risposte. Buona lettura.

Articolo: “Sulla decrescita” di Filippo Zuliani 
http://www.ilpost.it/filippozuliani/2012/02/24/sulla-decrescita/

Risposta di Massimo De Maio:

Caro Zuliani,
la ringrazio perchè il suo articolo pubblicato oggi sul sito “il Post” offre interessanti spunti per approfondire alcuni argomenti sulla decrescita felice. Il suo incipit su decrescita e sviluppo sostenibile è abbastanza azzeccato. È il resto che necessita di qualche precisazione.

Comincio col dirle con estrema franchezza che se esponenti della sinistra pensano di poter cavalcare la decrescita felice per tentare di prolungare di qualche anno le loro ideologie in fin di vita, saranno presto disarcionati. Lo stesso dicasi per qualsiasi altro esponente di qualsiasi altro schieramento ideologico, di destra o di sinistra, che fa riferimento a idee, analisi e proposte del secolo scorso. Il movimento di idee e buone pratiche che stiamo faticosamente costruendo da qualche anno a questa parte in Italia richiede il superamento di schieramenti che di fronte alle sfide epocali del nostro tempo non hanno più alcun senso.

Lei ha perfettamente ragione quando dice che gli indicatori di benessere alternativi al PIL fanno ancora riferimento al PIL. Non siamo ancora giunti alla definizione di un indicatore statistico che sostituisca, e non integri, il PIL. Lo dice anche Maurizio Pallante che nel suo penultimo libro (“Meno e meglio”, Pallante – Bruno Mondadori, 2011) ha dedicato all’argomento un intero capitolo dando anche qualche indicazione in merito. Ci dia un po’ di tempo, il nostro cammino teorico, a differenza di quello degli estimatori di Keynes, Smith, Marx e Ricardo,  è appena iniziato.

Tuttavia, reputo estremamente importante il fatto che a livello nazionale e internazionale si sia definitivamente messo in discussione il PIL quale indicatore di benessere. In Italia lo ha già fatto l’ISTAT. In Francia, invece, Nicolas Sarkozy, non io, o Pallante, o un esponente di sinistra, afferma che “Il problema nasce dal fatto che il nostro mondo, la nostra società e la nostra economia sono cambiati, e gli indicatori non l’hanno fatto di pari passo. Dal fatto che alla fine, senza neppure rendersene conto, si è fatto in modo che le statistiche e i conti dicessero cose che in realtà non dicevano né avrebbero potuto dire. Abbiamo finito per confondere le nostre rappresentazioni della ricchezza con la ricchezza stessa e le nostre rappresentazioni della realtà con la realtà stessa. Ma la realtà finisce sempre per avere l’ultima parola” (“La misura sbagliata delle nostre vite”, Stiglitz, Sen, Fitoussi – Etas Libri, 2010).

Secondo il mio modesto parere non si tratta solo di misurare il “benessere” delle persone, ma di misurare le prestazioni di una economia. Bisogna, cioè, chiedersi come una economia sta provvedendo al soddisfacimento dei bisogni della gente mediante l’utilizzo di risorse scarse e suscettibili di utilizzi alternativi. Se ho un pezzo di terra posso usarlo per coltivarlo o per costruirci una palazzina proprio perché è una risorsa scarsa suscettibile di usi alternativi. La scelta che andrò a fare è una scelta economica. Se la misura di performance dell’economia è di tipo quantitativo ed espressa mediante la crescita del PIL, molto probabilmente si opterà per la costruzione della palazzina, secondo la credenza in base alla quale l’edilizia crea ricchezza e occupazione. Se, invece, la misura di performance cambia radicalmente ed include parametri come la sostenibilità delle scelte economiche che si compiono o il grado di sovranità alimentare aggiunto da una popolazione, probabilmente si giudicherà migliore la performance di quell’economia che sceglierà di coltivare quello stesso pezzo di terra. In questo senso, la decrescita felice si propone di riportare l’economia al suo originario ruolo di gestione della casa comune e non di strumento per perseguire una crescita continua di produzione e consumi fine a se stessa.

Mi permetto di dissentire in merito all’affermazione “Risparmiare risorse, ad esempio, isolando termicamente casa serve appunto a consegnare un surplus di risorse libere (quelle risparmiate) da investire in altro, con il risultato di far crescere il PIL”. In macroeconomia produzione, consumi e reddito sono quantità equivalenti, poichè si presuppone che tutto ciò che si produce venga consumato da qualcuno e che tutto ciò che si consuma si trasformi in reddito per qualcun’altro. È un concetto basilare che dovrebbe conoscere anche Feltri, che Lei cita. Per questo, se si riducono complessivamente produzione e consumi, si ridurrà anche il reddito nazionale e quello pro-capite. Dunque, se ristrutturo la mia casa e faccio in modo che consumi un decimo dell’energia che consuma oggi, non avrò risorse aggiuntive da spendere in qualcos’altro poichè appena terminati i lavori i miei minori consumi energetici faranno decrescere prima il PIL, il reddito nazionale e anche il mio reddito. Insieme alla casa, dovrò ristrutturare anche il mio stile di vita. Come? In senso pauperistico? Con inaccettabili rinunce? Nient’affatto! Un paio di anni fa ho condotto uno studio per l’associazione Fare Verde. Abbiamo misurato l’impatto sul bilancio economico di una famiglia media residente a Roma di 15 azioni finalizzate alla riduzione di sprechi ed inefficienze nei campi dell’alimentazione, della produzione di rifiuti, della mobilità, dell’uso dell’energia elettrica e del riscaldamento. Lo studio ci ha detto che è possibile ottenere, secondo stime prudenziali, un risparmio annuo per famiglia superiore ai 5.000 euro (http://www.fareverde.it/blog/rivista/ecologia-e-risparmio). Si tratta in gran parte di azioni che non richiedono particolari spese – che andrebbero a far crescere il PIL – ma piuttosto un cambiamento negli stili di vita. Inoltre, si tratta di un risparmio conseguibile non solo a parità di servizi, che significa non dover rinunciare a nulla, ma che è anche desiderabile poichè comporta un miglioramento della qualità della vita: cibi più freschi e sani, case più calde e confortevoli, meno rifiuti, meno inquinamento. Quindi, se cambiamo paradigma, come la decrescita felice suggerisce, ci accorgiamo che è possibile eliminare gli sprechi migliorando l’efficienza con la quale utilizziamo le risorse naturali e continuare a fare le stesse cose con una migliore qualità della vita, seppur in presenza di una generale diminuzione di PIL e reddito procapite.

Ovviamente, così come non si può crescere all’infinito, non si può neanche decrescere all’infinito. Dal mio punto di vista sarà sufficiente far decrescere produzione e consumi fin sotto la soglia di sostenibilità rappresentata dall’unico pianeta che abbiamo a disposizione. È noto, infatti, che per sostenere i nostri attuali consumi sarebbero necessari un pianeta e mezzo, e andiamo verso i due. Raggiunta la soglia della sostenibilità, l’economia potrà anche tornare ad essere stazionaria, come lo è stato per tutta la storia dell’umanità: da quel momento in poi le performance dell’economia sarebbero misurate, in maniera più utile e concreta, da come l’economia soddisfa i bisogni della gente e non da quanto cresce il PIl di anno in anno.

Dunque, dopo due secoli e mezzo di crescita, l’economia potrebbe stabilizzarsi in un nuovo punto di equilibrio ecologico e macroeconomico (vedi: http://steadystate.org/) – attenzione, è un concetto ben diverso dalla “stagnazione”! – ma ad un livello di qualità della vita infinitamente più alto delle ere pre-industriali. È infatti poco probabile che dopo una fase di necessaria decrescita felice ci si dimentichi di come produrre elettricità o pennicillina, di come portare l’acqua in casa o strutturare una rete internet. Al contrario, razionalizzare l’uso di risorse naturali ed energia, tenendo finalmente conto della loro reale disponibilità, richiede un grado elevatissimo di innovazione. Molto superiore a quello attuale. Perchè ci vuole più tecnologia per costruire e far funzionare una smart grid per la produzione decentrata di elettricità che continuare a costruire centrali a carbone. Bisogna decidere solo in quale direzione convogliare la nostra sete di conoscenza, la nostra creatività e la nostra capacità di immaginare un mondo differente e migliore.

Concludo rassicurandola sul permanere dei meccanismi democratici in uno scenario di decrescita felice. Lungi dall’essere solo una teoria, l’economia della decrescita felice che ho provato a tratteggiare molto sommariamente nello spazio di questo breve articolo, sta già trovando le sue prime forme di attuazione. Oltre ai cittadini sempre più numerosi che in tutta Italia si riuniscono in circoli del Movimento per la Decrescita Felice per cambiare comunitariamente i loro stili di vita, sono Sindaci ed Assessori democraticamente eletti, e non poteri centralizzati e incontrollabili, a porre limiti alla cementificazione, eliminare l’usa e getta dalle mense scolastiche, realizzare riqualificazioni energetiche di immobili pubblici, perseguire l’autosufficienza energetica dei territori che amministrano, promuovere ed aiutare i gruppi d’acquisto. Insomma, esiste già una politica che democraticamente decide cosa è sostenibile e cosa non lo è. E non è rappresentata dai mondi irreali e distanti dai bisogni della gente in cui vivono D’Alema, Berlusconi o gli altri leader mediatico-politici italiani.

Dunque, non si tratta di aver paura di superare le colonne d’Ercole. Credo che nessuno sia più coraggioso di chi, come noi, sta cercando di mettere in discussione un intero modello non solo economico, ma anche culturale, avventurandosi in territori inesplorati con un grande sforzo di elaborazione anche tecnico-scientifica. Si tratta piuttosto, di fermarsi sull’orlo del baratro prima di cascarci dentro. Questo ci rende ancora più umani.

Massimo De Maio

PS. le consiglio la lettura del nostro ultimo libro, scritto a più mani, “debiti pubblici, crisi economica e decrescita felice” (http://www.editoririunitiuniversitypress.it/libri/debiti-pubblici-crisi-…). Ci troverà, oltre alla teoria, anche molta pratica.