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Droni e marines “preventivi” per la Libia

di Alessia Lai - 14/09/2012




Quando a Washington usano il termine “preventivo” non c’è di che stare tranquilli.
Ora è venuto il turno della Libia, con cui gli Usa avevano inaugurato la nuova guerra “per procura”, quella in cui non intervengono manifestamente con le forze armate ma appoggiano i loro alleati che lo fanno. Viaggiando sul sottile filo della lama che divide l’intervento militare diretto dalla “non ingerenza”, Washington aveva più volte ribadito che gli stivali statunitensi non avrebbero calpestato il suolo libico. Cioè che non ci sarebbe stata alcuna invasione di terra. Si trattava di non esporsi all’accusa di aver condotto una nuova occupazione militare dopo Iraq e Afghanistan. Ora, però, l’attacco al consolato Usa di Bengasi, con l’uccisone dell’ambasciatore Stevens e altri tre americani del corpo diplomatico, cambia le carte in tavola. Il Pentagono ha mosso le sue pedine, inviando verso le coste libiche due navi da guerra dotate missili Tomahawk. Secondo quanto affermato da ufficiali nordamericani all’agenzia Ap, il cacciatorpediniere, Uss Laboon si è già spostato davanti alla Libia, mentre l’Uss McFaul dovrebbe arrivarci in pochi giorni.
Non è stata varata una missione specifica: le navi sono in attesa di eventuali ordini del presidente Obama. Ma intanto 200 marines (con i loro stivali) sono già stati destinati in Libia mentre i droni Usa sorvoleranno la zona est del Paese a caccia di jihadisti. L’avversario di Obama alle prossime elezioni, Mitt Romney, aveva subito utilizzato l’attacco al consolato Usa a fini elettorali, accusando il presidente democratico e il suo staff di avere pensato prima a chiedere scusa per il film blasfemo che sarebbe stato la causa scatenante dell’attacco e solo dopo a condannare l’uccisione dell’ambasciatore. Ma il premio Nobel per la pace è stato abile (e fortunato): mandando ora navi e uomini in Libia solletica l’animo interventista dell’americano medio senza avere tuttavia concesso troppo – in termini economici e di impegno in uomini - ai tempi dei bombardamenti su Tripoli. In poche parole: dopo aver fatto fare gran parte del lavoro sporco agli alleati ora le truppe di Washington arrivano in Libia, in beata solitudine, con l’ormai rodata scusa della “guerra al terrorismo”. Non a caso, nonostante gli amministratori libici avessero preferito puntare subito il dito contro i “nostalgici” di Gheddafi, ora alla casa Bianca sono praticamente certi che la firma sull’attacco al consolato sia di al Qaida.
Secondo un testimone citato dal Washington Post, l’assalto alla sede diplomatica avrebbe avuto luogo dopo che un gruppo di militanti si sarebbe unito ai manifestanti che protestavano contro il film “Innocence of Muslim”, ritenuto oltraggioso dell’Islam. Almeno un’ora prima dell’assalto al consolato, una colonna di auto sarebbe stata vista avvicinarsi alla sede diplomatica Usa, con a bordo, secondo la testimonianza riferita al WP, almeno 50 militanti pesantemente armati. Le autorità di Washington hanno parlato ieri di “un’operazione pianificata” e a Tripoli ha seguito a ruota, cambiando obiettivo e puntando il dito sulla rete del terrore. L’ipotesi è che l’assalto sarebbe stato deciso per vendicare l’uccisione del libico Abu Yahya al Libi, numero due di al Qaida, ma per Cia e Fbi tutte le piste sono comunque aperte. Intanto Obama ha fatto “un giro di telefonate”, visto che il film incriminato sta scaldando gli animi in numerosi Paesi islamici (ieri in Yemen c’è stato un morto in un altro assalto all’ambasciata Usa di Sana’a). Con il presidente afghano Amid Karzai ha concordato sulla necessità di evitare che a Kabul, già instabile di suo, si verifichino violente manifestazioni di protesta contro obiettivi americani. Poi ha chiamato in neo-presidente egiziano Morsi, visto che le manifestazioni anti-Usa erano iniziate a Il Cairo e che il nuovo capo di Stato, membro della Fratellanza musulmana mercoledì ha invitato gli egiziani a scendere massicciamente in piazza, oggi, contro il film che insulta l’Islam.
Obama ha messo in guardia l’omologo egiziano contro un “vero grande problema” nel caso in cui Il Cairo non sarà in grado di proteggere l’ambasciata americana nella capitale egiziana. “Non penso che li consideriamo alleati, ma neppure nemici. Si tratta di un nuovo governo che sta cercando di trovare la sua strada. È stato eletto democraticamente”, ha sottolineato poi Obama in una intervista a Telemundo riferendosi ai nuovi amministratori egiziani. Sicuramente l’Egitto preoccupa molto di più della Libia l’amministrazione Usa uscente: dopotutto a Tripoli si possono inviare i militari, i droni, le navi da guerra senza che l’attuale governo libico, immediatamente messosi a disposizione per dare la caccia ai responsabili, abbia di che lamentarsi. Con il nuovo Egitto della Fratellanza è tutto un altro paio di maniche.