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Stare in famiglia non aiuta a crescere

di Claudio Risé - 26/09/2012


Un italiano su tre resta nella casa materna. Tra loro c’è anche un quarto della popolazione tra i 30 e i 40 anni, e quasi il 12% delle persone tra i 45 e i 65 anni. I dati sono stati commentati per lo più dal punto di vista economico, sottolineando la positiva funzione di ammortizzatore sociale della famiglia in tempo di crisi. Come stanno però dal punto di vista psichico questi 30-40 a casa con la mamma? E ancora: che effetto ha questo fenomeno sulla salute e la vitalità del Paese?
Sono domande che occorre porsi, cercando risposte nei dati disponibili da altri settori. Infatti, “ammortizzare” fatiche e difficoltà individuali e di gruppo non è necessariamente il miglior criterio per aiutare lo sviluppo psicologico, affettivo e cognitivo delle persone: ogni educatore responsabile lo sa.
La mancanza di lavoro in loco, nelle poche centinaia di metri che la maggior parte delle persone esaminate sembra disposta a percorrere, non toglie il fatto che in altre città e regioni risultino disponibili e offerti migliaia di posti per i quali nessuno si presenta, sia perché non previsti nel modello culturale familiare (e quindi non ci si è preparati a svolgerli), sia perché “lontani”.
Il lavoro di assistenza e cura al disagio psicologico, comunque, illustra e documenta anche con infinite statistiche e studi il rapporto tra prolungamento della permanenza nella casa familiare e disagio psichico. Non per nulla i documenti fondativi delle religioni (finalizzate anche al benessere psicologico) insistono più o meno sempre (come fa anche la Bibbia), sulla necessità di “abbandonare il padre e la madre”. L’emancipazione dalla loro figura, fondamentale nell’infanzia e adolescenza e poi sempre più ingombrante negli anni successivi, è un passaggio determinante nello sviluppo individuale (e di gruppo).
L’ambiente “familiarmente affettuoso” di cui tesse le lodi i commenti del rapporto Censis-Coltivatori diretti non è certo quello tipico della società globalizzata, nella quale peraltro questi giovani e meno giovani italiani aggrappati ai genitori, al quartiere e al paese si trovano comunque a vivere, oggi e domani. Anzi, in quanto “globale”, e cioè estesa al mondo intero, la società attuale valuta tutti proprio sulla base della loro capacità di adattarsi e comunicare con gli altri, al di fuori di questi ambiti noti e protetti. Infatti il gruppo che rifiuta questa sfida, e si chiude nell’orizzonte familiare occupa, purtroppo, i drappelli di testa dei disagi psicologici più diffusi: insicurezza, bassa autostima, scarsa capacità di ideazione, fino a scivolare nelle forme delle depressioni, o in atteggiamenti maniacali.
Nella grande maggioranza dei casi la terapia psicologica si trova quindi ad aiutare la persona a costruire una rete di collegamenti che la aiuti ad entrare nel mondo, accettando di uscire dall’ambiente familiare che è forse in grado di nutrirla materialmente, ma non certo di rafforzarne la spinta di affermazione e scoperta della realtà circostante.
La famiglia emancipante non è quella italiana, ansiosamente avvolgente, ma quella del centro e nord Europa, dove i figli vengono abituati a pensarsi come destinati ad affermarsi autonomamente nel mondo; cominciano nel 50% dei casi ad avere esperienze personali di lavoro già dopo i 15 anni, e fra i 18 e i 20 escono dalla casa familiare. Ciò porta una maggior gratificazione, autostima e benessere personale, ed induce nella società una maggiore vitalità, come dimostrano i dati sulla maggiore produttività e sulla minor incidenza di patologie da dipendenza.
“Ammortizzare”, infatti, non basta. Bisogna anche crescere.