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L’ultima carica del generale Custer

di Gaetano Marabello - 24/10/2012


Se dovessimo chiedere a un americano d’indicare un momento nero nell’ancor breve vita degli Stati Uniti d’America diverso dalle Torri gemelle o da Pearl Harbour, egli non avrebbe grosse difficoltà. E con molta probabilità indicherebbe la disfatta, riportata dal 7° cavalleria nella celebre battaglia di Little Big Horn nel Montana.
La scelta non ci desterebbe meraviglia. In verità, è insperabile che l’esasperata sensibilità sciovinista degli statunitensi, che li vorrebbe vedere sempre vincenti, riesca a metabolizzare uno smacco inatteso. E’ più che sicuro che ai loro occhi fu (ed è) persino incomprensibile la distruzione del più celebre distaccamento dell’esercito di allora, per giunta ad opera di un popolo composto da presunti “selvaggi”. Ciò è tanto vero che, con l’andar del tempo, questa insofferenza di fondo riguardo una realtà “scomoda” ha finito per dar vita alle ipotesi più disparate sull’accaduto. Tali ipotesi sono state alimentate, tra l’altro, dall’assenza di testimoni bianchi sopravvissuti e dalle contraddittorie versioni fornite dai vincitori dello scontro. Senza aver la presunzione di mettere qui la parola fine alle diatribe, vediamo un po’ di richiamare alla mente almeno le circostanze meno controverse della vicenda.
In primo luogo, va detto che la notizia della sconfitta venne divulgata soltanto molti giorni dopo l’evento. Ci pensarono le edizioni straordinarie dell’Helena Herald e del Madisonia. Il che, dato che esisteva il telegrafo, la dice già lunga. A render ancor più indigesta agli statunitensi la disfatta si aggiunse poi il fatto che si era nel bel mezzo delle celebrazioni del centenario della dichiarazione d’indipendenza americana. Fu il classico fulmine a ciel sereno. Alla costernazione per l’inattesa disfatta si mescolò subito la sete di rivincita per lo smacco subìto. E, quindi, oltre a chiedere una sollecita vendetta militare sui responsabili, l’opinione pubblica cercò sul versante emozionale una compensazione alla sua frustrazione. Dette perciò ampio spazio alla proliferazione di storie, tese ad ammantare di eroismo la fine del generale (in realtà, era colonnello) Custer e a screditare di riflesso i vincitori. Subito si parlò di “massacro”, quasi che i cavalleggeri caduti fossero stati tanti poveri civili inermi, finiti miseramente sotto il fuoco dei loro aguzzini. Si dimenticava volutamente che i Nativi avevano fronteggiato e vinto la disciplina e l’organizzazione anche di altri reparti militari, che erano stati attrezzati apposta per una campagna bellica vittoriosa.
Non per nulla, poco prima di Custer, anche il celebre generale Crook era incappato in due batoste al fiume Powder e al Rosebund, che l’avevano costretto a ripiegare. Insomma, nell’intento di sminuire la vittoria di chi aveva osato battere l’imbattibile Custer, si passò a inventare le favole più inverosimili. Si arrivò quindi a favoleggiare che Sitting Bull avesse frequentato sotto mentite spoglie l’Accademia di West Point. Un’altra versione fantasiosa lo dipinse come un meticcio mezzo francese, capace di elaborare piani strategici in virtù del suo sangue bianco. Ad avvalorare quel che andiamo dicendo c’è infine la circostanza che la documentazione, raccolta nelle inchieste avviate per stabilire le responsabilità del disastro del Big Horn, venne addirittura tenuta segreta fino al 1952! Crediamo che tutto ciò abbia contribuito non poco ad alimentare il mito della morte gloriosa del trentasettenne condottiero americano.
Naturalmente, anche sugli ultimi minuti di vita di Lunga Capigliatura (una delle definizioni datagli dai suoi avversari) fiorirono le leggende più diverse. Esse erano destinate a confluire nei tantissimi libri, cartoons e pellicole hollywoodiane dedicati al tema. Chi non ricorda, ad esempio, la scena clou del film anteguerra con Errol Flynn, dove Custer è ritratto, solo e in piedi, mentre combatte accanto allo stendardo prima d’essere sommerso da nugoli di indiani? In verità, proprio su questo punto la ricostruzione della giornata del 25 giugno 1876 presenta ancor oggi qualche punto oscuro. In specie, non si sa chi abbia materialmente esploso i due colpi d’arma da fuoco al torace e alla tempia di Custer, che ne causarono il decesso. Entrambe le ferite sono citate nel rapporto del tenente di fanteria James Bradley, che ne recuperò il corpo due giorni dopo. Tra l’altro, il cadavere non era mutilato, contrariamente all’usanza indiana che con questo gesto intendeva impedire al nemico l’accesso davanti al Grande Spirito. Perciò, si ventilò l’ipotesi che egli, ferito al petto e in procinto d’essere sopraffatto, si fosse fatto saltare le cervella secondo il codice d’onore degli ufficiali di un tempo.
Tale gesto avrebbe poi impedito che le sue spoglie subissero l’ulteriore oltraggio delle mutilazioni, dal momento che i Nativi nutrivano una forma di superstizioso rispetto per i suicidi. In verità, però, la dislocazione della ferita alla tempia sinistra, anziché a quella destra (come sarebbe stato logico), sembrerebbe escludere che il colpo sia partito dalla canna di Custer. E’ più plausibile perciò che si sia trattato del colpo di grazia inflittogli da qualcuno. A questo punto, però, resterebbe irrisolto il mistero della mancata mutilazione. Va aggiunto che, ad onta del fatto che il cadavere non fosse stato straziato o scalpato, si diffuse in tutto il mondo la falsa notizia, secondo cui Toro Seduto avrebbe aperto il petto del nemico per divorarne il cuore. La frottola messa in giro dallo scrittore Kent Thomas fu presa per vera, tanto da esser ripresa in Italia da Emilio Salgari nel ciclo della frontiera americana dedicato alle Selve Ardenti.
Inutilmente, Sitting Bull s’affannò a respingere poi quest’accusa infame, non fosse altro perché come sciamano non aveva preso parte attiva al combattimento e s’era limitato a profetizzare la vittoria a seguito di una “visione”. E’ in ogni caso possibile che si sia fatta, più o meno volutamente, confusione con un suo nipote chiamato Un Toro, che combatté valorosamente nelle fila dei Sioux Hunkpapa, oppure con Toro Bianco, che catturò il cavallo di Custer. Va anche detto che nessuno degli indiani nel momento della battagli sapeva di aver di fronte l’odiato massacratore di donne, vecchi e bambini del fiume Washita (1869). Di quest’ultima turpe storia ci siamo occupati qualche tempo fa su queste colonne. Comunque, solo in seguito – quando cioè si seppe che Custer era caduto nello scontro - qualcuno dei guerrieri si gloriò di averlo ucciso. Sta di fatto che molti di quelli che avrebbero potuto rivendicare quell’onore preferirono tacere, per non incorrere in qualche vendetta. Più di recente, in una sua opera, Domenico Rizzi ha attribuito la mancata mutilazione all’intervento di Monahseetah, un’indiana cheyenne. Secondo questa versione, la donna, amante in passato del colonnello, avrebbe interceduto affinché il cadavere non venisse straziato. Comunque stiano le cose, crediamo che una chiave di lettura del mistero della morte di Custer possa emergere da una rivisitazione delle fasi della battaglia. Secondo un piano d’attacco elaborato a Chicago e trasmessogli dal suo diretto superiore Terry, egli doveva limitarsi a sospingere le tribù ostili accampate sul Big Horn verso una tenaglia, che si sarebbe serrata con l’arrivo da nord e da sud di altre truppe agli ordini dei generali Crook e Gibbon. Si trattava per Custer di un’occasione irripetibile.
E’ noto che egli cercava un’occasione di riscatto dopo essersi inimicato il presidente Grant con un’avventata testimonianza, che ne aveva coinvolto il fratello in un’inchiesta di corruzione. Di più, una vittoria non condivisa con altri avrebbe potuto addirittura spianargli la via della futura presidenza degli Stati Uniti nelle fila dei democratici. Infine, egli fidava nella buona stella che gli aveva concesso di vincere tutte le cariche di cavalleria, da lui guidate nel corso della guerra di secessione. Gli ordini dunque erano di non impegnarsi in combattimento, a meno che “avesse ravvisato una qualsiasi ragione per agire diversamente”. Stando così le cose, Custer non aveva probabilmente molte scelte. E, quando qualcuno dei suoi avvistò il nemico, cercò d’evitare l’accusa di codardia che i suoi detrattori a Washington avevano pronta per lui se si fosse ritirato. Il dato acclarato è che sottovalutò le forze in campo a causa della natura dei luoghi, che nascondeva in un valle il grosso dei guerrieri avversari. Sta di fatto che suddivise le sue forze, prendendo direttamente la testa di cinque compagnie. Affidò nel contempo gli altri battaglioni a due dei suoi subordinati, Reno e Bentheen, perché convergessero sul nemico a loro volta. Attaccare da più posizioni, anche a costo di divider le forze, era una strategia cara al generale Crook.
Tuttavia, quando Custer si avventò sul campo nemico, ignorava che contemporaneamente il maggiore Reno stava già ripiegando in disordine sotto l’incalzare di oltre mille guerrieri rossi. Essi erano sciamati fuori dal più grande concentramento di tepee che si sia contato nella storia, perché si estendeva per ben cinque miglia. A bocce ferme, si può dire che – anche se poi venne assolto dall’accusa di codardia - Reno fu decisamente il principale responsabile della disfatta, perché batté in ritirata sin dalle prime difficoltà. In più, quando il trombettiere Giovanni Martini gli portò un messaggio di aiuto da parte di Custer, dapprima esitò a muovere in suo soccorso e, quando si decise, era ormai tardi. Con tutto ciò, inizialmente le cose per Custer sembrarono mettersi per il meglio.
Infatti, il versante del fiume da cui sferrò la carica era in quel momento presidiato da appena quattro Cheyennes e da sei Sioux, perché poco prima tutti gli altri guerrieri si erano spostati più in là per fronteggiare l’attacco di Reno. Ebbene, quel pugno di coraggiosi si dispose a difesa del campo, impegnando il reparto attaccante. Furono attimi di scompiglio. Vista la sproporzione di forze, come non pensare a un’imboscata? Rotti comunque gli indugi, Custer s’accinse ad attraversare il guado che lo divideva dall’accampamento. Come sempre, guidava la carica alla testa dei suoi. E probabilmente fu allora che ricevette la fucilata al petto di cui s’è detto.
Il suo ferimento servì a spezzare l’impeto dei soldati, costretti a soccorrerlo e a riportarlo indietro sulla sponda di partenza. Ciò spiegherebbe perché - sotto gli occhi sorpresi degli eroici difensori del guado, che successivamente narrarono l’episodio - l’intero battaglione iniziò un incomprensibile ripiegamento. Ma la temporanea ritirata era destinata a trasformarsi presto in una rotta disperata. Sul posto piombarono ad ondate successive gli altri guerrieri, che, dopo aver messo in difficoltà Reno, erano tornati indietro sentendo il crepitio delle armi in lontananza. Arroccatisi sul crinale dove oggi si erge il monumento funebre a loro ricordo, tutti i duecento cavalleggeri furono letteralmente spazzati via. Nel furibondo corpo a corpo, alcuni di loro impazzirono e preferirono uccidersi con le proprie mani, confortando indirettamente la tesi del suicidio di Custer. Della colonna che aveva seguito Stella lucente del mattino (altro soprannome guadagnato sul Washita) sfuggì alla morte solo l’ex garibaldino italiano John Martini. La sua salvezza fu dovuta al fatto sopra ricordato d’aver dovuto recapitare il dispaccio del suo colonnello al maggiore Reno.
La battaglia, poi trasfigurata dalla retorica nazionale nell’Ultima Resistenza di Custer, durò fino alle 17.30 circa. Messi alle strette, Reno e Bentheen furono costretti a trincerarsi a difesa. Di lì a poco, il nemico si allontanò definitivamente, soddisfatto della lezione impartita agli altri cavalleggeri.
Che altro aggiungere? Quell’afosa domenica del 1876, secondo un celebre grido di battaglia degli indiani delle pianure, doveva essere “una buona giornata per morire”. Almeno per quella volta, però, a morire furono gli altri.