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Troppo facile rivalersi sull’altro per non dover fare i conti con la propria Ombra

di Francesco Lamendola - 01/11/2012




 

 

Quando non si ha il coraggio di guardare in faccia la propria Ombra, il proprio lato oscuro e inconfessabile, la cosa più facile da fare è trovare qualcuno che ci aiuti a coltivarlo in segreto, all’insaputa di tutti gli altri, e poi scaricare su costui tutto il nostro odio, tutta la nostra rabbia e tutto il nostro disprezzo.

Questo ci permette di risparmiare a noi stessi un simile trattamento, ossia ci permette di non riservare anche e principalmente a noi quell’odio, quella rabbia e quel disprezzo; ma pagando un prezzo piuttosto salato: ignorando la verità, la nostra verità, falsifichiamo le nostre emozioni e i nostri sentimenti e diventiamo estranei a noi stessi, sprofondando sempre più nella menzogna, per quanto possiamo essere rimasti “puliti” agli occhi del mondo.

Un tale comportamento, infatti, è tipico di coloro che temono fortemente il giudizio altrui, ma temono ancor più, senza rendersene conto - e questo è il guaio più grosso - il proprio giudizio su se stessi. Si tratta di persone che possiedono, o credono di possedere, un forte senso morale; persone, forse, che hanno ricevuto una educazione piuttosto autoritaria e repressiva, e alla quale si sono ribellate o credono di essersi ribellate, conservando però, seminascosto e difficilmente riconoscibile, quello stesso senso di colpa che le ha afflitte da piccole o nell’adolescenza. Oppure può trattarsi, semplicemente, di persone narcisiste e infantili, che vogliono essere sempre le prime della classe, che non accettano mai di sfigurare, che hanno un bisogno compulsivo di primeggiare, di distribuire ovunque un’immagine perfetta di se stesse.

Prendiamo il caso di una donna “single”, trentenne, non bellissima, ma molto seducente e femminile, intelligente, colta, conscia del proprio fascino, da tutti giudicata forte e sicura di sé e da tutti, ma soprattutto da se stessa, giudicata perfettamente autonoma e appagata, insomma totalmente disinibita e priva di complessi o frustrazioni sessuali: è i ritratto della protagonista di un romanzo di Jenny Diski, scrittrice inglese che fece scalpore, una trentina d’anni fa, per le sue arditezze erotiche (un concetto, questo dell’arditezza, destinato a logorarsi estremamente in fretta, nel clima libertino della post-modernità).

Ebbene, la nostra eroina un giorno incontra un uomo con una forte personalità sadica, che la sculaccia al primo approccio, prima del rapporto, e scopre, con suo immenso stupore, che la cosa le piace, le piace terribilmente. Il bello è che lei era stufa e arcistufa di amanti banali, che la facevano addormentare a letto; cercava emozioni forti e, soprattutto, sesso puro, senza coinvolgimento emotivo; e adesso scopre che vuole, sì, il sesso estremo, che vuole dare sfogo alla propria parte masochista, senza pudori né vergogne, ma che vorrebbe anche essere amata, cosa impossibile, da quello stesso uomo che incarna le sue torbide fantasie di stupro e di violenza, ora trasformate in realtà; e incomincia a covare un sordo risentimento per l’“egoismo” e la “insensibilità” di lui, senza minimamente riflettere che sono proprio quelle caratteristiche ad averla folgorata e conquistata, e che è indice di scarsa onestà con se stessi pretendere due cose opposte.

Tutto il romanzo va avanti così, senza che mai la protagonista abbia il coraggio di guardarsi dentro sino in fondo; è vero, spesso si domanda con un brivido di delizioso raccapriccio, mentre  subisce le violenze più raffinate: «Ma dunque sono proprio così, io; sono proprio questa, la perfetta donna moderna, indipendente e sicura di sé?»; però, invece di rispondersi, si sprofonda sempre di più nell’inseguimento del piacere estremo, e sempre più coltiva in sé l’odio per l’uomo che la brutalizza con il suo pieno, entusiastico consenso. Quando poi scopre, casualmente, che costui è davvero uno stupratore ricercato dalla polizia, non essendo riuscita a ottenere da lui la sola cosa che non avrebbe mai potuto pretendere, l’amore, decide di vendicarsi nella maniera più perfida: facendolo sorprendere dagli agenti mentre la violenta in camera sua, con le mani legate, e facendo passare quel rapporto volontario (l’ultimo di una relazione che dura ormai da tre anni!) per quel che non è, una violenza carnale da parte di uno sconosciuto introdottosi in casa sua.

Riportiamo il passaggio-chiave del romanzo della Diski, quello iniziale (completato idealmente da quello finale, nel quale alla protagonista, che si fa maltrattare e sodomizzare mentre già i poliziotti, da lei preavvertiti, stanno per fare irruzione e arrestare l’uomo, si lascia sfuggire un patetico e umanissimo: «Amami»), che illustra in maniera fin troppo chiara - oltre la soglia di una pornografia letteraria spacciata per realismo - la vera natura del rapporto che aveva instaurato con il suo amante (Jenny Diski, «Ossessione pericolosa» (titolo originale: «Nothing Natural», 1986; traduzione dall’inglese di  Marta Suatoni, Euroclub, 1991, pp. 31-33):

 

«La mano di Joshua sollevò la gonna mentre le sue dita accarezzavano l’interno della coscia nuda e risalivano alla ricerca del punto di partenza. Rachel continuava a lavorare intorno al condimento già ben amalgamato. Non stava accadendo nulla. Un uomo era dietro di lei con la mano sotto la sua gonna, ma Rachel si comportava come se non stesse accadendo nulla. Era agitata e si fingeva indifferente. Perché, si chiese, sono fatta così? Gli approcci sessuali si svolgevano sempre nello stesso modo: li ignorava, comportandosi ogni volta come se lei e il suo partner si trovassero insieme per altri motivi. Sesso? L’ultima cosa che le passava per la mente. Per quale altro motivo si trovavano insieme? Voleva una relazione puramente sessuale, no? Bene, allora piantala e comportati di conseguenza. Smettila di perdere tempo in stupidi convenevoli. Era ambivalente? Sì. Voleva essere colta di sorpresa? Sì. Per amor di Dio, si disse, hai davvero trent’anni e non sei affatto vergine. Eppure continuava a non reagire.

Joshua disse: “Chinati sul tavolo”.

La sua voce era calma ma decisa, si trattava di un ordine. Lei si volse a guardarlo, poi lentamente ripose la ciotola e la forchetta da una parte, quindi si piegò sul tavolo appoggiandosi sugli avambracci. Joshua le sollevò la gonna e gliela fissò accuratamente sulla schiena, un modo che restassero scoperte le gambe e le mutandine. Poi abbassò delicatamente queste ultime con la punta di pollice e indice, mentre lei sollevava alternativamente i piedi per sfilarle, quindi rimase un istante a guardarla. Le accarezzò dolcemente le natiche, poi le infilò un dito fra le gambe e le massaggiò il clitoride finché non lo sentì umido. Improvvisamente cominciò a colpirla con pacche brevi ma taglienti, fermandosi un secondo tra una e l’altra. Sei, otto colpi, abbastanza energici da farla restare senza fiato.

Rachel si immaginò china sul tavolo della cucina, a sedere nudo, sculacciata da un uomo completamente vestito. Era ridicolo, un’immagine da giornaletto pornografico. Cosa sto facendo, pensò, perché permetto che tutto questo accada? Ma la parte di lei che non si stava osservando era intenta ad arcuare la schiena, a sollevare le natiche per ricevere il colpo successivo.

“Così va bene. Brava ragazza” le disse calmo, ma con un tono severo. “Adesso piega un pochino di più la schiena e solleva il sedere. Ecco, così”.

Un’altra serie di colpi, fortissimi. Rachel che gridava piano dopo ognuno di essi. Poi lui si aprì la cerniera e spinse il pene eretto nella fessura tra le natiche.

“Dove lo vuoi?” chiese.

Panico. Dove lo voglio. Io so cosa vuole lui. Non voglio dirlo. Non voglio essere costretta a chiederglielo. “Dappertutto”, mormorò.

“Dove?” ripeté lui incollerito.

“Fai quello che vuoi. “ Lei voleva solo che lui la prendesse. Lo voleva dentro.

“Ti ho chiesto dove. Vuoi il mio cazzo nella fica o nel culo?” Era furioso, terribilmente freddo.

“Oh, per favore… nel culo… nel culo.”

Rimase in piedi dietro di lei, tenendola per i fianchi, tirandosela contro e delicatamente, senza fretta, cominciò a penetrarla. Lei urlò per il dolore, era forte, molto forte mentre lui si spingeva sempre più dentro. Avvertì un impellente bisogno di defecare e gridò anche per questo, e poi lui fu completamente dentro, e lei sentì i propri muscoli rilassarsi, permettendogli di muoversi in profondità, più in profondità. Le sfuggì un gemito di gola e lo udì sospirare.

“È bello? Si sente bene?”

Lei rispose: “Sì”, la voce bassa e profonda, unita ai gemiti, e si spinse indietro contro di lui, sentendo il ventre morbido contro le sue natiche. Lui rafforzò la stretta delle braccia e si mosse lentamente dentro di lei, ascoltando il sordo rumore che provocava. Lei si sentiva un miscuglio di cose contraddittorie: violata, liberata, immensamente e oscuramente eccitata. Lo voleva completamente dentro di sé. Era adirata e indifesa, e lo voleva più di qualunque altra cosa. Divenne consapevole dell’eccitazione di lui, del suo immenso piacere e del suo strano sollievo; era come se fosse giunto a casa, era lì, infine, che doveva giungere. La sua ira si annullò nel piacere e nell’eccitazione fisica di lui, che riconosceva nel suo spingersi sempre più dentro. Mentre cominciava a respirare in modo più convulso, lui le toccò il clitoride e lei venne con lunghi gemiti interrotti, e ancora e ancora, finché improvvisamente non le sfuggì un sibilo a denti stretti: “Bastardo!” E ancora: “Bastardo!”»

 

Abbiamo riportato questa pagina, nonostante il fastidio che provoca il compiacimento di un erotismo che scivola inarrestabilmente lungo il piano inclinato della pornografia (e un lampo di verità l’autrice deve averlo avuto, per poi subito respingerlo, quando fa pensare alla sua discutibile eroina: sembrava «un’immagine da giornaletto pornografico») -, proprio perché bene evidenzia, in tale morboso compiacimento, la totale mancanza di consapevolezza di sé, il totale rifiuto della propria Ombra.

Con quella esclamazione, «Bastardo!», ripetuta due volte, è come se la protagonista, controfigura dell’autrice, cercasse di convogliare sull’uomo tutto il disgusto, tutto la vergogna, tutta la frustrazione per aver scoperto in se stessa una parte così impresentabile, così sconveniente: quella parte che la fa attendere impaziente le viste del suo amante segreto e che la spinge a godere così tanto, a sentirsi così terribilmente eccitata e così immensamente soddisfatta da quei rapporti sessuali a base di violenza, crudeltà e degradazione di sé.

Quanta vigliaccheria, quanta dissimulazione, quanta ipocrisia vi sono in questo celarsi dietro la "colpa" di un altro, in questo scaricare sull'altro il lato "sporco" di se stessi, e nel ritrovare il proprio equilibrio (apparente) nell'espellerlo da sé, come non fosse mai esistito, dopo avergli consentito per anni di imperversare come un tiranno onnipotente.

Abbiamo detto che è cosa sin troppo facile agire in questo modo; ora facciamo un passo più in là, domandandoci quali spinte e quali dinamiche, anche culturali, possono aver motivato il contraddittorio comportamento della protagonista.

Il romanzo di Jenny Diski è un tipico romanzo post-femminista: post-femminista in senso puramente cronologico, però, dato che il femminismo, in esso, non è stato capace di fare i conti con se stesso, di tirare un bilancio dei suoi errori e delle sue mezze verità. La protagonista, una giovane donna degli anni Ottanta, è cresciuta in un ambiente in cui le donne libere e sole sono ammirate, non compatite; invidiate, non commiserate: perciò ella respinge il proprio intimo senso di fallimento e di solitudine, lo traveste, lo nega. Non vuol rinunciare all'immagine di se stessa che ha costruito ad uso e consumo degli altri e alla quale ha finito per credere lei per prima: se lo facesse, le cadrebbe il mondo addosso. Meglio, dunque, coltivare di nascosto, all'insaputa di tutti, quella degradante relazione sadomasochista e poi, quando i sensi di colpa stanno per sopraffarla, sbarazzarsene, prendendosi contemporaneamente una vendetta sull'uomo brutale e cattivo, facendolo arrestare e portar via come un delinquente.

Nell'ultima scena ella guarda fuori dalla finestra, subito dopo che il suo amante è stato ammanettato, e si sorprende a chiedersi cosa aspetti l’amministrazione comunale a far colmare una buca nell'asfalto sotto il marciapiede, davanti alla sua casa: l'operazione di auto-trasfigurazione è felicemente riuscita, le violenze masochiste che ha cercato sono cancellate; la donna forte e moderna torna a occupare il posto che le spetta nel proprio giudizio.

La cattiva coscienza del post-femminismo è tutta qui: dopo aver teorizzato che la donna è l'eterna vittima e che la penetrazione del maschio è uno stupro, resta l'imbarazzante problema di motivare il bisogno bruciante di molte donne di essere trattate precisamente come donne oggetto, senza rispetto per la loro dignità, anzi con aperto disprezzo. Ma perché motivarlo, poi, quando è tanto più facile riprendere le litanie del maschio cattivo e riversare su di lui ogni colpa per i propri bassi istinti, tornando così ad essere pure e immacolate, secondo la falsa ma rassicurante immagine che si vuol avere di se stesse?

Ma forse il problema è a monte; e il fatto di voler esorcizzare la paura e il disgusto della propria Ombra, rovesciandone tutta la "responsabilità" sull'altro, non è che l'effetto di un malessere più profondo. E il malessere potrebbe essere questo: la mancanza di amore e di accettazione nei confronti di se stessi, uomini o donne.

Se non ci si ama, se non ci si accetta, si cova una sorda aggressività che ha bisogno di sfogarsi e che si sfoga, infine, contro l'altro o contro se stessi. Ma il senso di colpa rimane, rimane un senso di profonda insoddisfazione per come si è affrontato, o piuttosto non si è affrontato, il problema del disamore verso se stessi e della mancata accettazione di se stessi.

Fondamentalmente, il masochista è colui che si vuole punire per qualcosa; non è detto che sappia per che cosa, ma sa che vuole, che deve punirsi. Forse vuole semplicemente punirsi per il fatto di essere così com'è, per avere dei desideri che non è disposto a riconoscere, delle pulsioni di cui si vergogna; ma il problema non è il fatto di averli, quanto il fatto di non volerli riconoscere. Una volta riconosciuti, li si può anche combattere e respingere, perché non tutto quello che sale dal profondo è buono e non tutto merita di essere estrinsecato nella propria vita. Bisogna imparare ad amare se stessi, non tutto quello che ribolle nel fondo della pentola: si tratta di due concetti profondamente diversi.

Noi non siamo il fondo della pentola, anche se oltre un secolo di delirio psicanalitico hanno tentato di persuaderci del contrario. La cultura oggi dominante vorrebbe farci persuasi che noi siamo i nostri impulsi primitivi, che noi siamo il fondo melmoso e maleodorante delle nostre pulsioni di amore e morte, condite di impronunciabili, inaccettabili sottintesi incestuosi e di potenziali furie omicide.

Ma non è così. E non è una soluzione quella adottata da tante persone culturalmente e politicamente corrette, ossia scaricare su un "nemico" esterno, mediante un transfert evidentissimo, questo nostro inconfessabile bagaglio proibito, e poi bruciarlo in un falò liberatorio, come si faceva in passato con le streghe.

Perché non sarebbe affatto un gesto liberatorio, ma una falsa risposta ad un problema reale: il problema di conoscere e comprendere se stessi, nelle tanto  nelle luci quanto nelle ombre, e di farsi carico della propria verità interiore, guardando senza abbassare gli occhi non solo quanti ci stanno intorno, ma anche la propria immagine riflessa.