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Due sole vie

di Luciano Fuschini - 07/11/2012

 


 

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 Il problema sulla primogenitura dell’uovo o della gallina resta irrisolto, mentre la primogenitura fra il debito e il credito non presenta difficoltà: prima viene il debitore, poi il creditore. Se non ci si indebitasse gravemente non ci sarebbero usurai. Se l’amministrazione degli Stati fosse rigorosa e oculata, non ci sarebbe la speculazione dell’alta finanza internazionale. È bene richiamare alla mente questi concetti di una semplicità che sfiora l’ovvietà, perché troppo spesso si ragiona come se il debito fosse la conseguenza dell’usura e non la sua causa. 

Un’altra asserzione infondata è quella che fa risalire il debito pubblico agli anni Ottanta, quelli del craxismo, o addirittura al ventennio berlusconiano. Quasi nessuno ricorda le disperate invocazioni di Ugo La Malfa negli anni Sessanta, vale a dire 50 anni fa. La Malfa, economista di valore e ministro del Bilancio, continuamente lanciava appelli contro il rischio di un debito pubblico che, pur sembrando allora controllabile, per la logica inesorabile degli interessi sui prestiti sarebbe cresciuto fino a diventare una valanga inarrestabile. Avevamo la sovranità monetaria, la Banca d’Italia era controllata dal potere politico, come tanti vorrebbero oggi, ma il pericolo di uno squilibrio non più rimediabile nel bilancio dello Stato appariva già evidente ai più accorti. Egli proponeva una politica dei redditi, che limitasse sia i profitti sia i salari, evitando il consumismo che surriscaldava l’economia e creava debito pubblico. Venne osteggiato da ampli settori della finanza e dell’industria, preoccupati che non ci fosse un controllo sui prezzi, come dai partiti della sinistra e dai sindacati, timorosi, non senza ragione, che la politica dei redditi avrebbe bloccato solo i salari, non i profitti.

Era necessaria questa premessa per ricordare che il debito pubblico viene da lontano. Oggi ha dimensioni tali che non se ne può più uscire in modo indolore. Nemmeno Monti e i suoi paladini credono veramente che saneremo le finanze dello Stato con una ripresa produttiva. Anche un incremento del PIL del 3 o 4% per una serie di anni consecutivi, cosa impensabile nelle condizioni del mondo attuale, lontanissime dagli anni che vanno dal 1945 al 1975, servirebbe solo a pagare gli interessi sul debito, senza intaccare il debito stesso in modo sostanziale. Il debito era diminuito negli anni di Prodi, ma con una politica fiscale talmente dura da non poter essere retta ulteriormente. Quanto detto in relazione all’Italia vale per tanti altri Stati: è più semplice fare l’elenco dei Paesi con i conti a posto che enumerare quelli dalle finanze dissestate, compresi gli USA che evitano la bancarotta solo grazie alla centralità del dollaro come moneta di riserva. Oggi le vie d’uscita dalla crisi sono soltanto due, entrambe devastanti. La scelta è obbligata e non permette alternative. Una è la guerra, una guerra, o una serie di guerre che, travolgendo il mondo intero e portando con sé epidemie, carestie, avvelenamento dell’ambiente, decimeranno la popolazione del globo, azzereranno monete, debiti e crediti, permettendo poi il grande affare della ricostruzione. Forze potenti lavorano a questo fine, quelle forze che hanno creato le condizioni perché si realizzasse il trauma dell’11 settembre, con le guerre conseguenti per accaparrarsi materie prime strategiche e stringere in una morsa Russia e Cina (qualcuno crede veramente che i missili in Polonia siano stati installati per proteggere l’Europa dai terribili missili intercontinentali iraniani?). L’altra via è un’inflazione a due cifre, che in pochi anni abbatterebbe il debito pubblico. Però nello stesso tempo ridurrebbe alla fame i percettori di redditi fissi e i risparmiatori, cioè la stragrande maggioranza della popolazione, non più protetta dalla scala mobile e dagli aumenti salariali che appartengono anch’essi a un’ epoca non più riproducibile. L’inflazione a due cifre comporterebbe inevitabilmente una rivolta generalizzata e il tracollo delle istituzioni. 

Chi crede di indicare una soluzione nella politica keynesiana dimentica volutamente che fu proprio quella politica a generare il debito pubblico, aggravato poi dagli sprechi degli amministratori, dalle ruberie della casta, dagli interessi usurai della grande speculazione finanziaria. Dimentica anche che non ci sono più le condizioni del periodo d’oro del capitalismo di Stato: non c’è più la competizione con l’URSS, che obbligava a concedere salari più decenti alla classe operaia e a potenziare i servizi pubblici e assistenziali; non ci sono più materie prime a basso costo; non c’è più la possibilità di saccheggiare impunemente le risorse e di alterare un ambiente al limite del collasso. Anche il rimedio del ripristino della sovranità nazionale è illusorio. La sovranità nazionale viene vista come la cornice politica che permetta l’indirizzo economico neokeynesiano, proprio quello che è parte del problema e non la sua soluzione. Del resto gli Stati nazionali sono il prodotto della Modernità, sono forme statali relativamente recenti e realizzate, senza eccezioni, attraverso conquiste armate con l’adesione di minoranze, mentre la maggioranza del popolo era indifferente oppure ostile. Ripristinarli in tutte le loro funzioni sarebbe un’operazione anacronistica. Chi obiettasse che esiste una terza via, la dichiarazione di bancarotta dello Stato, non terrebbe conto del fatto che si discute di vie d’uscita, non di ammissione di un disastro senza rimedio. Dunque restano le due vie possibili: guerra o inflazione a due cifre. La decrescita è anch’essa illusoria se concepita come un sistema graduale e indolore per rettificare pacificamente le strutture sociali e produttive, secondo la logica tipica di ogni riformismo.

Si va inevitabilmente verso il disastro della guerra o verso l’inflazione che frantuma il tessuto sociale e abbatte le istituzioni. La lucidità con cui formuliamo queste tesi è, insieme ai nostri limiti soggettivi di persone più inclini alla teoria che alla militanza, la causa che non ha permesso a Movimento Zero di diventare un soggetto politico di un qualche rilievo. Non abbiamo indicazioni in positivo, non possiamo promettere riprese miracolose e risanamenti tramite recuperi patriottici o lotte al signoraggio. Abbiamo soltanto l’onestà intellettuale di svelare l’amara verità. Rendere coscienti del destino che ci attende è il compito, altamente morale, di un circolo culturale, non di una forza politica che cerchi consensi.