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Obama: e adesso?

di Michele Paris - 08/11/2012

 
    

La rielezione relativamente agevole di Barack Obama alla Casa Bianca ha confermato la presenza negli Stati Uniti di una maggioranza di elettori che continua a respingere in maniera decisa le politiche radicali e ultraliberiste rappresentate dal Partito Repubblicano e dalla candidatura di Mitt Romney. Di conseguenza, nonostante l’evidente calo dei consensi per il presidente democratico in questa tornata elettorale, anche grazie ad una campagna incessante da parte dei media liberal rimane piuttosto diffusa nel paese la sensazione o, meglio, l’illusione, che Obama e il suo partito possano agire da alternativa allo strapotere e all’influenza su Washington dei colossi di Wall Street e dei grandi interessi economici.

In questa prospettiva, il voto di martedì può avere espresso, almeno nelle intenzioni di poco più della metà degli elettori, un mandato affinché gli Stati Uniti intraprendano un percorso verso quel modello di società descritto dallo stesso Obama in campagna elettorale, fatto ad esempio di solidarietà, pieni diritti democratici e civili, giustizia sociale e via dicendo.

A fronte di questo messaggio inviato dai votanti nell’election day 2012, praticamente tutto l’establishment democratico, Obama compreso, subito dopo la diffusione dei risultati finali si è affrettato ad affermare invece che il mandato degli elettori sarebbe in realtà per un compromesso con i repubblicani che, d’altra parte, hanno mantenuto il controllo della Camera dei Rappresentanti.

Per questo, i discorsi del dopo voto sono serviti a tranquillizzare l’aristocrazia economica e finanziaria americana circa la volontà dell’amministrazione Obama di mettere mano da subito alla riforma fiscale e alla questione del debito pubblico in accordo con il Partito Repubblicano, smentendo così le pretese di quanti avevano ripetuto incessantemente che l’elezione metteva di fronte due visioni opposte dell’economia e del ruolo del governo nella società americana.

L’insistenza durante la campagna elettorale di entrambi i candidati sul problema del debito pubblico ha confermato poi la distanza tra la classe politica statunitense e la maggioranza della popolazione. Secondo i rilevamenti sul comportamento degli elettori, infatti, solo un votante su dieci ha indicato la questione del deficit come la più pressante per il paese.

Il rifiuto delle posizioni della destra repubblicana è stato in ogni caso uno dei fattori fondamentali per la conferma di Obama alla Casa Bianca e ciò ha influito anche sulle sconfitte, considerate impensabili fino a pochi mesi fa, subite dal partito di Romney in alcune competizioni per il Senato. Nelle sfide, ad esempio, per i seggi di Indiana e Missouri, due stati orientati decisamente verso il Partito Repubblicano e conquistati martedì dal miliardario mormone, i candidati di estrema destra Richard Mourdock e Todd Akin avevano visto svanire già nelle scorse settimane le loro chances di successo in seguito a dichiarazioni quanto meno discutibili su aborto e violenza sessuale, lasciando perciò strada ai democratici Joe Donnelly e Claire McCaskill.

Questi risultati hanno decretato inoltre la sconfitta come forza politica dei Tea Party, i quali avevano sostenuto numerosi candidati ultra-conservatori, consentendo loro di conquistare molte primarie repubblicane nella prima parte dell’anno. I Tea Party si sono così confermati poco più di una creatura mediatica e il risultato degli sforzi finanziari di una ristretta cerchia di super-ricchi per dare una facciata popolare al tentativo di spostare sempre più a destra l’agenda repubblicana e, di conseguenza, dell’intero dibattito politico americano.

I problemi evidenziati nuovamente dopo il voto di martedì per il Partito Repubblicano riguardano in parte l’incapacità di adeguarsi ai mutati equilibri sociali e razziali negli USA in questi anni. L’aumento del peso delle minoranze etniche nelle elezioni del 2012 è stato molto consistente, tanto che Obama è stato in grado di conquistare la Casa Bianca assicurandosi appena il 38% dei voti degli elettori bianchi, cioè 5 punti percentuali in meno rispetto a quattro anni fa. Soltanto nel 1984, come ha fatto notare il Wall Street Journal, i democratici ottennero una quota più bassa del voto bianco, quando però Walter Mondale venne letteralmente spazzato via da Ronald Reagan.

L’incapacità del Partito Repubblicano di intercettare il voto, ad esempio, degli ispanici appare tanto più grave quanto l’amministrazione Obama, pur avendo adottato limitati provvedimenti per offrire un percorso verso la cittadinanza a certe categorie di immigrati, si è distinta in questi quattro anni per il numero record di deportazioni rese esecutive.

Quello Repubblicano, in definitiva, si sta sempre più configurando come un partito che, oltre alla sezione dell’aristocrazia economica e finanziaria che non appoggia i democratici, può contare solo sul voto di bianchi, anziani e di coloro che vivono in aree rurali e suburbane, una fetta dell’elettorato cioè in netto restringimento nell’ambito dei cambiamenti sociali e demografici che stanno attraversando gli Stati Uniti.

Il vero problema per i repubblicani è però soprattutto la natura apertamente classista delle politiche che continua a promuovere, diretta conseguenze dei settori della società a cui i suoi vertici fanno esclusivo riferimento. Alla luce di questa situazione all’interno del partito e, ancor più, della sclerotizzazione dell’interno panorama politico d’oltreoceano, i cambiamenti che potrebbero essere adottati nel prossimo futuro finiranno quasi certamente per essere soltanto cosmetici.

La vittoria di Obama avrebbe poi segnato il fallimento della scommessa delle grandi banche di Wall Street che quest’anno avevano scommesso in gran parte su Mitt Romney. L’industria finanziaria americana, infatti, a differenza del 2008 ha investito ingenti somme sul candidato repubblicano, dopo che anche le sterili misure di regolamentazione del loro settore adottate dai democratici erano apparse ai loro occhi una inaccettabile limitazione alla possibilità di speculare in totale libertà.

Questa inversione di rotta da parte di Wall Street sarebbe stata motivata anche dai toni populisti tenuti in campagna elettorale da Obama, il quale ha spesso tuonato contro i ricchi banchieri. Il presunto scontro tra gli amministratori delegati delle banche di investimenti d’oltreoceano e l’establishment democratico non va tuttavia sopravvalutato.

Obama e i suoi colleghi di partito hanno già provveduto a rassicurare gli ambienti finanziari, promettendo un impegno chiaro per la riduzione del debito pubblico tramite il ridimensionamento della spesa pubblica, esattamente come richiesto pochi giorni fa a entrambi i partiti dai top manager delle principali compagnie di Wall Street.

Il riavvicinamento tra le banche americane e l’amministrazione Obama non tarderà ad arrivare, con i democratici che cercheranno di rientrare nelle grazie di futuri donatori la cui generosità sarà comunque fondamentale per i prossimi appuntamenti elettorali. Il banco di prova in questo senso potrebbe essere la stesura delle regole di implementazione della “riforma” del sistema finanziario del 2010 e la nomina dei nuovi vertici delle varie agenzie teoricamente preposte alla supervisione dell’industria finanziaria stessa.

La rielezione di Obama, infine, potrebbe prefigurare importanti cambiamenti in politica estera, anche se in campagna elettorale non erano emerse differenze sostanziali tra le posizioni dei due candidati alla Casa Bianca. Se la promozione a qualsiasi costo degli interessi dell’imperialismo americano in ogni angolo del pianeta rimarrà l’obiettivo principale del presidente democratico, saranno da verificare una serie di decisioni specifiche che dovrebbero essere prese nei prossimi mesi.

Sulla questione del nucleare iraniano, la stampa ha recentemente rivelato l’esistenza di un accordo tra Washington e Teheran per stabilire colloqui bilaterali dopo il voto. La Casa Bianca ha in realtà già smentito la notizia ma la ricerca di un accordo con la Repubblica Islamica potrebbe essere secondo alcuni una strada che Obama intende percorrere una volta liberatosi di ogni preoccupazione elettorale. Allo stesso modo, e forse più probabilmente, le tensioni potrebbero tuttavia anche aumentare, portando ad un possibile aperto conflitto con l’Iran, visto che l’obiettivo principale per gli Stati Uniti rimane il cambiamento di regime a Teheran utilizzando il pretesto del programma nucleare.

Un grande punto interrogativo rimane invece riguardo la questione palestinese, per la quale dopo il fallimento dei colloqui di pace durante le fasi iniziali del primo mandato di Obama, l’amministrazione democratica non sembra avere alcun piano alternativo da proporre. Sui rapporti israelo-palestinesi pesano anche le relazioni con Tel Aviv e in particolare del presidente con il premier Netanyahu, il quale nonostante i complimenti espressi all’inquilino della Casa Bianca dopo il voto di martedì aveva nascosto a fatica le sue preferenze per Romney.

In questo senso, il lavoro fatto a Washington dalle principali lobbies israeliane, a cominciare da AIPAC, per fare eleggere il candidato repubblicano non è andato dunque a buon fine, a conferma che, nonostante il servilismo di quasi tutta la classe politica USA nei confronti di Tel Aviv, questa attitudine non riflette necessariamente l’orientamento della maggioranza degli elettori ebrei americani.

Sul fronte dei rapporti con l’Europa, il bis di Obama dovrebbe avere suscitato maggiore soddisfazione tra i governi che, come quello francese, sostengono la necessità di privilegiare politiche di crescita economica invece dell‘austerity senza compromessi alla Merkel.

La posizione dell’amministrazione Obama, tuttavia, come quella appunto di Hollande, non prescinde da una pesante riduzione della spesa sociale o da uno smantellamento dei diritti del lavoro, come confermano non solo i provvedimenti adottati negli ultimi quattro anni ma anche le durissime misure che verranno prese a Washington già dalle prossime settimane per ridurre il deficit tramite pesantissimi tagli ai programmi pubblici destinati ai redditi più bassi.

In definitiva, se la subordinazione assoluta nei confronti dei poteri forti d’oltreoceano e la difesa degli interessi del capitalismo americano all’estero rimarranno la cifra del secondo mandato di Obama alla Casa Bianca, le politiche concrete che verranno messe in atto nei prossimi quattro anni a Washington saranno tutte da valutare e avranno in ogni caso effetti significativi sulle sorti dell’intero pianeta.