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La vittoria di Obama

di Aldo Giannuli - 12/11/2012


Alla fine Obama ce l’ha fatta su Romney, ma parlare di “trionfo”, come fanno molte testate fra le più note, mi pare fuori luogo. Certo lo stacco dal rivale è considerevole e superiore al più favorevole dei pronostici (+126 voti “pesanti” rispetto al rivale), ma è ingigantito dal particolare sistema elettorale americano (che attribuisce tutti i grandi elettori a chi abbia 1 voto in più degli altri) ed ad un pizzico di fortuna di Obama che ha vinto, pur se di pochissimo, in tutti gli swing states (gli stati-bilico). Però non si può passare sotto silenzio che:

a- Obama ha perso 10 milioni di voti popolari,  rispetto alla volta scorsa, raccogliendone oggi meno di quel che ne ebbe Mc Caine, il suo rivale, in quella occasione;

b- anche i repubblicani hanno perso elettori che hanno preferito astenersi, ma in misura decisamente più ridotta, per cui il distacco percentuale è sceso dal 7 al 2%;

c- ha perso tre stati e, di conseguenza 33 grandi elettori;

d- la Camera dei rappresentanti resta a maggioranza repubblicana ed in un momento delicato nel quale occorre fare i conti con il problema del debito pubblico;

Con ogni evidenza, si è trattato di una prestazione non eccezionale, che è ulteriormente ridimensionata dal fatto che Obama era il presidente uscente (e in otto casi su 10 l’uscente, negli Usa, è rieletto), ma, soprattutto, l’avversario era quanto di meno presentabile si potesse immaginare: un nanerottolo della politica che ha fatto tutto il possibile per rendersi odioso a neri, donne, gay, chicanos, poveri ecc. Non alla piccola minoranza cristiano ortodossa  del paese ed agli armeni, ma solo perché si è dimenticato di citarli in qualcuna delle sue insuperabili gaffes.

Con un avversario così ed essendo il Presidente in carica, non mi pare si possa parlare di trionfo. Certo Obama ha pagato il prezzo della crisi (a proposito è il solo ad esse riuscito a farsi rieleggere con un margine di disoccupazione superiore all’8% e, se i dati fossero quelli reali, la percentuale crescerebbe), ma, se è per questo, ha pagato anche il suo modo di affrontarla solo a colpi di emissioni di liquidità e crescita del debito pubblico, e guardandosi bene dal mettere in discussione l’architettura del sistema che è l’evidente causa della crisi.

Da questo punto di vista, Obama (come Clinton prima di lui) è il simmetrico di Eisenower e Nixon che furono i presidenti repubblicani dell’epoca del welfare: per quanto potessero cercare di rappresentare interessi sociali contrapposti, non si azzardarono a muovere un dito contro la costruzione del Welfare creato dai democratici Roosevelt e Truman. Simmetricamente, Obama ha cercato di rilanciare il welfare con una pur zoppicante riforma sanitaria e di limitare di eccessi finanziari, con una modestissima ed abortita riforma della finanza, ma, nel complesso, si è mosso all’interno dell’architettura di potere neo liberista  creata dai repubblicani Reagan e Bush (padre e figlio).

Gli americani amano le variazioni sul tema e non le svolte radicali e per di più, il sistema elettorale, come tutti i sistemi maggioritari, tende a rendere simili fra loro i partiti, premiando i candidati moderati e di centro rispetto a quelli più polarizzati. Una relativa eccezione costituirono Roosevelt per i democratici e Reagan per i repubblicani, candidati più radicali che moderati, ma il primo venne dopo la grande crisi del 1929 ed il secondo dopo il culmine della crisi fiscale dello stato degli anni settanta, entrambi momenti piuttosto eccezionali; comunque, le loro riforme, per quanto radicali, furono pur sempre tutte  interne al sistema.

Obama avrebbe potuto essere questo: un presidente riformista di rottura, proprio per la gravità della crisi in atto, ma non ha avuto il coraggio necessario.

Una riflessione finale: si è trattato della campagna elettorale più costosa della storia americana (e quindi mondiale), il solo Obama ha speso l’iperbolica cifra di 1.000 miliardi, l’equivalente del Pil del Messico o della Corea del Sud. Una domanda semplice semplice: secondo voi, quanto è democratico uno stato nel quale quello che è eletto ha dovuto procurarsi 1.000 miliardi di dollari?