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Nella prosa vigorosa di Arrigo Caterino Davila il memorabile ritratto di Coligny

di Francesco Lamendola - 21/11/2012

 


 

Il nome di Arrigo (o Enrico) Caterino Davila è poco conosciuto al grande pubblico, forse anche per quel pregiudizio anti-seicentista che pesa sul “gran secolo”, da Francesco De Sanctis in poi (ma forse anche prima, con il sottinteso razionalista e illuminista che induce Manzoni a farne, sì, il protagonista corale de «I promessi sposi», ma in una luce pregiudizionalente critica e, in ultima analisi, ostile).

Davila era nato a Piove di Sacco, in provincia di Padova, nel 1576; a soli sette anni, si era trasferito alla corte di Francia con il padre, avendo ricevuto i suoi due nomi di battesimo in onore, appunto, di Enrico III e di Caterina de’ Medici e venendo avviato alla carriera militare, partecipando personalmente alle guerre civili (otto, per l’esattezza) che si combatterono fra cattolici e ugonotti, e che insanguinarono quel regno fra il 1562 e il 1598.

Tornato in Italia alla fine di esse, segnata dall’editto di Nantes di Enrico IV, che concedeva libertà di culto ai protestanti e il possesso di una serie di piazzeforti a questi ultimi, quale garanzia di incolumità, egli fu dapprima al servizio dei Farnese di Parma, nel 1599, ove sostenne un vittorioso duello con il letterato Tommaso Stigliani, poi, dal 1506, a quello della Repubblica di Venezia, ove raggiunse alti riconoscimenti, prima di finire ammazzato presso Verona, nel 1631, mentre si recava a Crema per assumere il comando della locale guarnigione.

La sua «Historia delle guerre civili di Francia», pubblicata nel 1630, va dalla morte di Enrico II di Valois, nel 1559, al 1598 e copre, dunque, l’intero periodo delle lotte religiose, dal principio alla fine; è scritta con uno stile sobrio e vigoroso, niente affatto “barocco” nel senso che comunemente si associa alla parola, e con una acuta capacità di penetrazione dei moventi politici dei suoi protagonisti - i sovrani francesi e i capi degli opposti partiti di Guisa e di Navarra -, mentre considera secondarie le motivazioni religiose, che appaiono all’autore piuttosto come un pretesto agitato dai due partiti aspiranti al potere.

Nonostante le cieche violenze e i disordini creati dalle guerre civili, Davila ammira la monarchia francese, da lui osservata in prima persona, e la contrappone a quella spagnola,c che, come Alessandro Tassoni, cordialmente detesta: vede nella prima un modello positivo di governo dello Stato, mentre la seconda gli appare «arcaica, feroce e fiscale» (Rossi-Tomasi); la sua capacità di osservazione è degna di tutto rispetto e si inserisce nel solco della grande tradizione storiografica rinascimentale di Guicciardini e Machiavelli.

Nella descrizione, straordinariamente obiettiva anche se fatta da un autore cattolico, della tragica notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572), tramata presso i “falchi” della corte di Caterina de’ Medici e scatenata dal partito del duca di Guisa, in occasione dei festeggiamenti per le nozze tra la cattolica Margherita di Valois, sorella del re Carlo IX, e il protestante Enrico di Borbone (il futuro re Enrico IV), un particolare rilievo occupa il racconto della tragica morte del celebre ammiraglio Gaspard de Châtillon - o Gaspard II de Coligny -, eroe di guerra e già ascoltato consigliere del sovrano, uomo di punta del partito ugonotto, che due giorni prima, il 22 agosto, aveva subito un attentato ad opera di un fanatico cattolico, Charles de Louviers (ma i mandanti non saranno mai accertati) e si era salvato a stento, restando ferito a una mano e a un gomito.

Così, dunque, il Davila rievoca quella pagina oscura e drammatica della storia di Francia (da: «Historia delle guerre civili di Francia»; riportato in: Marcello Rossi e Mario Tomasi, «I tempi e le parole. Dalle origini al Settecento», Bologna, Zanichelli, 1984, pp. 476-79):

 

«Stabilite tutte le cose, la sera venendo il giorno vigesimo quarto d’agosto, dì di domenica e destinato alla festività di San Bartolommeo, il duca di Guisa uscito di corte nell’oscurar della notte, andò per commissione del re a trovare il presidente Charrone, preposto de’ mercanti, il quale è capo principale de popolo parigino, commettendogli che mettesse al’ordine due mila uomini armati, i quali portassero una manica di camicia nel braccio sinistro ed una croce bianca sopra il cappello, co’ quali si potesse ad un’ora medesima eseguire gli ordini del re; che facesse stare all’ordine tutti i caporioni, o, com’essi dicono, eschievini [scabini, giudici] delle contrade, e che a tutte le finestre a’ botti della campana dell’orologio del palazzo fossero accesi lumi: tutte le quali cose per l’inclinazione del popolo e per l’autorità grande del duca di Guisa, oltre la commissione del re, furono subitamente eseguite.

Presero l’armi il duca di Mompensieri ed il duca di Nevers, con molti altri signori della corte, i quali in compagnia dei loro famigliari restarono appresso la persona del re, essendo alla porta e nel cortile del Lovero tutte le guardie in arme.

All’ora determinata il duca di Guisa, accompagnato dal duca d’Omala e da monsignor d’Angolemme, gran priore di Francia, fratello naturale del re, e con altri soldati e capitani al numero di trecento, andò alla casa dell’ammiraglio [Coligny], e trovata d’ordine del duca d’Angiò tutta in arme e con le corde [micce] accese la compagnia di Cossein posta per innanzi a questa guardia, sforzarono la porta del cortile custodita da pochi alabardieri del re di Navarra e da’ familiari di casa, i quali furono senza remissione tutti uccisi. Entrati nel cortile, vi restarono fermi i padroni, e Beme, di nazione lorenese, famigliare del duca di Guisa, ed Achille Petrucci, senese, uno de’ gentiluomini forestieri trattenuti dal medesimo, con il maestro di campo Sarlabos e gli altri soldati salirono alla camera dell’ammiraglio.

Egli, sentito il romore, ed appoggiato al letto, s’era prostrato ne’ ginocchi, e vedendo entrare tutti spaventato in camera Cornasone suo familiare, lo interrogò che strepito fosse quello; il quale rispose: “Monsignore, Dio ci chiama a lui”; e se n’uscì fuggendo per altra porta.

Arrivarono quasi subito i percussori,e riconosciuto l’ammiraglio, si voltarono verso di lui, al quale atto egli rivolto al Beme che gli aveva sfoderata la spada contro disse: “Giovane, tu dovresti riverir queste mie chiome canute, ma fa quello che vuoi, che di poco m’avrai accortata la vita”; dopo le quali parole, Beme gli diede la spada nel petto, e gli altri, finito che ebbero d’ammazzarlo co’ pugnali, lo gettarono dalle finestre nel cortile, e subito fu strascinato in una stalla. Nel medesimo palazzo furono ammazzati Teligni, genero del’ammiraglio, Guerchi, suo luogotenente, che con un mantello avvolto nel braccio combattendo si fece uccidere, i colonnelli Montaumar e Rourai, il figliuolo del barone di Sant’Adrets, e tutti quelli della sua corte. […]

Per la città il primo ed il seguente giorno furono uccisi più di dieci mila, e tra questi più di cinquecento baroni e cavalieri, ed uomini che nella milizia avevano tenuto i primi gradi, essendo convenuti con grande studio da tutte le parti del regno per onorare le nozze. Furono fatti prigioni monsignore di Briquemaut ed Arnaldo Cavagna, i quali per sentenza del Parlamento furono poi squartati come ribelli.

Il corpo del’ammiraglio cavato a furia di popolo dalla stalla ov’era stato riposto, fattone prima infiniti strazii, fu dalla moltitudine infuriata contro il suo nome, dopo d’avergli spiccata la testa e tagliate le mani, strascinato per le strade fino a Monfalcone, luogo della giustizia, e quivi lasciato per uno de’ piedi impiccato alla forca e dopo non molti giorni, plaudendo e giubilando tutto il popolo, acceso fuco alla medesima forca, restò mezzo abbruciato, non si trovando fine agli scherni del suo cadavero, sin tanto che da due famigliari del maresciallo di Momoransi furono asportate di notte quelle poche reliquie, ed a Ciantigli [Chantilly] nascostamente sepolte.

Questo fu l’esito di Gasparo Coligni ammiraglio del mare, il cui nome nello spazio di dodici anni interi aveva riempito non meno di strepitosa fama, che di gran terrore tutta la Francia: esempio chiarissimo a tutto il mondo, quanto soglia essere precipitoso e rovinoso il fine di coloro che senza altra considerazione, che de’ propri interessi, con sottili e artificiosi consigli credono di stabilir permanente grandezza sopra il solo fondamento della prudenza umana: perciocché non è da dubitare ch’egli allevato da’ primi anni ne’ carichi principali della milizia, e condotto dal suo valore e dalla prudenza al sommo degli onori, non avesse o agguagliati, o superati tutti gli altri capitani dell’età sua, e non fosse pervenuto ed al grado di contestabile ed a tutte l’altre grandezze di quel reame, s’egli non avesse eletto di fondare la sua esaltazione, contra l’autorità del suo principe, sopra le fazioni e sopra le divisioni civili, poiché anco nel tenebroso delle discordie e delle sollevazioni risplendono molto chiari i lumi della solerzia, della costanza, della fierezza sua, e sopra tutto d’un ingegno maraviglioso a maneggiare qualsivoglia grandezza di pensieri.»

 

Come si vede, e nonostante la materia stessa si prestasse alla retorica, la narrazione è tanto sobria ed asciutta, quanto può esserlo quella di uno scrittore del Seicento, un secolo che non ama la sobrietà letteraria (e non solo letteraria: si pensi all’architettura, alla scultura, alla pittura e alla musica barocche) e che fatica a trattenere la tendenza al concettismo, agli artifici retorici e alla volontà di sbalordire il lettore ad ogni costo.

A parlare sono i fatti, nella loro nuda, brutale essenzialità; non ci sono facili giudizi morali, non ci sono fronzoli artistici o toni inutilmente melodrammatici: la materia è già drammatica quanto basta, ogni sbavatura sarebbe superflua; vi è solo l’asciutta prosa di uno storico che sa andare dritto all’essenziale, che trascura tutto ciò che è secondario per condurci fino al cuore del dramma, con quelle uccisioni a tradimento di vittime inermi, già addormentate nei loro letti; con quei mucchi di cadaveri insanguinati che s’ammucchiano per le strade, dopo essere stati gettati giù dalle finestre; con quel sadico, demoniaco infierire delle plebi contro i cadaveri già decapitati e smembrati, quasi che si volesse tormentare gli infelici perfino oltre le soglie della morte.

Coligny è ritratto nella sua grandezza d’animo e nella sua dignitosa accettazione del proprio destino: in quel suo chiedere la morte per mano di un adulto e non di un ragazzo, il quale dovrebbe comunque provare rispetto davanti ai suoi capelli bianchi, vi è un tratto degno di Plutarco, anche se non abbiamo ragioni per dubitare della veridicità dell’aneddoto; e nella mano del Bême, cinico scherano del duca di Guisa, che immerge la sua spada nel petto del vecchio eroe, per potersene gloriare presso il suo signore con feroce soddisfazione, vediamo quasi la mano di un parricida, simbolo di un delitto più grande di quello materialmente commesso: il delitto contro la santità della vecchiaia, contro il rispetto dovuto dalle giovani generazioni alla canizie, valore sacro e universalmente condiviso in una società patriarcale, come quella seicentesca.

Il giudizio morale sulla figura complessiva dell’ammiraglio è più complesso, e in esso il Davila mostra una superba capacità di soppesare e articolare sfumature e sfaccettature contrastanti. Certo Coligny fu un ambizioso, oltre che un generoso; certo ebbe il gravissimo torto di voler costruire le proprie fortune sulle fazioni, sulle lotte intestine che insanguinavano la Francia;  e certo aspirò a un potere troppo grande, servendosi anche di mezzi obliqui. Però fu indubbiamente un uomo superiore, di quelli che non si trovano, come si usa dire, sotto i sassi del greto d’un fiume; fu un abile soldato, un prudente statista, un politico di ingegno superbo, la cui intelligenza sapeva cogliere tutti gli aspetti di un problema.

Questi aspetti di grandezza sono, per il Davila, quello che fa la differenza tra un ambizioso senza qualità e un uomo come Coligny, che fu, a suo giudizio, intrigante e avido di potere, ma che fu anche capace di grandi disegni, dentro e fuori la Francia; e che, se fosse vissuto, avrebbe dato grandi preoccupazioni al tradizionale nemico esterno, la Spagna; c’è anche chi sospetta che la decisione di eliminarlo scaturì proprio da quegli ambienti, vicini al Guisa e alla corte, che volevano stornare l’eventualità di una politica apertamente ostile alla Spagna, con le pericolose conseguenze che ciò avrebbe comportato. Il fallimento dell’attentato alla sua vita avrebbe poi condotto alla decisione di scatenare il massacro della notte di San Bartolomeo, per prevenire una possibile reazione degli ugonotti, indignati e allarmati dal tentato assassinio.

L’opera del Davila sulle guerre civili in Francia fu così apprezzata, che all’edizione veneziana seguirono, nel giro di pochi anni, la traduzione in francese, in spagnolo ed in latino: l’Europa colta del tempo aveva saputo riconoscerne il valore. Ma l’Italia, troppo spesso matrigna verso i suoi uomini illustri, non ne ha coltivato la memoria come sarebbe stato giusto; e ben poche persone di media cultura conoscono, oggi, il suo nome, né ci si prende la briga di insegnarlo nelle scuole.