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La “Bella Carta” e i suoi manutengoli

di Ugo Gaudenzi - 19/12/2012

Che la nostra Carta Costituzionale, fatti salvi alcuni manifesti orrori “provvisori” o meno, sia “bella”, potremmo affermarlo anche noi.
Che sia in gran parte un libro di piccoli e grandi sogni, con qualche incubo al margine, lo dovrebbero sapere tutti.
Se sia “esteticamente” gradevole, lo abbiamo già ieri sfatato in premessa, con Teodoro Klitsche de la Grange che ricordava come fosse... molto più bella la Costituzione sovietica del 1977, inapplicata anch’essa e poi, colpita da un barattolo di Coca Cola, affondata nel 1991.
Sulla “diretta” condita da satire cotte stracotte, con la fissa dell’antiberlusconismo, e dispensata ai teledipendenti dal doppio Oscar Roberto Benigni - i giullari italiani vanno per la maggiore, sia a Hollywood che a Stoccolma - proponiamo oggi un commento al vetriolo di Antonio Serena, nelle pagine interne (e siamo sodali con lui per aver retto impavido al suo monologo).
In ogni caso è una “carta” che dovrebbe disegnare il “contratto legale” tra italiani, gli indirizzi politici, morali, civili a fondamento della Repubblica. Una “carta” da valutare non soltanto nei suoi termini scritti (eticamente buona o cattiva, un atto giuridico valido, non valido, equo o iniquo...), ma, soprattutto oggi, vista la sua veneranda età, nel suo stato di salute, e cioè di corretta applicazione.
E la nostra Costituzione - forse “bella”, mah... - è un fatto che giace per la massima parte inapplicata. O inapplicabile in uno Stato a sovranità limitata che partecipa alle guerre altrui ma le “ripudia”, che è fondato sul “lavoro” ma privilegia la disoccupazione e le rendite da usura, che dichiara di fatto la proprietà pubblica delle aziende strategiche ma le privatizza, che inventa controlli trasversali dei poteri e i controllati diventano controllori.
Un libro falso. Niente più.