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Le quattro virtù cardinali: prudenza

di Francesco Lamendola - 20/12/2012

 


 

Dante e Virgilio, sbucati sulla spiaggia del Purgatorio, vedono brillare, alte nel cielo australe, quattro stelle eccezionalmente luminose, la cui bellezza lo commuove al punto da fargli considerare il cielo boreale “vedovo”, poiché gli è negato un tale fulgore.

Esse rappresentano le quattro virtù cardinali, già note agli antichi, e specialmente a Platone, ma riprese e reinterpretate dalla cultura medievale con una particolare coloritura religiosa; tanto che la teologia cristiana, da sempre, le considera propedeutiche all’acquisizione delle tre virtù teologali, che portano l’anima umana alle soglie del divino: fede, speranza e carità.

Le quattro virtù cardinali sono la prudenza (“prudentia”), la giustizia (“iustitia”), la fortezza (“fortitudo”) e la temperanza (“temperantia”); ad esse alcuni teologi cattolici ne aggiungono una quinta, l’umiltà (“humilitas”), che le completa e le riassume, nel senso evangelico della purezza di cuore o della verginità del cuore (“puritas cordis”).

Gli uomini moderni sembrano averle dimenticate: vivendo in una società profondamente secolarizzata, essi le hanno messe in soffitta, considerandole un retaggio della educazione religiosa ricevuta da bambini, e nella quale non vogliono più riconoscersi; e poco importa che esse non siano virtù specificamente cristiane, ma proprie dell’essere umano in quanto tale, cioè, per dirla con Aristotele, in quanto essere sociale e ragionevole.

Del resto, tutto o quasi tutto, nel mondo moderno, sembra andare nella direzione contraria ad esse: la fretta, l’efficientismo, l’utilitarismo, l’edonismo, il materialismo, la smania di arrivare ad ogni costo, di affermarsi in qualunque modo: siamo tutti ormai nipotini di Machiavelli; tutti, nel nostro piccolo, tendiamo a pensare che il fine giustifica i mezzi, che ciò che conta è riuscire e che il risultato è il solo criterio della validità di un’azione.

In particolare, sembra che più nessuno, ormai, abbia ancora voglia di parlare del bene e del male; se qualcuno si azzarda a farlo, viene tacciato di semplicioneria sul piano filosofico, in nome del relativismo, dello scetticismo e di ogni sorta di “pensiero debole”, per cui “male” e “bene” sembrano concetti troppo netti ed univoci; e di autoritarismo sul piano pratico, perché, si dice, pretende di imporre agli altri la sua concezione etica.

Ai bambini, specialmente, secondo la cultura oggi dominante non si dovrebbe più parlare del bene e del male: son discorsi che hanno fatto il loro tempo, che hanno creato disagio e senso di colpa, che hanno prodotto individui nevrotici e tendenzialmente schizofrenici: ma quale bene, quale male, ciò che conta è non traumatizzare i piccoli, non imporre loro divieti e restrizioni, tutto va bene purché sia spontaneo, evviva la libertà.

Del resto, si aggiunge, che male c’è a fare questa o quella cosa, anche se fuori dalle regole morali, purché non rechi un danno evidente al prossimo? È sbagliato, si dice, parlare del bene e del male come se fossero categorie ontologiche auto-sussistenti; è bene solo ciò che io giudico bene, ed è male ciò che io ritengo essere male: non alla luce di un principio superiore, non in base a una gerarchia di valori, ma così, empiricamente, all’insegna del quotidiano “carpe diem”, in una società che, come insegna il liberalismo, serve quasi solo a tutelare i miei diritti.

Che ci possano essere anche dei precisi doveri verso se stessi; che non basti non fare del male palese al prossimo, ma che bisogni anche astenersi da tutto ciò che può danneggiarlo indirettamente e in maniera poco visibile; che, insomma, agire bene non sia questione di singole azioni estemporanee, dettate solo dalle circostanze  e dalle opportunità, ma un abito mentale e una maniera di porsi di fronti a sé e agli altri, oltre che – per quanti ci credono – davanti a Dio: tutto questo sembra essere stato dimenticato, aver perso la sua evidenza.

Gli effetti negativi di questa filosofia, però, sono evidenti e sotto gli occhi di tutti: la società rischia di implodere, ormai ci si vive con fatica, con pena, con disagio crescente; non solo: la natura si ribella, violentata in ogni maniera da un modo di porsi dell’uomo, nei suoi confronti, che sembra non riconoscere alcun diritto alle altre creature viventi.

E allora proviamo a tornare a parlare del bene e del male, torniamo a parlare delle quattro virtù cardinali: senza una rifondazione morale dei valori che rendono la vita amabile e degna d’essere vissuta, non si andrà da nessuna parte, si girerà a vuoto in un circolo vizioso.

La prima di esse è la prudenza. Potremmo definirla come la capacità di discernere, appunto, il bene dal male; o, se si preferisce, di discernere quale sia il vero bene, per noi innanzitutto, ma poi anche per coloro che sono in relazione con noi, cominciando dai nostri cari e finendo con gli animali, con le piante, con l’ambiente nel quale viviamo.

È difficile parlare della prudenza, così come delle altre virtù cardinali, in termini puramente laici: perché, in una visione spirituale, essa orienta l’anima verso il Bene, ossia verso la volontà di Dio; definizione che un” laico” certamente non potrebbe accettare. D’altra parte, da Platone in poi, questa è sempre stata l’idea del Bene propria della nostra civiltà: uniformarsi alla volontà divina. Solo in tempi recenti si è fatta avanti una diversa concezione, che pretende di fondare l’etica esclusivamente sulla dimensione dell’immanenza.

Per Aristotele, la prudenza consiste nel retto discernimento intorno a ciò che si deve operare; il cristianesimo, a sua volta, la considera così importante e così ineffabile, che la vede come uno dei sette doni dello Spirito Santo, dello Spirito di Dio.

La prudenza, evidentemente, ha a che fare con la sapienza, ne è la premessa logica: solo la persona prudente può avvicinarsi al vero sapere; senza la prudenza, il sapere degenera e fuorvia chi lo coltiva: da strumento di liberazione intellettuale e di crescita spirituale, il sapere diventa pietra d’inciampo e fonte di continuo errore.

La persona imprudente, accecata dall’orgoglio o dalla precipitazione, smarrisce il senso del conoscere e si perde lungo mille vie tortuose, che la allontanano dalla verità, mentre ella crede di avvicinarsi ad essa: è tipico dell’imprudenza, infatti, scambiare l’errore per verità e chiudersi in esso, intestardendosi e perseverando in falsi ragionamenti.

La prudenza è nemica della fretta, è nemica della precipitazione e si guarda bene dalla tentazione dell’orgoglio: sa che ciascuno di tali atteggiamenti la porterebbero fuori strada, perciò soppesa attentamente gli elementi davanti ai quali deve prendere una decisione o assumere una linea di condotta.

Nondimeno, la prudenza non è affatto sinonimo di freddo calcolo e di mancanza di spontaneità: è, semplicemente, la saggia attitudine a valutare con calma, a non lasciarsi trasportare da impulsi poderosi, ma, forse, non buoni; ad andare oltre le apparenze, a essere lungimiranti, a cogliere nelle cose l’essenziale, dietro la loro superficie che, talvolta, è seducente, ma ingannevole.

La prudenza, come le altre virtù morali, è, prima di tutto, un dono di Dio: ma un dono al quale l’uomo è chiamato a collaborare attivamente, sviluppandola ed educandola e integrandola con la virtù del consiglio, ovvero della sapienza. L’uomo, dunque, riceve uno strumento in sé perfetto, ma sta a lui imparare ad accordarlo, per trarne le note giuste; da lui dipende se tale strumento verrà suonato bene o verrà suonato male.

D’altra parte, sarebbe sbagliato immaginare la prudenza, così come le altre virtù morali, come un bene in se stesso compiuto e autosufficiente: al contrario, esso è in relazione con tutte le altre virtù e, insieme ad esse, discende direttamente dal giusto modo di porsi dell’uomo di fronte a Dio. In altre parole, se si cade nel vizio dell’imprudenza, ciò avviene non per un caso fortuito, ma per una ragione ben più profonda, ossia perché si è perso di vista il vero fine della vita, che è assecondare l’azione dell’amore divino. Si diventa imprudenti allontanandosi dal Bene.

La prudenza, infatti, non consiste nell’agire in maniera prudente in una singola circostanza, così come l’imprudenza non consiste solo nell’agire in maniera avventata; la prudenza è una disposizione dell’anima, un modo dell’essere, non un abito che si può indossare o levarsi a piacere. Dunque, una volta acquisita, non la si smarrisce più, anche se si può, talvolta, errare; viceversa, una volta sprofondati nel vizio dell’imprudenza, un errore chiamerà l’altro, una colpa seguirà all’altra: perché, nella vita dell’anima, tutto è legato, tutto si tiene.

Ecco come il teologo Bernhard Häring considera la virtù della prudenza (B. Häring, «La legge di Cristo. Trattato di teologia morale»; titolo originale: «Das Gesetz Christi. Moraltheologie» 1961; traduzione dal tedesco di A. Kovacev, B. Ragni, S. Raponi, Brescia, Morcelliana, vol. 3, pp. 22-32):

 

«Il significato più vasto del termine  biblico “prudenza” coincide, in larga misura, col concetto di “sapienza”. Esse costituiscono, insieme, il contrapposto della “pazzia del peccato”, il quale, nel suo accecamento, si prescrive uno scopo e dei mezzi che conducono inevitabilmente all’eterna perdizione […] La prudenza deve giudicare “dei mezzi proporzionati allo scopo”, come dice S. Tommaso dopo Aristotele, cioè: essa deve vigilare sulla pratica della carità. […] Ogni virtù dipende dalla prudenza nella misura in cui essa ha bisogno di armonizzare la sua azione alle circostanze […] Essa ha due compiti: valutare esattamente le circostanze concrete, e decidere l’atto che ad ogni momento la realtà esige. […] La virtù della prudenza non considera solamente le circostanze esterne, ma, soprattutto, le realtà soprannaturali. In quanto virtù infusa, essa è l’occhio della fede rivolto alla situazione del momento. […]

La prudenza si radica nell’umiltà e nel riconoscimento umile e rispettoso della realtà e delle possibilità limitate del bene. […] Prudente è solamente chi, in umiltà assume le povere condizioni della vita ed accoglie volentieri il compito che Dio gli trasmette per mezzo del messaggero così banale della situazione concreta. […] La virtù della prudenza è davanti al reale, non come spettatrice estranea, ma per impegnarsi attivamente in esso. Essa è estranea ad ogni quietismo e ad ogni falsa “interiorità”, la quale per essere in regola si contenta di buone intenzioni senza dare la dovuta importanza all’azione. […]

S. Tommaso respinge esplicitamente l’opinione secondo la quale la virtù della prudenza servirebbe esclusivamente al perfezionamento del proprio io, e mirerebbe non tanto alla rettitudine dell’impegno esterno, quanto alla virtù interiore di colui che agisce. Poiché compito della prudenza è di dirigere l’impegno attivo della carità, essa deve seguire la stessa direttiva della carità, la quale “non cerca ciò che è suo” (I Cor. 13,5), ma serve il prossimo e, soprattutto, “il bene comune”. I tre principali atti della prudenza sono, secondo S. Tommaso, la de deliberazione (“consilium”), il giudizio portato sulla situazione (“iudicium”) e l’ordine di esecuzione, con la determinazione precisa dell’azione (“imperium”, “praecipere”). Il terzo atto è lo scopo dei due rimi, di cui si suppone la rettitudine. […]

Ciascuno deve particolarmente coltivare quell’aspetto della prudenza che meglio gli conviene. Così, pèer es., lo scrupoloso deve badare non tanto all’accuratezza nella decisione e nella deliberazione, quanto alla coraggiosa prontezza del giudizio. Non tutti sono dotati dalla natura, nello stesso modo, dei doni della prudenza. Non tutti possono, anche con la migliore buona volontà e col crescere in santità, acquistare quella somma di prudenza che li renderebbe capaci di guidare altri. Ma come insegna S. Tommaso, tutti coloro i quali sono in stato di grazia hanno la prudenza sufficiente per conseguire l’eterna salute e, “se hanno bisogno di consiglio essi sanno almeno ricorrere al consiglio altrui e distinguere i suggerimenti buoni dai cattivi”. […]

Poiché la prudenza è, in certo modo, “il tatto della coscienza nella situazione concreta”, essa può essere veramente delicata e sicura solo quando la coscienza che la sostiene e la muove è delicata e forte. La virtù della prudenza fiorisce solamente in una coscienza sana, in una personalità in armonia con se stessi e con Dio. […]»

 

Certo, la virtù greca della prudenza è una cosa puramente umana, puramente razionale, puramente legata agli scopi contingenti della vita; soprattutto in Aristotele, che era un grande filosofo, ma non era un uomo spirituale. Per l’uomo spirituale, invece, la prudenza è una virtù soprannaturale, che scende dall’alto e tende a risalire alla sua fonte; e che sarebbe nulla senza il soccorso della Grazia e senza l’assenso della volontà umana a ciò che la trascende.

Possiamo trovarci in parziale disaccordo con singoli punti della dottrina tomista; ma, in quanto si tratta di una dottrina profondamente spirituale, oltre che pienamente razionale, dobbiamo per forza trovarci in sintonia con essa sulle linee fondamentali.

L’uomo, senza la virtù della prudenza, sarebbe una canna al vento; ma la prudenza egli non può darsela da solo: è un dono di natura, certo, ma la natura ne è solo l’intermediaria: non viene da essa, ma dall’alto.

Per il resto, l’uomo è chiamato a collaborare a quel dono, non a riceverlo passivamente: perché, se non vi fosse la sua collaborazione, esso scenderebbe invano e si perderebbe, così come un fiume che si perde ed evapora nelle sabbie del deserto.

E in ciò sta, appunto, la grandezza dell’uomo davanti a Dio: nella sua capacità di agire da essere libero, fatto a sua immagine, riflesso della sua perfezione.