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La «ricerca» proustiana si consuma nel vano inseguimento d’una impossibile redenzione laica

di Francesco Lamendola - 28/01/2013




 

È possibile, è realizzabile una redenzione del passato che sia laica e immanente, che prescinda dalla trascendenza e dal divino; che offra all’uomo di ritrovare il proprio passato, senza accettare il destino di nullificazione che il tempo, inesorabilmente, sembra portare con sé?

Si potrebbe leggere gran parte della letteratura e del teatro novecenteschi in questa prospettiva, e cogliere in parecchi dei maggiori autori contemporanei lo sforzo, la tensione verso la realizzazione di un simile obiettivo: quello di strappare al tempo e, in ultima analisi, alla morte, il loro amaro pungiglione che riduce a niente gli enti, le gioie, le speranze, i sacrifici, le lotte, gli amori e i valori umani; quello di riconciliare l’uomo con il suo passato, senza pagare l’obolo, se così lo vogliamo chiamare, di fare appello a qualcosa che sia fuori di lui, a qualcosa che stia al di sopra di lui e che si sottragga alle leggi del tempo, perché increato, eterno e puramente spirituale.

Certo si può interpretare, fra le altre, la «Ricerca» proustiana, come un tentativo di questo genere: un tentativo la cui vastità, la cui complessità, la cui smisurata ambizione di completezza ha suscitato l’ammirazione pressoché incondizionata dei critici; un po’ meno, se vogliamo essere onesti, del pubblico, che la ha sempre trovata un mattone quasi illeggibile. Ma a chi importano questi dettagli: si sa che la critica è più progredita, più matura e cosciente di quanto non lo sia il pubblico; e che sarà quest’ultimo, prima o dopo, a doversi adeguare alle nuove tendenze estetiche – che si parli di letteratura o di teatro, ma anche di cinema, di musica, di pittura, di scultura, di architettura, di urbanistica.

Eppure, forse una ragione c’è, che non sia soltanto quella della scarsa preparazione culturale e della insufficiente competenza letteraria, se il pubblico non è mai riuscito a leggere e digerire con intima persuasione né Proust, né Joyce, né Virginia Woolf e nemmeno tanti altri mostri sacri del Novecento, ivi compresi Montale e Zanzotto (ma non, per esempio, Ungaretti o Saba, e men che meno Biagio Marin). E forse questa ragione risiede proprio nel fatto che, oltre alla estrema pesantezza narrativa, all’eccesso di introspezione psicologica, all’insistito compiacimento in uno sperimentalismo letterario che sembra talvolta fine a se stesso, tra dialoghi interiori, flussi di coscienza e pagine e pagine di testo senza un punto né una virgola; oltre a tutto questo, dicevamo, Proust e gli altri non sono in grado di mantenere quel che sembravano promettere: una uscita dal tunnel, un nuovo cielo con le stelle brillanti sopra l’uomo, appunto una redenzione che gli permetta di riconciliarsi con se stesso.

Così scrive Mariolina Bongiovanni Bertini  nel suo saggio: «Redenzione e metafora. Una lettura di Proust» (Milano, Feltrinelli, «Saggi brevi», 1981; cit. in: «Proust e la critica italiana», a cura di Paolo Pinto e Giuseppe Grasso, Roma, Newton Compton Editori, 1990, pp.324-330):

 

«Nell’ultimo capitolo del “Temps retrouvé” il Narratore della “Recherche” approda ad una visione della propria vita che si risolve - come nell’ultima pagina della “Vita nuova” dantesca nella prefigurazione nell’attesa di un’opera a venire: di un’opera destinata a ordinare e reinterpretare  i frammenti del vissuto in una prospettiva di salvezza, non religiosa né meramente estetica, ma tale da accogliere in sé e da sottrarre a ogni azione disgregatrice gli elementi di un’esperienza individuale atta a farsi - proprio grazie alla sua rigorosa specificità - figura di un destino anche collettivo dai lineamenti storici ben precisi […]

Il valore conoscitivo che l’analogia ha agli occhi  di Proust e il potere evocativo della metafora tendono, in questo e in altri passi del “Temps retrouvé”, a sovrapporsi sino a confondersi: come se l’immagine della redenzione, di cui la metafora racchiude la segreta promessa, non potesse affrancarsi mai dalla nostalgia che la segue come un’ombra e che è il suo più intimo legame  con il tessuto del passato, lacerato instancabilmente dalla memoria volontaria e dalla ragione strumentale. L’opera di salvezza che la metafora persegue è quindi un’opera di ricomposizione, di ricostruzione; affine, pur nel’irreducibile diversità, a quel comporsi in costellazioni significanti degli indizi, delle tracce che guida infinite volte il Narratore  sulla via della comprensione di una verità imprevedibile eppure già segretamente presente nei segni che potrebbero rivelarla. […]

Non è difficile riconoscere la fisionomia della vittima che affiora in filigrana in ogni pagina della “Recherche”: è l’Io autoconservativo del romanziere-narratore, il soggetto del desiderio metafisico, dell’indifferenza all’altrui soffrire, dell’implacabile volontà di possesso che si dispiega senza posa nella gelosia e nell’amore. Lungi dall’essere una vittima disposta ad immolarsi spontaneamente, resiste dispiegando una proterva, inesauribile vitalità: demolirne le difese, capovolgerne le interessate, e spesso inconsapevoli, menzogne, smontarne sistematicamente le sottili costruzioni ideologiche, è un compito che solo il Narratore stesso, emancipato dal desiderio metafisico e pervenuto alla piena consapevolezza della sua vocazione di romanziere, può arrogarsi, rivolgendo contro se stesso, affondando nelle zone più oscure della propria vita e della propria coscienza, lo strumento del sapere indiziario, così efficace nel mettere a nudo la vera natura, le vere intenzioni, le vere colpe degli altri, dissimulate  nell’apparente insignificanza dei loro gesti e delle loro parole. […]

Solo il soggetto che ha disgregato, attraverso questa analisi spietata, le fortificazioni concentriche delle proprie difese, il soggetto che ha osato intaccare con gli acidi dell’interpretazione indiziaria la figura edulcorata e accattivante dell’Io che troneggia sull’altare dell’interiorità spiritualizzata, può accogliere e rielaborare nella scrittura metaforica quella visione luminosa del “cuore delle cose” che la conoscenza analogica gli addita attraverso l’obliquo cammino delle “correspondances.. […]

Ciò che il Narratore si propone di rivelare agli uomini alla fine del “Temps retrouvé”, è proprio questa rete di luminosi nessi necessari dissimulata nella materia morta dell’abitudine, dall’opacità della ragione strumentale, dalla nebbia delle passioni in cui siamo soliti vivere. È a questa rivelazione che cospireranno, nell’ultima versione del “Temps retrouvé”, il sapere decifratorio e l’illuminazione analogica, complementari nel discorso teorico non meno che nel tessuto inconfondibile della scrittura proustiana. […]

Ma questa radicale riduzione del soggetto ad un agglomerato di sintomi, che lo annulla in quanto rifugio dell’interiorità narcisistica, è l’inizio di una sua nuova esistenza, schiusa alle voci delle cose, del passato, delle creature amate e perdute minacciate dall’oblio. Superate, nella dolorosa prova iniziatica del deciframento di se stesso, con il “coraggio dell’impossibile”, le pulsioni autoconservative, il soggetto si ricostituisce, grazie all’illuminazione analogica, non come principio attivo e volontario, desideroso di “creare”  la materia della sua opera e di ordinarla gerarchicamente, ma come “une mémoire sans personne”, pronta ad accogliere i frammenti del passato e le figure del presente nell’unità non costrittiva cui tendono,nostalgicamente, le loro stesse affinità elettive. È in questa unità non costrittiva, interiormente strutturata dal rapporto analogico, che la metafora, trasponendo nella scrittura l’amoroso lavoro archeologico della memoria involontaria, addita al reale frammento la raffigurazione, prossima e irraggiungibile, della salvezza.»

 

Appunto, “prossima e irraggiungibile”: che bel gioco di parole; come dire: una perenne illusione ottica, una promessa mai adempiuta perché inadempibile; ci sarà una ragione in questa eterna impossibilità, in questo vano protendersi verso qualcosa che pare sempre a portata di mano e che sempre, poi, come avviene nel supplizio di Tantalo, si ritrae quando lo stanco viaggiatore si protende per afferrarlo.

In fondo, il problema di Proust è lo stesso di Nietzsche, il Nietzsche dello «Zarathustra» e del mito dell’eterno ritorno: la redenzione dal passato; ma una redenzione tutta interna al soggetto, tutta laica e immanente e, perciò, interamente risolvibile negli elementi stessi del tempo umano, senza aperture al trascendente, senza “concessioni” a niente che non sia totalmente, integralmente umano (cfr. il nostro precedente saggio: «La redenzione del passato, culmine dell’”eterno ritorno” di Nietzsche», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 14/07/2007).

E non è un caso, secondo noi, che entrambi i ciclopici sforzi di auto-redenzione del tempo, quello di Nietzsche e quello di Proust, siano naufragati irrimediabilmente e che Proust, in particolare, ci abbia lasciato la promessa, nell’ultimo capitolo del suo capolavoro, di un’opera ulteriore che non è mai apparsa, a differenza - e qui il confronto diventa particolarmente significativo - del Dante della “Vita Nuova”, che mantiene la promessa di un’opera ulteriore e definitiva, pienamente redentrice, scrivendo la «Commedia»: perché una tale auto-redenzione è intrinsecamente impossibile, è una impossibilità logica, oltre che psicologica e spirituale.

Bisognerebbe prenderne atto e riconoscerne il perché, invece di compiacersi a descriverla come vicinissima ma inafferrabile, come fanno taluni critici letterari nei quali la finezza dell’analisi non si accompagna con la capacità di vedere le cose nella loro totalità, per cui si perdono nei particolari, magari studiati e compresi benissimo, mentre sfugge loro il senso complessivo dell’opera presa in esame: come un viaggiatore che, nel bel mezzo di un bosco, non si accorga proprio dell’albero che ha di fronte a sé, tutto preso dalla sovrabbondanza di vegetazione ovunque diffusa.

Vogliamo provare noi, allora, ad avanzare una ipotesi interpretativa circa l’impossibilità della auto-redenzione dal passato tentata da Proust con la sua immensa opera letteraria; a capire perché la prospettiva di salvezza, tenacemente perseguita dall’autore, non giunga realmente a dischiudersi, lasciando Marcel inesorabilmente preso nel meccanismo del tempo che passa e che divora ogni cosa, ed elargendogli tutt’al più qualche rara e casuale illuminazione delle cose che furono, delle persone amate, dei luoghi dell’infanzia, mediante l’esile e fuggevole ponte gettato dalla memoria per mezzo dei sapori, degli odori e degli altri stimoli sensoriali.

Quella del «Tempo ritrovato», infatti, a dispetto dell’ottimismo del titolo, non è una vera redenzione e non è neppure un vero ritrovamento; è solo una fugace illusione e, per dir le cose con il loro nome, una sorta di amara ed ironica beffa: il passato, infatti, va e viene a capriccio del caso, giunge quando meno ce lo aspettiamo e si sottrae quando vorremmo trattenerlo; né la scrittura, la parola scritta, è in grado di restituircelo realmente, ma solo di alludere a cose, persone e situazioni che sono svanite, che più non ci appartengono e che niente e nessuno potrà mai restituirci, se non nel mondo virtuale della rievocazione letteraria.

«Quel caro corpo che più non esiste», dice Zeno Cosini, parente spirituale di Marcel, anzi, suo fratello siamese, ne «La coscienza di Zeno», parlando di sua madre (precisamente, nel capitolo dedicato a «Il fumo)»: per Svevo, come per Proust, la morte è la fine di tutto e il tempo edace divora le cose, inarrestabilmente, ineluttabilmente; né la pagina scritta può fare altro che ridestare fuggevolmente una acuta nostalgia per quanti ci hanno lasciati, così come potrebbe fare una vecchia fotografia ingiallita dal tempo e ritrovata, chi sa come, in una scatola di latta conservata in qualche armadio dimenticato.

Ebbene, noi pensiamo che la redenzione “laica” cercata da Proust – così come dagli altri scrittori della crisi: James Joyce, Thomas Mann, Franz Kafka, Robert Musil, Italo Svevo, Luigi Pirandello, per non citare che i più noti – sia impossibile, perché essa si è fermata alla “pars destruens”, ossia alla demolizione di quell’Io auto-conservativo di cui parla Mariolina Bongiovanni Bertini, che pure si è accorta di uno dei limiti più grossi di tale operazione: la mancanza di amore, di compassione, di autentico rispetto per gli altri, da parte di un Io narrante immensamente egoico, indifferente a tutto e a tutti, tranne che al proprio capriccio momentaneo.

Perché non basta demolire le astuzie e le difese del’Io, non basta – freudianamente – mostrare ciò che si nasconde dietro le costruzioni artificiali del Super-Io; tutto questo non ci avvicinerà di un passo alla verità, se l’Io continua ad alimentarsi di se stesso, rinnovando i propri inganni nel momento in cui moltiplica i colpi per smascherarli. L’Io finito, l’Io che vuole, che brama, che teme e che spera, darà sempre e ancora Io: nessun gioco di parole, nessuno scavo psicologico ci porterà mai fuori o al di là di esso. Solo un tu lo potrebbe, e non un tu qualunque, ma con la “t” maiuscola...