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Che rapporto esiste fra misticismo e sensualità?

di Francesco Lamendola - 03/02/2013


 


Tutti, probabilmente, hanno presenti un paio di famose sculture di Gian Lorenzo Bernini, o per averle ammirate dal vero, a Roma, o per averle viste riprodotte su qualche testo di storia dell’arte: l’«Estasi di Santa Teresa d’Avila», custodita nella cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria, realizzata nel 1647-52; e l’«Estasi della Beata Ludovica Albertoni», nella Chiesa di San Francesco a Ripa, del 1674.

E tutti, probabilmente, o quasi tutti, sono rimasti ammirati davanti alla straordinaria bravura dello scultore barocco, alla sua capacità di esprimere l’intensità del sentimento e a quella, non meno stupefacente, di animare perfino le vesti, le pieghe, il panneggio, come se fossero di seta, anzi, come se fossero cose vive e pulsanti; ma anche, crediamo, un tantino perplessi, un tantino sconcertati davanti a ciò che quei volti femminili mostrano: un rapimento estatico che sembra confinare con l’estasi sessuale o, quanto meno, vi assomiglia parecchio.

Prendiamo in esame particolarmente la prima delle due opere citate. Per essere precisi, si tratta di una “transverberazione”, dal latino “transverberare”, ossia “trafiggere, trapassare da parte a parte”: si tratta dell’esperienza descritta da alcuni mistici, come Teresa d’Avila, o come San Pio da Pietrelcina, che sarebbero stati trafitti dalla potenza di Dio o da una creatura angelica. Santa Teresa ha così descritto tale esperienza: «Un giorno mi apparve un angelo bello oltre ogni misura. Vidi nella sua mano una lunga lancia alla cui estremità sembrava esserci una punta di fuoco. Questa parve colpirmi più volte nel cuore, tanto da penetrare dentro di me. Il dolore era così reale che gemetti più volte ad alta voce, però era tanto dolce che non potevo desiderare di esserne liberata. Nessuna gioia terrena può dare un simile appagamento. Quando l’angelo estrasse la sua lancia, rimasi con un grande amore per Dio» (XXIX, 31 della autobiografia della santa).

Una tipica interpretazione  di questo capolavoro dello scultore napoletano, in chiave di polemica anticattolica, è quella dello storico dell’arte Valentino Martinelli, condita con una buona dose di psicologismo e addirittura di sociologismo a buon mercato (V. Martinelli, «Bernini», Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1953, 1979, pp. 94-98):

 

«A questa immagine profana [cioè quella della “Verità scoperta dal Tempo”, di cui ha realizzato solo la “Verità”, presso la galleria Borghese di Roma] succede immediatamente l’effigie mistica di S. Teresa. Ancora una volta, come negli anni di gioventù, Bernini infonde in un contenuto sacro la sua naturale sensualità. È il risultato di una tipica ambiguità che è la doppiezza dell’uomo secentesco, in particolare dell’italiano medio, educato al gesuitismo “eunuco e ipocrita”; ma, nell’intimo, acceso più da passioni terrene che da fervori mistici. In questo capolavoro di “S. Teresa e l’angelo” a S. Maria della Vittoria, l’stasi d’amore della fidanzata di Cristo si esprime, più che nei sudori del volto o nel tremore della mano o del piede, nella cascata sonora della tonaca corrusca; così come il fuoco, trasmesso dall’angelo con dolce puntura e un malizioso sorriso correggesco, è figurato nel viluppo lustro e tortuoso della sua tonaca. Bernini non scolpisce più corpi ma panneggi; pur essi astratti e fusi con forme umane in una unità nuova che è il punto d’arrivo di una serie di opere sue, in cui la scultura tende sempre più al colorismo e alla dimensione della pittura…»

 

Sorge spontanea la domanda – e non solo guardando le opere del Bernini, ovviamente -: che rapporto intercorre fra il misticismo e la sensualità, posto che un rapporto vi sia?  È una domanda che può sembrare scomoda, imbarazzante, specialmente se ci si immagina di poter tracciare una linea netta e invalicabile fra le due cose; e, più in generale, se si pensa, più o meno consapevolmente, che la vita sia dipinta tutta in bianco e nero, senza sfumature, senza alcun margine di ambiguità.

Partiamo dal secondo punto: quel rapporto esiste; esiste certamente. Negarlo sarebbe sciocco, perché andrebbe contro l’evidenza. Non bisogna nemmeno esagerarlo o esasperarlo, però; e il fatto che alcuni artisti e letterati – Bernini, appunto, ma anche un Barbey d’Aurevilly o un Léon Bloy – abbiano giocato su di esso la nota dominante, o una delle note dominanti, del loro linguaggio espressivo, non significa che esso sia sempre e comunque preponderante.

Diciamo meglio: non vuol dire che la sensualità sgorghi sempre dal misticismo, che ne sia l’esito inevitabile o che lo accompagni necessariamente, come un’ancella che segue anche troppo fedelmente i passi del suo padrone e che non se ne voglia andare a nessun patto, quand’anche venisse scacciata. San Francesco, per esempio, nel «Cantico delle creature», lascia intravedere una robusta vena di sensualità: si pensi solo a come descrive l’acqua, quasi fosse una fanciulla bellissima e ritrosa: «la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta». Eppure tale sensualità viene sublimata e trasfigurata nell’atto stesso che si lascia intravedere, e l’impressione dominante che rimane nel lettore non è data da essa, ma dall’empito mistico che spinge l‘autore a chiamare una presenza naturale come l’acqua con il dolce nome di “sorella”.

Esistono, dunque, diverse maniere di gestire la propria sensualità, tanto per un artista che per un comune essere umano: i due estremi sono quello di abbandonarsi pienamente ad essa, in una immersione corporale totale, senza residui, senza altro sbocco che la ricerca del piacere fisico, e quello di incanalarla, indirizzarla, sublimarla, trasformandola in un potente fattore creativo, che consente all’anima di volare in alto, proprio prendendo lo slancio dalla terra; e, fra di essi, un’ampia gamma di possibilità intermedie.

Per il mistico, o per l’artista che voglia ricreare una situazione capace di alludere efficacemente all’esperienza mistica, vale lo stesso discorso. Sensualità è la gioia dei sensi, l’ebbrezza della dimensione fisica, del corpo, del trasporto verso la pienezza della dimensione terrena; misticismo è lo slancio dell’anima fuori dalla sfera materiale, oltre la dimensione corporea, non perché questa sia considerata “male” (o, almeno, non necessariamente per questo), ma perché essa, se in un primo tempo può fungere, come pensava anche Platone, da trampolino verso il divino, di solito finisce per impastoiare l’anima stessa all’interno del circolo chiuso della carnalità, esaurendosi in essa e precludendo l’accesso alla dimensione trascendente, che è la meta del mistico. Ne consegue che il mistico, che può o non può avere una natura sensuale - non tutti gli esseri umani ce l’hanno, anche se è vero che molti ignorano di averla, il che è diverso -, sarà in grado di porsi in maniera consapevole di fronte alla propria dimensione, a seconda che abbia o non abbia raggiunto un soddisfacente equilibrio con il proprio corpo.

Per esempio, è noto che certi strumenti di penitenza, usati nei secoli passati, come il cilicio, potevano servire anche ad una esaltazione delle sensazioni corporee, pur essendo, in teoria, destinati a “castigare” la carne; e quando ciò accadeva – perché non è detto che tale fosse la regola, tutto al contrario -, evidentemente la natura si prendeva una sottile rivincita su quei bisogni e su quegli impulsi che la parte razionale dell’io negava e tentava di reprimere, giudicandoli “sporchi” e  indegni rispetto alla propria coscienza morale.

Il mistico è un essere umano, che sostiene egli pure le battaglie destinate a essere combattute da ogni altro essere umano; non è un superuomo, non è un asso pigliatutto, non è neanche, necessariamente, un santo: il mistico è colui che sente con forza lo slancio dell’anima verso l’alto, verso la sfera del sacro e del divino, verso la patria ultraterrena; ma non è detto che sia uno spregiatore del corpo, non è detto che sia un calunniatore della vita – come direbbe il buon vecchio Nietzsche -, né che sia un omosessuale represso, un isterico conclamato o potenziale, come vorrebbe la psicanalisi freudiana; né, tanto meno, un ipocrita che vorrebbe nascondere a tutti il segreto delle sue brame inconfessabili e che sceglie, per distrarre da sé ogni possibile sospetto, la strada durissima della mortificazione, della rinuncia e dell’ascesi.

Vi sono mistici gioiosi e vi sono mistici cupi; ve ne sono di ottimisti e di pessimisti; ve ne sono di sensuali e di freddi; ma è più probabile che siamo tendenzialmente sensuali, perché le persone sensuali possiedono un temperamento “caldo”, generoso, appassionato, mentre quelle fredde sono, sovente (anche se non sempre) circospette, calcolatrici, diffidenti, e dunque meno portate al misticismo, perché il misticismo è dono totale, azzardo, follia: e molti mistici, di fatto, sono stati considerati dai loro contemporanei come “i folli di Dio”; così come folle dovette sembrare, al suo popolo, il re Davide, allorché, incontenibilmente ebbro do Lui, si mise a ballare e cantare come un pazzo, suscitando, probabilmente, imbarazzo e critiche.

Ma il misticismo ha “bisogno” della sensualità? Questa é la sua compagna inseparabile, sì da rendere ambigue, inevitabilmente, tutte le manifestazioni di quello? In ogni mistico che va in estasi bisogna sospettare un orgasmo sessuale?

Senza scomodare le dottrine del Tantra Yoga, le quali, come è abbastanza noto, teorizzano il coito senza emissione di sperma, proprio allo scopo non già di inibire l’orgasmo, ma di moltiplicarlo e amplificarlo in una misura che, altrimenti, sarebbe impensabile, resta la constatazione, di per sé basata su quel che è dato vedere alla luce della normale capacità di osservazione, e giudicare sulla base del semplice buon senso, che, se pure esiste una somiglianza ESTERIORE fra l’estasi mistica e quella sessuale, le due cose non necessariamente coincidono; anzi, per meglio dire non coincidono affatto: e ciò non perché la seconda sia di natura “inferiore” o, addirittura, perché sia una cosa “sporca” in confronto alla prima, ma semplicemente perché, appunto, sono due cose diverse, che si assomigliano, o possono assomigliarsi, se viste dal di fuori, ma che, in realtà, non si identificano affatto l’una con l’altra.

Del resto, nemmeno la sensualità coincide con la sessualità: sono due cose diverse, anche se fra esse vi è chiaramente una relazione: non vi è autentica sessualità senza la dimensione della sensualità; ma neppure si dà autentica ed umana sessualità se vi è solo ed esclusivamente la dimensione della sensualità; dall’altra parte, può esservi sessualità senza sensualità, ma, appunto, come forma incompleta e non pienamente umana di espressione della sessualità. Si faccia attenzione, inoltre, che sessualità non è sinonimo di rapporto sessuale: quest’ultimo è la manifestazione più tipica della sessualità, ma quella non si esaurisce solamente in esso. Al limite, può esservi sensualità senza sessualità e, sicuramente, sensualità senza rapporto sessuale: ne «La donna e il burattino», Pierre Loüys descrive una donna che, per puro divertimento sadico (un po’ come, se si vuole, la bella e crudele Petra delle dantesche «Rime petrose»), eccita sin quasi alla follia il suo innamorato, senza mai concedersi a lui; e quando, alla fine, finge di acconsentire, si fa trovare talmente “corazzata” nelle parti intime, che quello, spossato e umiliato, scoppia in un pianto di rabbia, rendendosi conto di essere stato crudelmente giocato.

Il fatto è che la cultura contemporaneo, permeata di erotismo deteriore e di vera e propria pornografia, sembra aver dimenticato che cosa sia l’autentica sensualità; e, a maggior ragione, quale possa e debba essere il giusto rapporto fra la sensualità e l’amore per la vita, l’amore per gli enti, l’amore per la bellezza. Tutta presa nella spirale distruttiva della esasperazione dei bassi appetiti sessuali, degrada il normale impulso verso ciò che è bello e vitale, lo relega alla sola dimensione corporea, lo isola dal contesto, lo assolutizza, lo rende ossessivo; e, così facendo, ne smarrisce l’intimo significato e il profondo valore, depauperando la vita dell’anima di una dimensione fondamentale: perché l’amore per la Bellezza passa attraverso l’attrazione per le cose belle, quando non scade a pura e semplice concupiscenza.

La concupiscenza è l’avidità animalesca che profana il grande mistero della bellezza; e colui che vi indulge si abbassa al di sotto della dimensione umana, si disumanizza, diventa schiavo di pulsioni che lo tirano sempre più giù, che lo separano dal grande flusso della vita e che lo condannano all’isolamento e alla solitudine.

Il mistico, solitamente, è un uomo (o una donna) sensibile alla bellezza, proprio perché dalla bellezza degli enti si può schiudere la porta sul mistero dello splendore dell’Essere, che è la Bellezza in se stessa, senza determinazioni e senza attribuiti: la Bellezza Assoluta.

«Perché la bellezza delle donne non dovrebbe lodare il Signore? Perché una caviglia ben fatta non potrebbe cantarne le lodi?», si chiede, in tutta serietà, il candido Abbé Gaston, il protagonista del romanzo di Bruce Marshall «A ogni uomo un soldo».

Già, infatti: perché no? E perché gli esseri umani non potrebbe arrivare all’estasi mistica anche per mezzo di una robusta vena di sensualità, adeguatamente guidata, accompagnata e divenuta matura?