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Nel segreto piacere d’essere morsi e maltrattati la dimensione ambigua, ma profonda dell’amore

di Francesco Lamendola - 10/03/2013

 


 

C’è un elemento non detto e indicibile nella relazione sessuale fra uomo e donna: la segreta attrazione di lei ad essere presa con la violenza, o, per dir meglio, con un certo grado di violenza, più apparente che reale, quanto basta per farla sentire “importante”, come lo è qualcuno che viene desiderato con un tale grado di intensità, da infrangere le barriere normalmente accettate dell’etica e del vivere sociale.

Indicibile e delicatissimo: perché labile e quasi evanescente è il confine che separa dalla violenza vera e propria tale propensione della donna a soggiacere a un atto di forza da parte dell’uomo e quella dell’uomo a conquistare in tal modo la propria compagna; il confine tra masochismo e sadismo, insomma, è vago, incerto, quasi inesistente: quasi, però: perché un confine, comunque, esiste, anche se i suoi limiti sono erratici, continuamente mutevoli.

In altre parole: molte donne, certo non tutte, gradiscono una certa dose di aggressività maschile nella sfera sessuale, a patto che sia sostanzialmente innocua e che serva più ad esprimere la forza del desiderio dell’uomo, e quindi, indirettamente, il potere di attrazione di lei, che non un arbitrio, una prevaricazione e, insomma, una violenza vera e propria.

Molti uomini, da parte loro, gradiscono giocare a questo gioco: si sentono esaltati al pensiero della fragilità e della debolezza della donna, del potere fisico, e non soltanto fisico, che essi sono in grado di esercitare su di lei; e godono intensamente sia nel vedere la sua sottomissione, il suo abbandono, la sua resa nelle loro mani, sia come quella resa riesca gradita anche a lei.

Qui appunto sta l’aspetto di maggiore ambiguità: che in un uomo normale, qualunque cosa significhi “normale”, il piacere sessuale non può essere disgiunto dal piacere della donna, e viceversa, in nessuna donna normale può essere separato da quello del suo compagno; e ciò anche quando vi sia una certa dose di aggressività, perfino di violenza, sia pure ritualizzata e resa sostanzialmente inoffensiva.

L’istinto di mordere, di maltrattare, di strangolare il partner – più accentuato nella psicologia maschile, ma non assente neanche in quella femminile – unito, per converso, al piacere di subire tali atti, beninteso se visti come espressione di una prepotente passione e, quindi, come altrettanti segni d’”amore”, osservato anche in alcune specie animali, sembra effettivamente far pare di una dialettica sessuale che si può considerare, entro certi limiti, come normale, nel senso che è propria di molte persone e che solo in apparenza configge con le norme sociali riconosciute.

Di più: nel morso, nell’istinto di mordere la persona amata, si può facilmente riconoscere una tensione autentica, anche se primordiale, dell’aspirazione alla totalità originaria, alla fusione con l’altro, al ricongiungimento con la propria “metà perduta”; mentre l’istinto di strangolarla esprime la brama del possesso totale e incondizionato e risponde al segreto richiamo di amore e morte: una modalità inferiore di un anelito che, di per sé, è nobile e bellissimo: l’anelito alla fusione assoluta, al dissolvimento reciproco di due anime che si sciolgono l’una nell’altra, senza residui e senza rimpianti.

Peraltro, basta uno sguardo anche distratto alla nostra società per rendersi conto che solamente la più grossolana ipocrisia potrebbe negare che l’elemento sadico e quello masochista non solo siano ben radicati in essa, ma che essa ne sia perfettamente consapevole; così consapevole da averli fatti oggetto di aperta ed insistita speculazione commerciale, come si vede nel cinema, nella letteratura, nell’arte, per non parlare dei fumetti, della danza, dello spettacolo.

Si potrebbe discutere, tutt’al più, su quanto la società consumista, che strumentalizza ogni cosa a fini commerciali e che segna il prevalere dell’avere sull’essere, abbia accentuato ed esasperato tali elementi; non sul fatto che essi trovino pieno diritto di cittadinanza nella psicologia di persone assolutamente normali, adoperando quest’ultimo aggettivo come l’equivalente di ciò che non è morboso, non è estremo, non è patologico.

La cultura femminista, da parte sua, ha sempre negato con sdegno la presenza di un elemento tipicamente masochista nella psiche femminile, tutt’al più riconoscendo che esso esiste, ma solo come risultato di una pressione culturale da parte del maschio; laddove è abbastanza chiaro, se si vogliono osservare le cose con imparzialità, che tale pressione può forse avere accentuato, ma non creato di bel nuovo qualche cosa che non esisteva prima, qualche cosa che sarebbe del tutto estraneo e lontanissimo dal comune sentire dell’animo femminile.

La donna, cioè, può aver appreso ad assumere e accentuare quei comportamenti che l’esperienza le ha mostrato essere particolarmente graditi all’uomo: ma per perfezionare la reciproca intesa sessuale e per servirsi, a proprio vantaggio, di una disposizione della psiche maschile, non certo per sottomettersi a qualche cosa di intimamente sgradito, a qualche cosa che le ripugna nel profondo del suo essere.

Molto chiare e sostanzialmente condivisibili, a nostro parere, sono le osservazioni sviluppate in proposito dal noto sessuologo inglese Havelock Ellis (1859-1939) nel suo studio «L’impulso sessuale nella donna» (volume terzo della «Psicologia del sesso»; traduzione dal’inglese di Andreina Conti, Roma, Newton Compton Editori, 1970, pp. 125 sgg.):

 

«Dobbiamo anche ricordare che le manifestazioni normali del piacere in una donna somigliano eccessivamente a quelle del dolore. Questo fatto è importante da molti punti di vista. “Le espressioni esteriori del dolore, scrive molto giustamente una signora, le lacrime, le grida ecc. sulle quali  ci si basa per provare la crudeltà della persona che le provoca,  non differiscono molto dalle espressioni di una donna nell’estasi della passione, allorché implora l’uomo di smetterla, mentre in realtà è l’ultima cosa che vorrebbe”. Se un uomo è convinto di causare un dolore reale e completo si pente immediatamente.  Se questo non avviene, deve essere considerato come una persona del tutto anormale, oppure bisogna pensare che sia trascinato dalla passione a un grado di follia temporanea. L’intima connessione tra l’amore e il dolore, la tendenza dell’amore ad avvicinarsi alla crudeltà, si possono osservare in una delle manifestazioni più diffuse, occasionali e non essenziali, di forte emozione sessuale, soprattutto nelle donne, cioè nella tendenza a mordere. […] In alcuni casi morbosi i morsi possono anche sostituire il coito. Moll (“Die Konträre Sexualempfindung”, 2a ediz., p. 323) cita il caso di una donna isterica che era anche sessualmente frigida, benché amasse molto suo marito. Il suo maggior piacere consisteva  nel morderlo a sangue, ed era contenta se egli acconsentiva a morderla invece del coito, benché si dispiacesse quando le faceva troppo male. In altri casi ancora più morbosi, la paura di causare dolore scompare ancor di più. […]

Mentre negli uomini è possibile delineare una tendenza ad infliggere il dolore, o una simulazione del dolore alle donne che amano,è ancora più facile nelle donne scoprire il piacere di provare il dolore fisico causato da un amante e la sollecitudine ad accettare la sottomissione alla sua volontà.

Una simile tendenza è certamente normale. Abbandonarsi al proprio amante, potersi affidare alla sua forza fisica e alle sue risorse mentali, essere trascinata al di fuori di se stessa e al di là del controllo della propria volontà, fluttuare pigramente nella sottomissione deliziosa ad un’altra volontà più forte. Tutto ciò costituisce una delle aspirazioni più comuni negli intimi sogni d’amore d’una donna giovane. Ai giorni nostri queste aspirazioni il più delle volte non trovano espressione che in quei sogni. In una epoca in cui la vita era meno falsa e in cui le emozioni venivano espresse  più apertamente, era più facile scoprire questo impulso. […] Nel XIII secolo, Maria di Francia descrive come un cavaliere perfetto, saggio e cortese, rapì una donna che non ne voleva sapere di lui, e che, così facendo, ottenne tutto il suo amore.  Maria di Francia era una poetessa francese che viveva in Inghilterra e che aveva, si dice, “un gusto squisito pere generosità e per le delicatezze del cuore”; le sue opere erano molto apprezzate  dalle persone più colte del suo tempo. […] Una donna davanti al quadro di Rubens “Il ratto delle Sabine”, osservò: “Penso che le Sabine fossero felici d’essere rapite in quel modo”, e riconobbe che un modo simile di fare la corte faceva colpo su di lei. È probabile che la maggioranza delle donne condivida quest’osservazione. Si può obiettare che il dolore non può procurare il piacere, e che se si sente come piacere ciò che in condizioni normali si chiama dolore, non lo si può considerare dolore. Bisogna ammettere che questo stato emozionale  è spesso complicato. Inoltre le donne  non sono sempre d’accordo tra di loro quando ricordano le loro esperienze. Però si può notare che anche se il carattere gradevole del dolore nell’amore è negato, è pur sempre vero che, in determinate circostanze, il dolore o l’idea del dolore è ritenuta gradevole.  […] Camille Bos, in un saggio suggestivo (“Du plaisir de la douleur”, “Revue Philosophique” luglio 1902) cerca la spiegazione del mistero nella complessità dei fenomeni di cui ho già parlato. Il dolore ed il piacere sono ugualmente delle sensazioni complesse, il risultati di molti fattori, e noi diamo un nome a questo risultato a seconda della natura del fattore più forte… “Così attribuiamo ad un complesso un nome che non appartiene rigorosamente che ad uno dei fattori, e nel dolore on tutto è doloroso”. Allorché il dolore diviene un fine ricercato, Bos considera il desiderio come proveniente da tre cause: 1° il dolore vi offre un contrasto e vivifica un piacere che l’abitudine minaccia di offuscare; 2° il dolore che precede il piacere accentua il carattere positivo di quest’ultimo; 3° il dolore aumenta momentaneamente il livello diminuito della sensibilità e restituisce all’organismo per un breve periodo la facilità di godimento che aveva perso.

Dunque bisogna dire che il dolore è gradevole solo in quanto è riconosciuto preludio al piacere, oppure in quanto agisce come un vero stimolante sui nervi che trasmettendo la sensazione del piacere. […] Nessuno desidera avere un dolore morale, né prova alcun piacere all’idea di patirne. È la presenza di questa tendenza essenziale che porta ad una certa contraddizione apparente nelle emozioni della donna. Da una parte, radicate nell’istinto materno, troviamo la pietà,  la tenerezza, la compassione; dall’altra pare, radicato nell’istinto sessuale,  troviamo un piacere nella sgarbatezza, nella violenza, nel dolore e nel pericolo, a volte verso se stessi, a volte anche verso gli altri. Il primo impulso la spinge verso qualcosa d’innocente e di debole, per amarlo e proteggerlo; l’altro impulso si compiace allo spettacolo della trascuratezza,  dell’audacia, a volte anche  della sfrontatezza. Una donna non è perfettamente felice con il suo amante se egli non può procurare qualche soddisfazione ad ognuno di questi due desideri contraddittori. […] Una donna può desiderare d’esser forzata, d’essere forzata duramente, d’essere indotta contro la propria volontà. Però non desidera essere forzata che per le cose che le sono essenzialmente e profondamente piacevoli. Un uomo che non capisca ciò ha appreso molto poco dell’arte di amare. […] Il fatto particolare di cui ci siamo occupati è vitale e radicale, e la sua influenza è estremamente sottile. Sarebbe da pazzi ignorarla; dobbiamo riconoscerne l’esistenza. Non possiamo acquisire una sana visione della vota, né  elaborare una sana legislazione della vita, senza possedere una conoscenza giusta ed esatta degli istinti fondamentali sui quali la vita si basa.»

 

“Penso che le Sabine fossero felici d’essere state rapite a quel mondo”: ecco l’osservazione intelligente ed onesta di una donna di spirito, capace di valutare con equanimità l’elemento masochista presente nella psiche femminile e di riconoscerlo non già come un elemento puramente degenerativo – quale potrebbe esserlo se la donna si esponesse realmente al maltrattamento, alla sofferenza e all’umiliazione fine a se stessi – ma, al contrario, come un elemento di intima e normale gratificazione,  in quanto percepito come espressione di un intenso desiderio maschile e, quindi, di un forte potere di seduzione da parte della donna medesima.

Perché la donna, in ultima analisi, nella schermaglia sessuale, è il potere che cerca: vale a dire una posizione di vantaggio rispetto all’uomo; e se, per giungervi, è necessario che si sottometta, in apparenza, a un ruolo non solo subordinato, ma anche mortificato e mortificante, ella, assai più coerente e razionale di quanto lo sia uomo, almeno in quest’ambito specifico, non esita a imboccare tale strada, tendendo istintivamente alla realizzazione del fine, ossia il controllo del maschio, e non curandosi troppo se i mezzi per raggiungerlo sono, in un certo senso, eterodossi.

La moda e la pubblicità evidenziano questo potere di attrazione che la donna può esercitare sull’uomo, proprio là dove, in apparenza, si arrende e si consegna inerme allo strapotere maschile; la sua rivincita, e la sua vera vittoria, consistono appunto nel raggiungere il massimo del potere sostanziale attraverso il massimo della sconfitta apparente: perché l’uomo, che si sente vincitore, in realtà si trova a dipendere sempre più da colei che gli si arrende e gli si concede.

Del resto, è una osservazione vecchia e perfino banale quella che vede il sadismo e il masochismo come due elementi perfettamente complementari e reciprocamente funzionali: l’uno non potrebbe sussistere senza l’altro; intendendo, comunque, il sadismo e il masochismo non già nelle forme estreme e patologiche, cariche di reale violenza e, dunque, moralmente riprovevoli e odiose, ma in quelle latenti e che si manifestano in forme socialmente accettabili, appartenenti alla psiche di ogni essere umano.

Il confine tra le due cose, ripetiamo, è sottile e non sempre chiaramente riconoscibile: la letteratura e il cinema “gialli”, per esempio, fanno abbondantemente ricorso ad un tale repertorio, fin dalla copertina dei libri o dalle locandine dei film, per non parlare dei titoli stessi; si può anzi dire che l’innocuo lettore di un romanzo di Agatha Christie o il comune spettatore di un film poliziesco trovano uno sfogo culturalmente accettabile ai propri istinti sadici o masochisti, trasferendoli nelle pagine del libro o nelle immagini della pellicola e trovandovi una espressione inconscia, che forse non verrà neppure riconosciuta nella sua reale natura.

Nella scena in cui, ad esempio, una bella donna seminuda viene strangolata da un assassino, o viene legata e torturata da un maniaco sessuale, sia il pubblico maschile che quello femminile possono trovare una valvola di sfogo al loro istinto di infliggere e ricevere violenza, operando un transfert nei personaggi nel romanzo o del film; e, inoltre, senza rendersi conto, o rendendosi conto solo in misura parziale, delle implicazioni che ha la loro attrazione verso un tal genere di letteratura o di spettacolo cinematografico.

Queste considerazioni valgono nell’ambito specificamente sessuale, ma anche, più in generale, per tutto ciò che attiene alla sfera dell’aggressività – la quale, per dirla con Konrad Lorenz, non è un male in se stessa, ma può diventarlo qualora non trovi la maniera di esprimersi in forme socialmente accettabili; e si pensi, allora, a un fumetto di Tarzan, in cui l’eroe della giungla vince un drammatico duello, uccidendo l’avversario con il suo affilato coltello, o a un film western in cui dei feroci banditi messicani compiono un autentico massacro ai danni degli abitanti di un inerme villaggio, assassinando gli uomini e violentando le donne. Il pubblico, in tali casi, non legge il fumetto, né va ad assistere alla proiezione del film, per godere degli aspetti sadici impliciti in tali scene; ma certo non è insensibile ad essi e vi cerca, di solito inconsciamente, uno sfogo “pacifico” ai propri impulsi più segreti e inconfessabili.

Quegli impulsi, tuttavia, esistono: la persona inconsapevole li esorcizza, in maniera grossolana e temporanea, per mezzo di estemporanei transfert psicologici, anche nelle forme culturali che abbiamo descritto; quella consapevole, li guarda bene in faccia e li trascende per mezzo della propria capacità di trasformazione e di sublimazione, dirigendo, nel contempo, le proprie energie spirituali non verso il basso, ma verso l’alto, che è la maniera migliore per non diventare schiavi di una eccessiva indulgenza verso gli appetiti dell’io inferiore – cosa sempre possibile  nel contesto di una cultura che assolutizza il corpo e tende a negare radicalmente la dimensione spirituale.

La vita interiore degli esseri umani si regge su una sottile e delicata trama di spinte e controspinte, di equilibri più o meno temporanei, di compromessi più o meno stabili, più o meno efficaci, fra pulsioni e bisogni talora contrastanti; non assomiglia in alcun modo a un rigido monolite, ma piuttosto a un caleidoscopio, a una gemma dalle innumerevoli sfaccettature.

Il punto, perciò, non è di sapere se in essa vi siano, o no, delle contraddizioni, ma se queste ultime possano trovare una ragione nella struttura complessiva dell’edificio, nell’architettura globale su cui si regge e in cui si esprime la personalità, questa sì coerente rispetto a se stessa ed al reale e, pertanto, custode di tutti i suoi bisogni vitali, ma anche portatrice di una sete ardente e di una struggente nostalgia - pur se talvolta inconsapevole - di Bellezza, di Bontà e di Verità: cioè di una sete e di una nostalgia autentiche di Assoluto.