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In morte di Margaret Thatcher

di Andrea Virga - 10/04/2013

Fonte: millennivm



 


L’8 aprile è morta per un ictus, all’età di 88 anni, Margaret Thatcher, la Lady di Ferro, che capeggiò il Partito Conservatore britannico, e fu la prima donna a diventare Primo Ministro del Regno Unito (dal 1979 al 1990). La sua fama è legata alle sue politiche neoliberiste, che la resero un’icona della destra liberale e una storica protagonista dell’ondata reazionaria e liberalcapitalista che dagli anni ’70 in poi portarono le forze atlantiste alla vittoria nella Guerra Fredda e all’instaurazione di un’egemonia unipolare.

Nata in una famiglia borghese metodista (Roberts), si convertì all’anglicanesimo quando sposò l’imprenditore divorziato Denis Thatcher. Donna energica e di carattere, iniziò una carriera politica nel Partito Conservatore, entrando in Parlamento nel 1959. Si distinse subito per le sue posizioni rigide per certi versi (sostegno alla pena di morte), “progressiste” per altri (votò a favore dell’aborto e della depenalizzazione dell’omosessualità), ma comunque nettamente liberiste in campo economico – ad esempio, accusò, con scarso senso della realtà, il governo laburista di portare il Paese verso il comunismo. Coerentemente a queste idee, come Sottosegretario all’Educazione (1970 – 1974), tagliò i fondi alle scuole, incluso il programma che forniva gratuitamente latte ai bambini, e promosse l’assorbimento delle grammar schools(l’equivalente del nostro liceo classico) da parte di scuole superiori generaliste (comprehensive schools). Ottenuta la leadership del Conservative Party, accentuò queste posizioni, conducendo, da leader dell’opposizione, una vera e propria battaglia ideologica contro il welfare state e la spesa pubblica.

La crisi economica fece sì che il suo partito vincesse le elezioni ed ella diventassePremier nel 1979, rimanendo in sella per tre mandati consecutivi fino al 1990. Fin da subito furono implementate politiche neoliberiste come l’aumento della tassazione indiretta e la deregolamentazione finanziaria. Di conseguenza, la crisi dilagò fino al 1983, con un calo delle attività produttive e un aumento esponenziale della disoccupazione. Le politiche del governo si fecero tuttavia ancora più mercatiste e antisociali: i grandi monopoli statali, anche in ambito energetico e industriale furono privatizzati; la tassazione immobiliare cessò d’essere progressiva e fu privatizzata la maggior parte delle case popolari; il potere dei sindacati fu ridotto e la serrata proibita; gli scioperanti (in particolare i minatori) furono trattati con la massima durezza da parte delle forze dell’ordine; la manodopera immigrata, nonostante le promesse fatte in campagna elettorale, aumentò.

Sulla politica estera, poi, la Thatcher rinsaldò i legami con gli Stati Uniti, promuovendo una politica estera aggressivamente occidentalista, anticomunista e imperialista (fu proprio un giornale sovietico ad affibbiarle il nomignolo di “Lady di Ferro”, dopo un duro attacco verbale all’URSS). Resta famigerata per la severità e violenza con cui represse la lotta di liberazione irlandese nell’Ulster e per l’intervento militare nelle Malvine contro l’Argentina. Inoltre, appoggiò la politica reaganiana di deterrenza nucleare, fornendo basi britanniche per il bombardamento della Libia e l’installazione di missili nucleari statunitensi, si oppose all’embargo nei confronti del Sud Africa razzista e sostenne il regime cileno di Pinochet, battendosi ancora in anni recenti perché quest’ultimo non fosse assicurato alla giustizia. Tuttavia, imitando l’apertura tattica di Nixon verso i comunisti antisovietici, non si fece scrupoli ad appoggiare in sede ONU i Khmer Rossi di Pol Pot contro il Vietnam o a presenziare alle esequie del Maresciallo Tito, ed a stabilire la restituzione di Hong Kong alla Cina popolare. In Europa, però, si mosse sempre ispirata da un gretto particolarismo nazionale, in contrasto con le politiche d’integrazione europea, e rifiutò di restituire Gibilterra alla Spagna.

Questo decisionismo nazionalista seppe comunque fare appello alla nostalgia britannica per l’Impero, garantendole un discreto consenso. D’altra parte, però, all’interno dello stesso Conservative Party, ricevette numerose critiche. Sotto tanto fumo, infatti, l’arrosto fu poco sostanzioso. Considerando questo decennio nel suo insieme, l’economia britannica crebbe in linea con il resto dell’Europa occidentale, ma si ebbe una redistribuzione delle ricchezze a favore delle classi più elevate, né vi fu una riduzione dell’inflazione o della disoccupazione rispetto al 1979. Sul lungo termine, però, influì drammaticamente sulla deindustrializzazione della Gran Bretagna e sulla diminuzione e l’impoverimento della popolazione autoctona, fallendo nell’arrestarne il declino.  Ugualmente deteriori furono le conseguenze culturali, con l’aumento della distanza tra il Regno Unito e l’Europa e, all’interno, la crescita dell’egoismo sociale e del classismo, in un contesto che già soffriva di queste tare ideologiche.

Ripugnerebbe al nostro animo festeggiare la sua dipartita – abbiamo già avuto un cospicuo saggio di questa viltà, il mese scorso, coi cachinni delle iene liberali all’indirizzo del defunto Presidente Chávez – e la nostra onestà ci impone di riconoscere le sue capacità personali e la sua importanza storica. Tuttavia, noi non possiamo dimenticare la sua politica criminale, sia all’interno nei confronti del suo stesso popolo, sia all’estero in sterile difesa degli ultimi resti del morente impero britannico, a danno di altri popoli – in primis ai nostri fratelli cattolici irlandesi. Soprattutto, però, non possiamo dimenticare la sua eredità morale, quale figura emblematica del neoliberismo nella sua espressione più brutalmente antisociale ed anticomunitaria,  al punto da farle affermare: “La vera società non esiste”.

Per questo, non abbiamo spremuto una lacrima, né l’avremmo spremuta se quel lontano 12 ottobre 1984 avesse avuto successo l’attentato dell’IRA al Grand Hotel di Brighton. Pregheremo piuttosto Dio affinché abbia pietà della sua anima, oltre ogni questione umana e terrena. Lasceremo – come disse Bobby Sands, martire dell’indipendenza irlandese, alla cui lotta ella volle negare ogni dignità politica, lasciando che morisse di fame in una squallida cella, nonostante fosse stato eletto parlamentare britannico – che “la nostra vendetta sia la risata dei nostri figli”, perché un giorno possa morire anche tutto quello che rappresentò da viva e che rappresenta da morta.