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Perché la vera decrescita oggi è politica, non economica

di Alain de Benoist - Bruno Giurato - 26/04/2013

Fonte: lettera43

Il politologo De Benoist sull'Ue, il capitalismo e la dicotomia destra-sinistra: «È un'alternanza che non dà alternative».


Adesso ci sono arrivati in tanti alla «decrescita» e allo scetticismo nei confronti della religione europeista, che impazzava negli Anni 90 e all' inizio del Duemila. Ma si tratta di idee e atteggiamenti che Alain De Benoist aveva teorizzato e coltivato già negli ultimi 40 anni.
Critico (con argomenti precisi) nei confronti dell'Europa, diffidente (in maniera articolata) verso il dio mercantilista, il politologo francese fondatore della Nouvelle Droite era stato per anni relegato, in maniera liquidatoria, nella casella dei pensatori di estrema destra.
Ora che la contrapposizione ideologica destra-sinistra che ha segnato il '900 non sembra più in grado di orientare le visioni politiche in maniera ferma e forte, e soprattutto ora che che la crisi economica sembra inverare timori e tremori per un tramonto d'Occidente, le riflessioni che De Benoist aveva disseminato riemergono come una trama nascosta, dietro le considerazioni di tanti, sempre più accreditati, maestri di pensiero.
UN LUCIDO DISINCANTO. Né impolitico, né populista, giammai nostalgico o reazionario De Benoist. Disincantato e lucido piuttosto.
«Tutti i sondaggi di cui disponiamo rivelano una sfiducia generalizzata dei popoli europei nei confronti della politica» ha detto De Benoist a Lettera43.it. «La fiducia sociale è il fondamento della coesione sociale. Lo sprofondare della fiducia va di pari passo con l'aumento dell'amarezza e della delusione, della frustrazione e del rancore, cose che possono generare un'ondata di collera» ha concluso.

DOMANDA. Infatti la perdita di significato delle categorie novecentesche di destra e sinistra è un fatto evidente.
RISPOSTA.
 Forse.
D. Eppure, almeno in Italia, si continua a ragionare secondo questi parametri.
R. In Italia come in Francia le parole destra e sinistra continuano a essere impiegate in riferimento al gioco politico parlamentare. Ma nello stesso tempo la gente vede bene che i governi di “destra” e “di sinistra” fanno più o meno la stessa politica.
D. Ossia?
R.
 Si tratta del sistema dell'«alternanza unica», di cui ha scritto Jean-Claude Michéa, cioè dell'alternanza senza alternativa.
D. Sorgono, invece, nuove contrapposizioni?
R. Una nuovo contrasto, molto più reale, è quello che ormai oppone le classi popolari (di destra e di sinistra) a una «nuova classe», mondializzata, oggi totalmente distaccata dal popolo.
D. Ma almeno sul piano dell'elaborazione teorica, destra e sinistra hanno un senso?
R. La distinzione destra-sinistra non permette assolutamente più di definire degli autori come: Régis Debray, Jean Baudrillard, Serge Latouche, Emmanuel Todd in Francia, oppure Massimo Cacciari, Danilo Zolo, Marco Tarchi o Costanzo Preve in Italia.
D. È uno dei fondatori della Nouvelle Droite, e qualcuno la ha associata al Fronte Nazonale di Jean-Marie Le Pen.
D. Le posizioni del Fn hanno suìito molte variazioni nel corso della sua storia, cosa particolarmente evidente in ambito economico.
D. Cioè?
R.
 Trent'anni fa si definivano liberali e reaganiani. Al giorno d'oggi, dopo che Marine Le Pen è succeduta a suo padre, lo stesso movimento milita contro il libero scambio, reclama l'introduzione di un certo protezionismo, e denuncia con vigore la deregulation economica.
D. Posizioni simili alle sue.
R. Sono opinioni che spiegano, d'altronde, come una grande parte dell'elettorato frontista provenga, ormai, dalla classe operaia. Resto invece in disaccordo con il «giacobinismo» repubblicano del Fronte nazionale, con la sua ostilità di principio verso il regionalismo e le «comunità», e col suo laicismo islamofobo.
D. Come giudica il successo del movimento di Beppe Grillo?
R. È il sintomo rivelatore dello stato dell'opinione pubblica, e specialmente del discredito in cui è caduta la classe politica.
D. Cosa intende dire?
R.
 Il fossato che si è scavato tra la gente e i partiti di governo classici è ormai tale che le persone si volgono a torto o a ragione verso tutto quello che sembra loro non inquadrato e diverso.
D. Alcuni sono allergici all'alto tasso di populismo grillino.
R. È facile rispondere loro che le élite in carica non sono meno demagogiche dei populisti. Ma soprattutto: se gli elettori si sentissero rappresentati da quelli che hanno eletto o incaricati a questo fine, non si rivolgerebbero ai populisti. Quello che Beppe Grillo e i suoi amici potranno fare del loro successo, evidentemente è un'altra faccenda.
D. Ma, da politologo, quest'idea della democrazia diretta attraverso la Rete, come la vede?
R. Internet gioca oggi un ruolo insostituibile nel campo dell'informazione «alternativa». E grazie a esso che si può sperare di sbriciolare il conformismo mediatico, o anche di far nascere delle vere discussioni.
D. Ma...
R.
 Sono molto scettico sulla possibilità di sviluppare su questo mezzo una vera democrazia diretta.
D. Perché?
R. La democrazia diretta esige un confronto diretto nello spazio pubblico. Gli internauti possono anche connettersi fra loro a migliaia, ma restano nella sfera del privato. Non è soltanto diventando dipendenti da un telecomando o da uno smartphone, che possiamo rimediare alla scomparsa del legame sociale.
D. Internet non può svolgere questo ruolo.
R.
 Ne dà solo l'illusione, proprio come Facebook dà l'illusione di avere degli “amici”.

«Anche l'ideologia del progresso è in crisi»

D. La crisi della politica italiana riflette quella europea. Per Nietzsche «l'Europa si farà sull'orlo di una tomba». Siamo arrivati sull'orlo?
R. Non ci siamo molto lontani. Ma lo stato di crisi di oggi non vuol dire che si va «a fare l'Europa» (che non farò l'errore di confondere con l'Unione europea), vuol dire semplicemente che un ciclo sta per terminare.
D. Decrescita: per lei, come per  Serge Latouche e altri, è un imperativo motivato dalla finitezza delle risorse.
R. Non ci può essere crescita materiale infinita in uno spazio finito. In altri termini, gli alberi non possono crescere fino al cielo. Questo fatto ci colpisce, perché noi abbiamo preso l'abitudine di considerare la crescita economica come qualcosa di naturale.
D. E invece?
R.
In realtà questa idea è recente. Storicamente è legata all'ideologia del progresso, che anch'essa è in crisi.
D. Quindi, che fare?
R. Decrescita non significa arresto di ogni attività economica o la fine della storia. Bisogna solo abituarsi a moderare il nostro modo di vivere. Cioè capire che “più” non è sempre sinonimo di “meglio”.
D. Ma i governanti europei l'hanno capito?
R. L'austerità messa in atto dai governi europei per soddisfare le esigenze delle banche e dei mercati finanziari si traduce in un abbassamento del potere d'acquisto e in un aumento della disoccupazione. Risultati inversi a quello che si pensava.
D. Cosa intende con risultati inversi?
R. L'impoverimento delle classi medie e di quelle popolari. Ma ciò non impedisce che i più ricchi si arricchiscano ulteriormente. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la decrescita.

Bisogna «creare una nuova forma di vita pubblica, di cittadinanza»

D. Questo vale per tutta l'Europa forse. Qual è stato l'errore alla base della costruzione dell'Ue?
R. Si è effettuata fin dall'inizio contro il buon senso. Si è dapprima scommesso sul commercio e l'industria anziché sulla politica e la cultura.
D. E questo cosa ha comportato?
R. I popoli non sono mai stati realmente associati alla costruzione europea. Inoltre le finalità di questa costruzione non sono mai state chiaramente definite. Si tratta di creare un'Europa-mercato o un'Europa-potenza? La domanda è questa.
D. Al contrario, lei è un sostenitore di un modello politico federalista, non nazionale. Piuttosto «imperiale». In che senso?
R. L'Europa ha conosciuto, nel corso della sua storia, due grandi modelli politici: quello dello Stato-nazione, di cui la Francia è l'esempio più tipico, e quello dell'Impero, che è stato prevalentemente quello della Germania e dell'Italia.
D. Differenze, sul piano pratico e organizzativo?
R. Il modello Stato-nazione è caratterizzato dal centralismo e dal «giacobinismo», mentre il modello imperiale poggia sul rispetto dei diversi componenti, che possono eventualmente beneficiare di una certa autonomia.
D. L'impero era più federalista degli stati nazionali?
R. Il federalismo mi sembrerebbe il sistema politico che ha maggiormente recepito le caratteristiche del modello imperiale, nella misura in cui oppone il principio di una sovranità condivisa al principio della sovranità una e indivisibile.
D. Come l'Ue?
R. L'Ue, che certi qualificano talvolta come “federale”, da questo punto di vista è perfettamente giacobina, perché è diretta dall'altro verso il basso, da una commissione di Bruxelles che si ritiene onnicompetente.
D. La tutela delle “piccole patrie” locali come potrebbe avvenire, nei fatti?
R. I piccoli Paesi potrebbero federarsi tra di loro, mentre i grandi potrebbero federalizzarsi. Ma come precedente tutto questo suppone un'azione di base che privilegi il localismo e la vita comunitaria locale:
D. A che scopo?
R. Favorire la democrazia partecipativa, di rimediare allo scollamento sociale e di creare una nuova forma di vita pubblica, cioè di cittadinanza.
D. Lei ha anche parlato di una «rivoluzione interiore», come rimedio al capitalismo finanziario e deterritorializzato. Ma come è possibile se manca un indirizzo culturale-ideale forte? 
R. Da questo punto di vista una vera riforma intellettuale e morale esigerebbe una “decolonizzazione” dell'immaginario simbolico, oggi quasi totalmente assoggettato all'immaginario del mercato.
D. Ma non è così semplice.
R. Per adesso le condizioni non sembrano in effetti concrete. Ma quello che si vede oggi non ci dice niente di ciò che succederà domani.
D. Com'è possibile ottenere decrescita e una «rivoluzione interiore» nell'era del nichilismo?
R. È un errore opporre senza sfumature antiche società - in cui l'influenza religiosa era forte - a società moderne o postmoderne dove la religione è quasi scomparsa. Le cose sono più complicate di così.
D. E come sono?
R. Il bisogno che l'uomo ha di riferirsi a qualcosa di più alto di lui è secondo me una costante antropologica. Appartiene alla natura umana. Ciò non significa che solo le religioni tradizionali possano rispondere a quest'esigenza.
D. In che senso?
R. Penso solo che il sacro risorge in generale dove uno non se l'aspetta, e che l'uomo ha sempre bisogno di superare se stesso per dare un senso alla sua esistenza.
D. Suonano strane queste parole dette da lei che non è né un nostalgico, né un tradizionalista...
R. Ho sempre rifiutato il «restaurazionismo» che sostengono gli autori reazionari. Gli ambienti reazionari sono ambienti in cui il riferimento al passato serve da rifugio o da consolazione. Ma la nostalgia non è un programma. A meno che non sia la nostalgia dell'avvenire.

Giovedì, 25 Aprile 2013