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Louis Pauwels, ovvero la scoperta che il fantastico è l’invisibile nascosto dietro il visibile

di Francesco Lamendola - 08/05/2013




 

Che cos’è il fantastico?, si chiedeva lo scrittore e giornalista belga Louis Pauwels, fondatore, insieme al suo amico e collega francese Jacques Berger (il cui vero nome era Jakov Mikhailovic Berger, nativo di Odessa), del cosiddetto realismo fantastico.

Il realismo fantastico, per Pauwels e Berger, è una scuola e un metodo di lavoro intellettuale; esso prende le mosse dalla scoperta che il fantastico non si nasconde nei sobborghi della realtà, ma che l’intelligenza, per poco che si sforzi di cercare, lo trova nel centro stesso della realtà: ed è un fantastico che non invita all’evasione, ma ad una più profonda e consapevole adesione alle cose e alla vita.

Per loro, autori del fortunatissimo libro «Il mattino dei maghi», scienza ed esoterismo possono e debbono collaborare nell’indagine sulla natura del reale: si tratta di due vie difformi, ma entrambe legittime ed anzi necessarie, per giungere ad una comprensione più piena del mondo e ad una maggiore e più intensa partecipazione al reale da parte dell’uomo. A torto le si è credute, per molto tempo, incompatibili: invece sono entrambe fruttuose, così come credevano i grandi maghi-scienziati del Rinascimento, fra i quali spicca il nome di Paracelso, prima che, nel XVII secolo, le due forme di sapere prendessero direzioni opposte e inconciliabili.

Louis Pauwels, prima di fondare la “scuola” del realismo fantastico – che può ricordare il movimento letterario del “realismo magico”, ma, ovviamente, non ha niente a che fare con esso -, era stato un seguace delle dottrine esoteriche di Georges Ivanovic Gurdjiev e un amico di André Breton e dei surrealisti, dei quali aveva, per un certo tempo, condiviso le idee e con i quali collaborato attivamente.

Jacques Berger, da parte sua, nella propria vita avventurosa aveva praticamente sperimentato tutto: ingegnere chimico, aveva studiato la Kabbalah presso i rabbini ucraini, prima di essere costretto a fuggire dalla Russia in preda alla guerra civile; aveva poi studiato matematica e fisica ed era diventato assistente del chimico nucleare André Helbronner, assassinato dalla Gestapo verso la fine della seconda guerra mondiale; era stato perfino avvicinato dall’enigmatico Fulcanelli, l’alchimista di cui si diceva che avesse scoperto ed applicato su se stesso l’elisir di lunga vita, tanto da essere nessun altri che il famoso conte di Sain-Germain, attivo alla corte francese del XVIII secolo – o, almeno, questo Berger sosteneva.

Del libro «Il mattino dei maghi», che voleva essere il manifesto della nuova scuola di pensiero e che fu recepito dalla critica e dal pubblico come una specie di “summa” dell’esoterismo, si è detto tutto il bene e tutto il male possibili: gli intellettuali di formazione neo-positivista, in genere, ne hanno sottolineato, con maggiore o minore irritazione, ingenuità e debolezze (che non sono poche); quelli d’ispirazione teosofica, occultista e vagamente “alternativa” – oggi si direbbe: di tendenza New Age – si sono sprecati nelle lodi, anche se gli uni e gli altri, probabilmente, hanno passato il segno e anche se non sono mancate le eccezioni: di estimatori della tendenza scientista (perché, in fondo, gli autori sembravano ridurre il mistero a una serie di problemi non ancora scientificamente chiariti), e di detrattori di tendenza esoterica (per la stessa ragione degli altri, vista però, da essi, in chiave decisamente negativa).

E poi, diciamo la verità, il successo strepitoso del libro aveva a che fare soprattutto con la vasta sezione in esso dedicata al nazismo esoterico: un campo allora sconosciuto al grande pubblico e che sarebbe poi stato esplorato da storici e politologi di professione, come Giorgio Galli con il suo importante «Hitler e il nazismo magico», del 1989. Come si vede, ci son voluti quasi trent’anni per “sdoganare” un simili argomento da parte dell’ambiente accademico; e non sono mancati, neanche allora, gli intellettuali superciliosi che hanno storto il naso, convinti che la storia sia una scienza e che il marxismo sia la super-scienza per antonomasia, se si vogliono comprendere i fenomeni politici e sociali, oltre che quelli economici. «Altro che nazismo magico, Società Thule e rituali di occultismo: questa è materia da film o da romanzi di terz’ordine; robaccia che non ci abbassiamo a prendere in considerazione, perché ininfluente per spiegare l’avvento del nazismo!».

Così hanno pensato, e talvolta hanno detto, non pochi signori dell’establishment culturale. Sono gli stessi che si tengono la pancia dalle risate ogni volta che qualcuno si azzarda a nominare, sia pure con tutta la serietà e con tutta la cautela dello studioso aperto e non prevenuto, l’Atlantide di Platone, non solo come mito, ma come possibile realtà storica; la presenza di testimonianze archeologiche e paleontologiche assolutamente anomale e dalle datazioni “impossibili”; l’eventualità di contatti avvenuti in passato, e che forse avvengono anche nel presente, tra la specie umana e delle razze aliene intelligenti, provenienti dalle profondità cosmiche o, forse, da altre dimensioni spazio-temporali.

A noi, qui, non interessa riaprire quella vecchia discussione, suscitata dal saggio di Pauwels e Berger (vecchia ormai di oltre mezzo secolo, dato che il libro apparve nel lontano 1960 e dunque, per molti aspetti, ormai irrimediabilmente datata), quanto svolgere una breve riflessione sul concetto del realismo fantastico. Ed ecco con quali parole Louis Pauwels presentava il suo punto di vista, nella «Introduzione» a «Il mattino dei maghi» (titolo originale: «Le matin des magiciens», Paris, Librairie Gallimard, 1960; traduzione dal francese di Pietro Lazzaro, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1963, 1971, pp. 30-33):

 

«Le danze, così veloci e incoerenti,  delle api disegnano, sembra, nello spazio,  figure matematiche precise e costituiscono un linguaggio. Io sogno di scrivere un romanzo in cui tutti gli incontri che un uomo fa nella sua esistenza, fugaci o notevoli, dovuto a ciò che chiamiamo caso o alla necessità, disegnino anch’essi figure, esprimano ritmi, siano ciò che forse sono: un discorso sapientemente  costruito, indirizzato ad un’anima perché raggiunga la sua compiutezza,  e di cui essa non afferrava, nel corso di una intera vita,  che qualche parola slegata.

Mi sembrava, a volte, di afferrare il senso di questo balletto umano,  attorno a me, di indovinare che mi si parla attraverso  il movimento degli esseri che si avvicinano, si fermano o si allontanano. Poi perdo il filo, come tutti, fino alla prossima grande e tuttavia frammentaria evidenza.  Un’amicizia molto viva mi legò ad André Breton. Fu per mezzo suo che conobbi René Alleau,  storico dell’alchimia. Un giorno, mentre cercavo, per una collezione di opere di attualità, un divulgatore  di argomenti scientifici, Alleau mi presentò Bergier.  Si trattava di lavoro fatto per vivere, e poco m’importava la scienza  volgarizzata o no. Ora, quell’incontro  del tutto fortuito era destinato ad ordinare per un lungo periodo la mia vita, a riunire e orientare tutte le grandi influenze intellettuali o spirituali esercitate su di me, da Vivekananda a Guénon, da Guénon a Gurdjiev, da Gurdjiev a Breton, e a ricondurmi nella maturità al punto di partenza: mio padre.

In cinque anni di studi e di riflessioni, durante i quali  i nostri spiriti, molto diversi,  furono costantemente felici di essere insieme, mi sembra che abbiamo scoperto un punto di vista nuovo  e ricco di possibilità. Ciò che, alla loro maniera, i surrealisti  facevano trent’anni fa. Però, a differenza dei surrealisti, non abbiamo cercato nella direzione del sonno e del’infracoscienza, ma all’estremo opposto: nella direzione dell’ultracoscienza e della veglia superiore. Abbiamo battezzato la scuola da noi seguita, scuola del realismo fantastico. Essa non ha nulla a che fare col gusto del’insolito., dell’esotismo intellettuale, del barocco, del pittoresco. […] È per difetto di fantasia che letterati e artisti cercano il fantastico fuori della realtà, nelle nuvole. Non ne ricavano che un sottoprodotto. Il fantastico, come le altre materie preziose, deve essere estratto dalle viscere della terra, dal reale. E la fantasia autentica è ben altra cosa che una fuga verso l’irreale. “Nessuna facoltà dello spirito si immerge e scava più della fantasia: essa è il grande palombaro”.

Generalmente il fantastico viene definito come una violazione delle leggi naturali, come una apparizione dell’impossibile. Per noi non è affatto questo. Il fantastico è come una manifestazione delle leggi naturali, un effetto del contatto con la realtà, quando essa viene percepita direttamente e  non filtrata attraverso il velo del sonno intellettuale, attraverso le abitudini, i pregiudizi, i conformismi. La scienza moderna ci insegna che dietro il visibile semplice c’è dell’invisibile complicato. Un tavolo, una sedia, il cielo stellato, sono in realtà radicalmente diversi dall’idea che ce ne facciamo: sistemi in rotazione, energie  non esaurite. È in questo senso che Valéry diceva che, nella scienza moderna, “il meraviglioso e il positivo hanno stretto una sbalorditiva alleanza”. Freud spiega tutto, “Il Capitale” spiega tutto., ecc. Quando diciamo pregiudizi,dovremmo dire superstizioni. Ve ne sono di antiche e di moderne. Per certe persone nessun fenomeno di civiltà è comprensibile se non si ammette, alle origini, l’esistenza di Atlantide.  Per altre il marxismo basta a spiegare Hitler. […]

“Su scala cosmica (la fisica moderna ce l’insegna) solo il fantastico ha possibilità di essere vero” dice Teilhard de Chardin. Ma per noi anche il fenomeno umano deve misurarsi su scala cosmica. È ciò che affermano i più antichi testi di saggezza.[…] Un metodo di lavoro non è un sistema di pensiero. Noi non crediamo che un sistema, per quanto geniale, possa illuminare completamente la totalità del vivere che ci occupa. Si può indefinitamente manipolare il marxismo senza arrivare a integrare il fatto che Hitler ebbe più volte coscienza, con terrore, che il Superiore Sconosciuto era andato a visitarlo.»

 

La concezione di Pauwels e Berger è, dunque, assai vicina, almeno nella “diagnosi”, a quella dei poeti e degli scrittori decadentisti, della quale si può considerare un prolungamento, o piuttosto una nuova versione, aggiornata e corretta: dietro la superficie delle cose, c’è il mistero; la scienza materialista e meccanicista, così come è intesa e praticata ordinariamente, non è in grado di penetrare in esso, perché non possiede gli strumenti adatti, né una struttura logica adeguata: essa non si occupa che del mondo visibile e ignora o, addirittura, nega tutto ciò che non è sperimentabile, verificabile, misurabile e riproducibile.

Fatta la diagnosi, differiscono le conclusioni: per i decadentisti, solo il poeta possiede la capacità di penetrare il mistero, spingendosi al di là dell’apparenza delle cose, al di là della loro superficie ingannevole e illusoria; e ciò per mezzo degli stati alterati di coscienza, naturali o anche artificiali (cioè realizzati con l’assunzione di sostanze stupefacenti): il sogno, la visione, l’allucinazione; avvicinandosi, nel loro approccio, alle tecniche sciamaniche dell’estasi, miranti a realizzare il “viaggio astrale” ed altre esperienze extra-corporee ed extra-razionali (ma non, di per sé, irrazionali, come la cultura scientista pretendeva e pretende tuttora).

Per la scuola del realismo fantastico, si tratta di creare una collaborazione e una sintesi fra le posizioni più avanzate della scienza post-newtoniana, specialmente della fisica quantistica, e le antiche tecniche della magia e dell’occultismo, sperimentate da generazioni di sapienti e di studiosi che erano anche, nello stesso tempo, scienziati, i quali non pensavano affatto di perseguire un sapere alternativo a quello della scienza, ma profondamente integrato con essa. Pauwels, infatti, non crede che il fantastico sia qualcosa di estremo e di irreale, ma che si annidi nel quotidiano e nell’ordinario; e che solo la nostra distrazione, il nostro conformismo, la nostra pigrizia intellettuale ci impediscono di accorgercene e di trarne tutte le meravigliose conclusioni.

È una posizione condivisibile, questa? A nostro avviso, sì, almeno nelle linee generali; anche se poi si tratta di vedere, caso per caso, nello studio dei fenomeni, naturali ed extra-naturali, quale sia la strada migliore da percorrere e in quale misura servirsi dell’una o dell’altra prospettiva: perché il segreto è tutto qui, nel giusto equilibrio fra esse, cosa estremamente delicata e complessa e nella quale vengono impietosamente a nudo tutti i dilettantismi, tutte le approssimazioni di chi vuol cimentarsi nella ricerca, pur essendo sprovvisto di un serio bagaglio culturale e, ancor più, di una seria preparazione intellettuale e di una adeguata consapevolezza spirituale.

Perché il problema, alla fine, non è di tecniche e nemmeno di filosofie, ma di retta intenzione: chi cerca con mente sgombra e con animo puro, alla fine troverà; mentre gli altri, non troveranno nulla.