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Grazie

di Francesco Lamendola - 22/05/2013




 

È strano come su certi episodi della propria vita, magari importanti, scenda il velo del tempo e li avvolga come in una nebbia, nascondendoli alla vista del ricordo, per anni e anni; e come, poi, un insieme di circostanze che si direbbero assolutamente fortuite (ma esiste davvero, il caso?), li riportino alla luce, restituendocene la consapevolezza.

È bastata una telefonata imprevista, oltretutto di uno sconosciuto, per mettere in moto il misterioso meccanismo della memoria; ed ecco che dal buio dell’oblio sono riapparse persone e situazioni, sono ricomparsi dei volti, deboli e sbiaditi, quasi indistinti dapprima, come “perla in bianca fronte”, poi via via un poco più nitidi, simili a quelle figure che Dante, nel Cielo della Luna, scambia per “specchiate sembianze”, mentre sono sostanze reali, ancorché luminose e impalpabili.

Ricordi di un tempo lontano, che sembrano quasi appartenere a un’altra persona, tanto erano scivolati nelle pieghe più remote della memoria: una sezione del Club Alpino Italiano; un corso di speleologia, frequentato da ragazzo; poi, uno di roccia; mattine di sole in faccia ai monti e discese tenebrose nei profondi recessi della terra; scalette metalliche, corde di sicurezza, chiodi, moschettoni; e, soprattutto, persone entusiaste, giovani pieni di vita, cuori avventurosi che battono per la gioia di salire, di arrampicare, oppure di discendere, scoprendo il fascino di ciò che è arduo da conquistare, di ciò che richiede fatica e che mette alla prova il corpo e lo spirito.

Ed ecco il ricordo di una escursione in montagna, in una località dal nome suggestivo e un po’ inquietante: Bosco Nero, un massiccio delle Dolomiti bellunesi, fra la Valle del Piave e la Val di Zoldo, culminante in una vetta che sfiora i 2.500 metri: non altissimo, ma impegnativo, tutto frastagliato di ripide creste, simile a una parete dantesca e con un che di remoto, di selvaggio; o, almeno, così mi apparve allora, quando, ragazzo diciassettenne, ne affrontai l’ascesa con due o tre compagni.

L’anima della piccola spedizione era un giovane e simpatico professore di educazione fisica, uno che sapeva trasmettere ai suoi studenti la passione per la montagna; sempre allegro e positivo, ma anche assennato, coscienzioso, responsabile: insegnava che la montagna non va presa sottogamba, che bisogna imparare a conoscerla e che, soprattutto, bisogna imparare a conoscere se stessi, se si vuol diventare dei bravi rocciatori.

Era un inverno freddissimo, con tanta neve che copriva i fianchi delle montagne e le vette: era tutta una distesa bianca, che, alla sera e all’alba, si tingeva di magici riflessi azzurri, indaco, rosa e violetto; e c’era un gran silenzio, non si scorgeva traccia di presenza umana, nemmeno un animale in giro, nemmeno un’impronta sul candido mantello. Il bosco giaceva assorto e come sprofondato in un incantesimo; e, più in alto, il sentiero avanzava nella neve alta, dove si affondava fino a metà gamba e si procedeva con estrema lentezza, sudando e ansimando.

Poi l’arrivo nel rifugio, vuoto e fuori servizio in quella stagione; la cena frugale e il ritiro per tempo nel sacco a pelo, sui letti a castello di legno: ancora poche battute scherzose circa la salita dell’indomani e già scende il sonno, pesante, mentre fuori le tenebre hanno invaso la valle e non brilla neppure una stella, perché c’è aria di neve, ma non può nevicare a causa della temperatura troppo bassa.

Prima ancora dell’alba, poi, la sveglia: è buio pesto, sembra impossibile che sia già ora di alzarsi, pare che sia passata non più di mezz’ora e si vorrebbe dormire ancora, dormire, dormire; invece è proprio ora di alzarsi, sono le quattro e mezza e bisogna avviarsi, senza neanche un caffè caldo da mettere nello stomaco, perché la strada è ancora lunga per giungere in cima e il tempo è strettamente calcolato per il rientro, prima di sera.

Mano a mano che comincia a schiarire, il paesaggio si fa sempre più stralunato e desertico: neve ovunque e il cielo che restava grigio, senza un raggio di sole a ingentilire quei luoghi solitari, uno spesso strato di nuvole grava dall’uno all’altro orizzonte. E questo silenzio: enorme, opprimente, più rumoroso di un esercito di trombe o di tamburi.

Di quel che è successo poi restano solo pochissimi e slegati frammenti, poche tessere di un mosaico disperso: strano, quasi non sembra essere stata un’esperienza realmente vissuta, ma soltanto sognata; e pensare che per tanti anni era rimasta in un angolo, come fuori del tempo e, dunque, fuori della coscienza.

La vetta è stata raggiunta, ma con poca soddisfazione, perché il cielo basso e grigio non permette di godere minimamente dello spettacolo che qualunque alpinista si attende come ricompensa della propria fatica. Durante la discesa, poi, la stanchezza si fa sentire è così tanto, complice lo scarso allenamento e la mediocre attrezzatura, da appannare la lucidità del giudizio. Perché aggirare quel costone roccioso, allungando la strada di parecchio, quando si può tagliare la strada attraverso il nevaio? E così, impaziente di arrivare, prendo a scendere in quella direzione, anzi incomincio a correre e, correndo, acquisto velocità – per quanto è possibile correre velocemente su quel mantello bianchissimo, con i piedi che affondano a ogni passo.

Ma perché il professore si mette a gridare a quel modo? Grida una parola sola, ma carica di angoscia: «Noooooo!!!!»; e quella “o” si ripercuote sotto le nuvole basse e rimbalza sul costone roccioso, avvolgendo tutta la valle sottostante. Allora mi fermo: giusto in tempo per rendermi conto di che cosa sarebbe successo, se avessi seguitato a scendere a valle ancora per pochi secondi. Venti o trenta metri più in basso, il lieve declivio cede il posto ad un salto: nessun sentiero, nessun poggio, nessun pianoro, ma un brusco salto nel vuoto, uno strapiombo improvviso, profondo parecchie centinaia di metri.

Altro che scorciatoia, in montagna la via più breve non è mai quella retta, a meno che si sia stanchi di vivere: è la regola numero uno, ma i principianti non la sanno finché non la imparano sotto la guida di qualcuno più esperto. Io ho avuto la fortuna di avere, lì vicino, una tale guida: ancora pochi attimi, e sarebbe stato troppo tardi per imparare, troppo tardi per qualsiasi cosa. Avrei fatto un salto senza ritorno, e nella maniera più sciocca.  

Eppure, ero stato ancora in montagna, ma sempre d‘estate; e avevo scalato qualche montagna di un certo livello, anche se non troppo difficile. Questa, però, con la difficoltà ulteriore del ghiaccio e della neve, si era rivelata assai più insidiosa delle altre; o forse, semplicemente, ero stato io a commettere una incredibile leggerezza: fatto sta che avevo scansato la morte per un pelo, e quasi senza rendermene conto – almeno fino all’ultimo istante. Ma quando me ne fossi reso conto da solo, sarebbe stato, probabilmente, già troppo tardi.

Voglio ricordare il nome di quel giovane e simpatico professore, che non mi rimproverò e non mi mortificò, giustificando con la stanchezza e l’inesperienza quella mia incredibile svista; lo voglio ricordare anche perché, pochissimi anni dopo, era già morto, cadendo tragicamente su quelle montagne da lui tanto amate, e lasciando una moglie anch’ella giovane. Si chiamava Rino Costacurta e chi lo ha conosciuto, lo ricorda ancora con stima e affetto.

Alla sua memoria hanno dedicato una via ferrata sul Monte Teverone, in Alpago, la conca che si erge a settentrione del Lago di Santa Croce, sempre nelle Dolomiti bellunesi. È bello che qualcosa di lui sia rimasta lassù, fra i monti e il cielo, in uno degli scenari alpini più belli che sia dato ammirare, in qualunque stagione si salga verso di esso. È bello ed è giusto, nel senso che gli rende qualcosa di dovuto.

Quando appresi della sua improvvisa scomparsa, ne rimasi turbato e ripensai a quel debito di riconoscenza, che solo adesso, a distanza di tanto tempo, cerco di onorare, parlando di lui; ma allora, preso da altri interessi e da altre circostanze, avevo smesso di andare in montagna e non vedevo più nessuno di quelli che mi erano stati compagni nella sezione locale del Club Alpino; anche la brutta notizia mi era giunta quasi per caso. Frequentavo l’università, a Padova, e avevo già incominciato a lavorare; non avevo più tempo per le uscite in montagna, o forse la passione si era attenuata, anche se non è mai scomparsa del tutto.

Come si rimane, quando si apprende della morte di una brava persona, di un giovane pieno di vita, generoso e infaticabile, se non come un albero colpito dal fulmine? Così sono rimasti quelli che lo hanno conosciuto e che gli hanno voluto bene. La montagna se lo era portato via, lui così appassionato ed esperto. Non ho mai saputo i particolari: solo che fu una terribile caduta, un volo senza rimedio, come quello che avrei potuto fare io, senza il suo tempestivo intervento. Non ricordo nemmeno chi fu a dirmelo: ricordo solo il nostro senso di desolazione e quasi di incredulità, come di una cosa che lascia letteralmente senza parole.

E adesso, a distanza di tanti anni, eccomi a dire: grazie.

Ha un senso? Forse sì; forse le cose hanno sempre un senso, e il fatto di crederci in ritardo rispetto ad esse dipende da un nostro errore di prospettiva: quando ci dimentichiamo di essere sempre al cospetto dell’eternità. Davanti all’eterno, che si tratti di anni o di minuti non fa alcuna differenza: sarebbe come se una formica si preoccupasse di sapere se il monticello su cui è salita può reggere il confronto con la montagna più alta della Terra. È chiaro che, dal punto di vista materiale, non lo può; ma è altrettanto evidente che a noi umani viene domandato di fare il possibile, non l’impossibile; e il possibile è nella dimensione del relativo, ma con un occhio sempre rivolto a quella dell’assoluto.

Ogni lacrima e ogni sorriso hanno il loro posto davanti all’eternità; e così ogni imprecazione e ogni lode. Ecco perché non è mai troppo tardi per ringraziare qualcosa o qualcuno, anche se sono passati lunghi anni dall’evento a cui ci riferiamo: la vita non ha mai fretta, davanti alla prospettiva dell’eterno; quando crede di averne, è perché si è scordata di non essere autosufficiente, di non essere tutto, ma soltanto un riflesso e un bagliore dell’assoluto e dell’eterno.

Siamo eterni viandanti ed esseri anfibi: per metà siamo immersi nel relativo, per metà siamo protesi verso l’assoluto; per una parte ci troviamo ad agire nel tempo, per un’altra parte siamo già in presenza dell’eterno. I due piani non vanno confusi, e tuttavia è necessario tener conto della loro simultaneità. Siamo creature anfibie, appunto: non divise, non schizofreniche. Siamo questo e quello, ma su due piani diversi: e, mentre l’uno è frutto di una specie d’illusione temporanea, valida, tuttavia, finché essa dura, l’altro è fatto della stessa sostanza di ciò che non deriva da altri la propria essenza: un bagliore di luce divina.

Talvolta, mentre arranchiamo faticosamente lungo il nostro cammino, ci giunge una voce amica: per metterci in guardia, per riportarci sulla giusta via, per sottrarci a un pericolo. È come se una presenza benevola vegliasse su di noi; e può accadere che il suo intervento sia così tempestivo, così provvidenziale e così inaspettato, da far sorgere il dubbio se a muovere in nostro soccorso sia stata solamente una creatura umana, fatta proprio come noi.

Oppure c’è un angelo custode che veglia sulla nostra sicurezza, tanto quella fisica che quella spirituale, e che ci sta sempre dietro le spalle, anche se noi non lo sappiamo, anche se non ci pensiamo affatto? Chi lo sa, chi può dirlo; e chi può negarlo. Per negarlo, bisognerebbe avere la certezza che egli non ci sia; ma è una certezza difficile da sostenere, dato che quasi tutti, per non dire proprio tutti, ricordiamo almeno una circostanza, talvolta molte di più, nelle quali abbiamo avuto la reale sensazione che qualcosa – qualcosa o qualcuno – intervenisse al momento opportuno per tirarci fuori da una grave difficoltà o per proteggerci da un immediato pericolo.

Se pensiamo che la vita sia soltanto la somma aritmetica di quel che si può vedere, toccare, misurare e descrivere scientificamente, allora possiamo anche respingere con un’alzata di spalle un tale interrogativo. Se, invece, siamo disposti ad aprirci all’idea che il visibile è solo una piccola, una piccolissima parte del reale, meno ancora della parte visibile di un iceberg alla deriva sulle onde del mare, rispetto alla parte che giace sommersa, allora le cose cambiano.

Da sempre gli uomini, sotto ogni cielo, hanno creduto fermamente alla realtà dell’invisibile; solo l’uomo moderno si è distaccato da tale prospettiva e ha orgogliosamente rifiutato il soprannaturale, tutto chiuso nelle proprie orgogliose sicurezze materialiste. Sa poco e crede di aver capito molto; è connesso con la rete informatica, con il telefonino cellulare, con la televisione satellitare, ma è disconnesso dal proprio centro interiore: perché non crede più alle voci, alle presenze, alla vita come destino, al reale come bellezza e come dono.

Ecco perché è importante non smettere mai di rendere grazie: anche dopo anni e anni; anche rivolgendo un pensiero affettuoso al nostro angelo custode della montagna.