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Progressisti in divisa: il pacifismo pragmatico

di Patrick Boylan - 06/09/2013

7ª puntata di "Progressisti in divisa: la Sinistra pacifista viene arruolata", saggio di Patrick Boylan. La storia di Tom Perriello, l'ideologo delle guerre di Obama

 

Progressisti in Divisa: nella foto, il Premio Nobel per la Pace Barack Obama con l'on. Tom Perriello, cofondatore di Avaaz e ideologo della Politica Estera Progressista del presidente americano e, in particolare, della ratio delle guerre umanitarie.

Continuiamo la pubblicazione a puntate di "Progressisti in divisa: la Sinistra pacifista viene arruolata", un libro di Patrick Boylan* che uscira poi tutto insieme in forma di e-book. Sono messi a nudo i difetti dei pacifisti italiani e occidentali, che condividono i difetti della sinistra, nel frattempo auto-eliminatasi e cooptata nel campo di chi fa le guerre.
Nella precedenti puntate abbiamo iniziato a vedere otto dei dieci tasselli da inserire nel vasto mosaico dell'espropriazione e contaminazione del pacifismo di sinistra da parte dei poteri forti.
Abbiamo visto per primo il piano internazionale, ossia il 1° tassello: Amnesty (USA); il 2° tassello: l'ong francese FIDH. Poi abbiamo visto il piano nazionale, ossia il 3° tassello: Tavola della Pace; il 4° tassello: RaiNews24. Poi siamo passati al piano individuale (5° tassello: Padre Dall'Oglio, 6° tassello: Giulio Marcon). Per una curiosa coincidenza, poche ore dopo la pubblicazione, Padre Dall'Oglio è stato coinvolto in uno stranissimo "rapimento-negoziato" dai contorni torbidi, a conferma della deriva della sua azione. E' seguita la puntata dedicata al caso Avaaz (7° tassello) e quella dedicata ai forum dei pacifisti in Internet e le liste email, con i casi delle discussioni impossibili sul web, funestate dai troll (8° tassello). Ora vedremo un argomento con molti echi attuali: il pacifismo pragmatico, che poi si schiera con le guerre di Obama (9° tassello).

Questa è la settima puntata.
Buona lettura
(la Redazione)




Nono Tassello - Tom Perriello e il pacifismo pragmatico      

Sul piano ideologico, la rivista progressista statunitense Democracy: A Journal of Ideas ha diffuso, nel gennaio del 2012, una "nuova concezione" del pacifismo che corrisponde a ciò che noi abbiamo chiamato fin qua, ironicamente, il Pacifismo Armato.
Potremmo anche chiamare questa ideologia il "pacifismo pragmatico", per cogliere la sua (pretesa) base teorica.

Si tratta di una giustificazione in chiave progressista degli interventi militari "umanitari" ed è stata elaborata da Tom Perriello, ex Deputato del Congresso statunintense, ex capo di Avaaz, attuale presidente di un potente lobby "di sinistra" a Washington (il CAP), consigliere del Presidente Obama e Progressista in Divisa per eccellenza.

Intitolata "Humanitarian Intervention: Recognizing When, and Why, It Can Succeed" (vedi: bit.ly/link-72  ☼   ► ), questa difesa del "pacifismo pragmatico" costituisce uno dei cinque "Principi Fondanti di una politica estera progressista" elaborati per il Presidente Obama come ideologia "di sinistra" alternativa alla dottrina conservatrice "NeoCon" (vedi: bit.ly/link-73  ☼   ► ).

Perriello amplia il concetto di "realistic...or pragmatic pacifism" abbozzato da David Cortright nell'ultimo capitolo della sua storia del pacifismo (Peace, 2008: bit.ly/link-75  ☼   ► ).
Inoltre si appoggia, per il diritto positivo, su una norma internazionale ancora poco definita ma che egli tratta però come se fosse consolidata, ossia la cosiddetta "responsabilità di proteggere" o "R2P" (Responsibility to [2] Protect: vedi: bit.ly/link-74  ☼   ► ; bit.ly/link-76  ► - solo inglese).

Perriello sostiene, infatti, che il ricorso alla guerra per rovesciare un regime oppressivo può essere un "male minore" e pertanto risultare "legittimo", grazie in particolare all'utilizzo delle moderne armi di precisione che circoscrivono le uccisioni e le devastazioni.
In secondo luogo, il concetto tradizionale di "legittimità" - come la pretesa legittimità che l'ONU conferisce ad un intervento militare - sarebbe da considerarsi ormai desueto.
La "legittimità di nuova generazione" [sic] può non tener conto dell'ONU se l'ONU è d'intralcio, per fondarsi sul consenso espresso da raggruppamenti nazionali, costituitisi ad hoc, i quali invocano la R2P.

Le argomentazioni di Perriello non reggono ad un'attenta analisi, per quattro motivi.

  1. Anzitutto esse si fondono su un falso dilemma - quello che i mass media ci presentano regolarmente per venderci una "guerra umanitaria": bisogna scegliere, dicono, tra "lasciare che un tiranno commetta violenze contro i suoi cittadini massacrandoli" e "commettere violenze noi stessi intervenendo anche militarmente con atti di guerra per fermare il tiranno". Non ci sarebbero altre possibilità. Dobbiamo sporcarci le mani.

Invece i dilemmi, se incrementiamo le nostre opzioni ridefinendo i termini della questione, sono raramente senza terze vie. Si tratta, dunque, di trovarne una e di proporla, il che trasforma l'aut-aut, appunto, in un falso dilemma. Se la terza via da noi proposta viene invalidata dalla controparte, bisogna denunciare la prevaricazione, passare al contrattacco e rovesciare il dilemma. Se il rovesciamento viene invalidato, bisogna denunciare anche questa prevaricazione e ampliare la prospettiva (linkage) anche ricorrendo alla minaccia. Se persino il nostro linkage viene invalidato, non ci rimane che denunciare quest'ultima prevaricazione e, delegando alla controparte la scelta, rifiutare di proseguire con la trattativa. Ma in nessun caso dobbiamo sentirci costretti a scegliere noi tra le alternative ugualmente inaccettabili di un falso dilemma. Del resto, anche se il dilemma non risulta falso (perché non c'è effettivamente una terza via soddisfacente da proporre o comunque non riusciamo a trovarla), non dobbiamo per questo sentirci costretti ad una scelta tra due alternative entrambi inaccettabili: dobbiamo rifiutare di trattare, delegare la responsabilità della scelta alla controparte, e contestare la procedura.

Perriello non prende in considerazione nessuna di queste strategie per risolvere i dilemmi. Pone semplicisticamente, come aut-aut, la scelta tra intervento e massacro e, ciò facendo, evidenzia sia la sua malafede, sia l'inconsistenza del suo ragionamento.

Ma forse alcuni dei concetti appena indicati in neretto non sono chiari al lettore: infatti, appartengono alla retorica, disciplina poco studiata.
La seguente scheda, dunque, li illustra, esaminando come si sarebbe potuto affrontare il dilemma posto dalla propaganda interventista dei mass media, prima del bombardamento NATO della Libia (il 19 marzo 2011), e che è stato discusso all'inizio di questa indagine.

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Intervenire o non intervenire nel conflitto in Libia?
Come rispondere agli aut-aut inestricabili

Nei mesi di febbraio e di marzo, 2011, i mass media italiani (e mondiali) mettevano l'opinione pubblica davanti ad un aut-aut:
  • approvare tacitamente lo sterminio dei ribelli nella città di Bengasi da parte delle truppe che Gheddafi stava per inviare o
  • approvare una no fly zone (zona d'interdizione al volo) sopra la Libia per proteggere i civili - eufemismo per "approvare i bombardamenti aerei della Libia", ossia i bombardamenti degli aeroporti, postazioni antiaerei, radar e quant'altro. (Nei fatti, il "quant'altro" è diventato poi: bombardare le caserme, i depositi armi, le stazioni tv, l'università, le infrastrutture, il Parlamento, il palazzo presidenziale, ecc., e le abitazioni civili attigue.)

Il tempo stringeva. Giravano petizioni a favore di un intervento armato, come quella delle 70 ong progressiste internazionali ricordate all'inizio di questa indagine. Cosa si doveva fare?

Seguendo i precetti della retorica, avremmo dovuto rilanciare con una terza via risolutiva - per esempio, l'offerta dell'Unione Africana (UA) di creare una zona cuscinetto in Libia tra la città di Bengasi e le truppe di Gheddafi in arrivo, obbligando le parti ad intavolare negoziati. Avremmo dovuto, cioè, rigettare l'una e l'altra delle alternative proposte (in quanto un falso dilemma ed inaccettabili entrambe), rifiutare di firmare la petizione a favore del bombardamento NATO e far circolare una contro-petizione chiedendo ai nostri governi di approvare la zona cuscinetto UA.

Poi, davanti al rifiuto (realmente avvenuto) della Francia e degli USA di riconoscere l'Unione Africana come attore, facendo decadere la sua offerta, avremmo dovuto
denunciare questa prevaricazione e poi passare al contrattacco, cercando di rovesciare il dilemma. Avremmo potuto, ad esempio, chiedere al Consiglio di Sicurezza (con una seconda petizione) di predisporre un ponte aereo per evacuare i ribelli e di vietare qualsiasi aiuto militare a loro favore. (Infatti, sarebbe stato possibile utilizzare gli aerei UNHAS dell'ONU per il trasporto umanitario.) Questa mossa avrebbe messo ora i ribelli - e non più noi - davanti ad un dilemma: (a) affrontare Gheddafi da soli con le armi che già possedevano e morire da martiri - e questa sarebbe stata un'infausta ma possibile loro scelta - o (b) accettare un ponte aereo ONU per essere evacuati in Egitto (la frontiera è vicina: i ribelli avrebbero potuto anche arrivarci in macchina in alcune ore). Lì avrebbero potuto addestrarsi alla resistenza civile non armata, allo scopo di far ritorno in Libia e di rovesciare poi Gheddafi usando gli stessi mezzi nonviolenti che erano stati usati con successo in passato in Sud America per rovesciare i regimi dittatoriali e sanguinari (quelli dei desaparecidos) senza sparare un colpo.

Qualora la Francia e gli Stati Uniti avessero ostacolato anche questa soluzione, negando l'autorizzazione di un ponte aereo ONU e incoraggiando i ribelli a restare a Bengasi (ciò che la Francia e gli USA hanno effettivamente fatto), avremmo dovuto denunciare l'ormai palese volontà di questi due paesi di creare un aut-aut inestricabile e, tramite una terza petizione, chiedere ai membri del Consiglio di Sicurezza di delegare proprio alla Francia e agli USA la responsabilità di salvare i ribelli di Bengasi senza intervenire militarmente (ad es., con un'evacuazione tramite veicoli della Mezza Luna Rossa). Come mezzo di pressione, poi, la nostra petizione avrebbe potuto precisare che, qualora la Francia e gli USA avessero rifiutato la delega, dicendo che l'unica soluzione possibile fosse la no fly zone sopra la Libia, sarebbe stato il caso allora di ampliare la prospettiva (linkage) e di consentire ad altri membri del Consiglio di offrire una no fly zone anche ai rivoltosi dell'Arabia Saudita (dove gli USA e la Francia hanno ingenti interessi economici) e ai rivoltosi del Bahrein (che ospita la quinta flotta USA) per consentire a queste popolazioni di rovesciare i loro regimi dittatoriali. Per Amnesty-UK, infatti, l'Arabia Saudita è il regime più oppressivo e sanguinario in assoluto, anche se partner della NATO.

In via teorica, almeno due membri del Consiglio - la Russia e la Cina - avrebbero potuto assumere la "responsabilità di proteggere" i rivoltosi civili sauditi e i bahreiniti, creando una
no fly zone sopra il Golfo per difenderli "con ogni mezzo". In via pratica, naturalmente, né la Russia né la Cina avrebbero accettato di sfidare così apertamente gli Stati Uniti, rischiando di provocare una guerra mondiale. La Cina, in particolare, preferisce tenere un profilo basso. Ma la terza petizione andava comunque inoltrata per avere col rigetto, ad uso futuro, un'ulteriore prova della volontà prevaricatrice della Francia e degli Stati Uniti, che hanno silurato le terze vie risolutive, imponendo un falso dilemma pretestuoso su un Consiglio ONU rinunciatario ed intimidito.

Siamo al dunque. Qualora tutti i paesi del Consiglio - ivi comprese la Russia e la Cina - avessero ignorato tutte e tre le nostre petizioni e, anzi, qualora avessero messo all'ordine del giorno del Consiglio la proposta franco-americana d'intervenire militarmente in Libia per salvare i ribelli bengasini (come poi è successo nei fatti), allora avremmo dovuto ammettere, alla fine, di essere stati sconfitti. Ma questo non vuol dire arrenderci e firmare la petizione per una
no fly zone. Al contrario, avremmo dovuto protestare per la partita truccata e delegare la responsabilità della scelta interamente al Consiglio di Sicurezza, tramite l'affissione in Internet di un video che ci rappresentasse con le braccia incrociate e la bocca bendata, reggendo due cartelli: "No ai massacri, No all'intervento, Sì alla zona cuscinetto UA, Sì al ponte aereo UNHAS" e poi "Consiglio di Sicurezza prevaricato!" (Il video avrebbe avuto un maggiore impatto qualora i progressisti di chiara fama si fossero fatti riprendere legati e bendati.)

Dopo di che non avremmo potuto far altro che assistere, impotenti, alla scelta che il Consiglio ha effettivamente fatto: approvare la no fly zone della NATO, salvare la vita ai 1.000 ribelli a Bengasi, e uccidere (o lasciar uccidere) altri 50.000 libici nel resto del paese, sradicare un milione di profughi e lasciar annegare nel mare Mediterraneo un migliaio di loro, distruggere le maggiori infrastrutture del paese (ma non i pozzi di petrolio), gettare nella miseria i tre quarti della popolazione e, infine, far nascere un governo finto-democratico i cui primi atti sono stati il ripristino dell'incarcerazione politica (con la tortura) e la cessione dei pozzi di petrolio alle compagnie petrolifere straniere che Gheddafi aveva cacciato dal paese quarant'anni prima. Perché questo è stato il risultato della "missione umanitaria" ONU/NATO in Libia.

In positivo, i nostri ripetuti tentativi di smontare il falso dilemma intervento o massacro sarebbero serviti a chiarire le vere responsabilità. Infatti, il rigetto delle nostre tre petizioni ci avrebbe fornito la prova - incontrovertibile - che, se il problema dei Bengasini era diventato intrattabile, non era solo perché un pazzo dittatore fosse intransigente (e lo era). Non era solo perché i ribelli - quelli prezzolati dall'Occidente - fossero intransigenti (e lo erano). Era soprattutto perché i nostri paesi occidentali - razionali e misurati - erano ferocemente intransigenti, pur di raggiungere il loro fine di intervento militare e di neo-colonizzazione. In nostro nome. Con tanto di petizione firmata da chi si è prestato al gioco. Dobbiamo ora far tesoro di questa lezione e resistere in futuro ai falsi dilemmi e alle semplificazioni politiche dei nostri mass media, soprattutto se accompagnate da immagini orripilanti di scene da ribrezzo per spingerci a dare un immediato e incondizionato assenso alle soluzioni armate.

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Riassumendo il nostro primo punto, dunque, Perriello dà per scontata l'assenza di alternative al binomio intervento o massacro e questo è già una petitio principii che invalida le sue affermazioni. Davanti ai dilemmi, anche atroci, esiste quasi sempre un ventaglio di strategie risolutive, come abbiamo visto in dettaglio nel caso della crisi libica. Né questo teorico del "pacifismo pragmatico" esamina il problema delle prevaricazioni di una delle parti - per creare l'illusione di un'assenza di terze vie - e le strategie (come quelle illustrate) per smascherare le prevaricazioni. Le tesi di Perriello appaiono studiate, dunque, per costringere il lettore a scegliere l'"intervento umanitario" come "male minore" ineluttabile - e nel compiere questa scelta mentalmente, il lettore diventa complice della violenza. Ciò lo predispone ad aderire - convinto! - agli "interventi umanitari" che avvengono nella vita reale. Le tesi di Perriello sono dunque da considerarsi sofismi anti-educativi e deleteri.

  1. In secondo luogo, Perriello sembra misconoscere gli esiti reali dei cambi di regime coatti nei paesi in cui manca una consolidata cultura democratica. In questi casi, un tiranno viene di regola sostituito con un altro, oppure con un finto democratico. Per riuscire davvero, i cambi di regime vanno mediati e gestiti lentamente dal basso (come in Sud Africa e in Sud America), non imposti dall'alto - e dall'estero - con le bombe. Ma Perriello sorvola su tutto ciò; dà per scontato che i cambi di regime manu militari occidentali portano per forza alla democrazia e ciò facendo incorre in una seconda petitio principii che svela, di nuovo, la sua malafede e l'inconsistenza logica della sua argomentazione.

  1. In terzo luogo, le tesi di Perriello costituiscono una lettura superficiale del pragmatismo nordamericano, nella tradizione di James e di Dewey. Infatti, per non ricorrere al giusnaturalismo (neanche quello evolutivo), Perriello pone la questione etica in termini meramente "pratici" (leggi "tecnologici" - ad esempio, la riduzione dei danni collaterali causati da un bombardamento) da risolvere caso per caso; non sottopone però la "legittimità" delle soluzioni ad hoc ad una verifica della loro estensione massima (il criterio di Dewey, che prende spunto da quello di Kant). Il suo "pragmatismo risolutivo" ("decisive pragmatism") dunque, non è una applicazione dell'etica elaborata dal Pragmatismo, bensì la gretta difesa di una politica di puro opportunismo.

  1. In quarto luogo - e per ultimo - Perriello non sembra vedere le disastrose conseguenze, sulla scacchiera internazionale, della cosiddetta "responsabilità di proteggere", norma giuridicamente incerta ma da lui difesa a spada tratta. E se tutti l'invocassero?

Infatti, se recentemente l'Occidente ha potuto invocare la R2P per fare interventi a danno degli interessi cinesi (in Libia) e russi (in Siria), perché in futuro la Cina o la Russia non potrebbero invocare la R2P per intervenire a fianco dei popoli oppressi dell'Arabia Saudita e del Bahrein, a danno degli interessi occidentali in questi due paesi (l'ipotesi sollevata al primo punto)? O ancora: perché alcune potenze sia dell'Est che dell'Ovest non potrebbero intervenire, tutte quante, a sostegno di un medesimo popolo oppresso? Ovviamente, armando fazioni diverse di quel popolo e pertanto provocando poi una guerra civile tra le fazioni per assumere il controllo del paese. Ad innescare la prima guerra mondiale, non dimentichiamolo, è stata proprio la rivalità tra paesi europei imperialisti per "liberare" (all'epoca si diceva "civilizzare") le stesse zone dell'Africa.

In definitiva, dunque, la cosiddetta "responsabilità di proteggere" è un vaso di Pandora. Dal momento che è tuttora soltanto un principio approvato in via teorica ma non ancora tradotto in termini giuridici, va dichiarato inapplicabile e quindi caduco.

Ma a questo punto ci troviamo di fronte ad una questione di coscienza. Pur rifiutando la R2P, non possiamo comunque restare immobili davanti al dramma dei popoli martoriati da un tiranno. In che modo intervenire, allora? L'etica di Kant (l'imperativo categorico) ci fornisce la risposta: fare per quei popoli oppressi ciò che qualsiasi paese dovrebbe fare per ogni popolo oppresso nel mondo. Ciò vuol dire, per quanto riguarda il caso della Siria, fare per i siriani ciò che vorremmo veder fatto anche per le popolazioni oppresse del Golfo (Arabia Saudita, Bahrein), persino da parte della Russia o della Cina. Ciò significa, in pratica:
  • niente forniture d'armi, zone no-fly, enclave o corridoi protetti; niente embargo; niente riconoscimento politico dei ribelli. Questi mezzi di "aiuto" ai siriani vengono rifiutati in quanto interventi perversi: consolidano o aumentano le contrapposizioni; non vorremmo vedere la Cina e la Russia usarli per aiutare i sauditi e i bahreiniti in rivolta;

  • appello a non manifestare; senza manifestanti, viene meno il bisogno di milizie armate per difenderli e diventa possibile il passaggio alla lotta clandestina e politica. E' ovvio che i regimi oppressivi cercano di fermare le lotte clandestine con uccisioni e torture. Ma non bombardano interi quartieri come in una guerra civile; non ci sono gli eccidi come in una guerra tra milizie e esercito; non c'è la catastrofe umana di centinaia di migliaia di profughi senza casa o viveri. La vita civile può riprendersi.

  • con la fine dei combattimenti, carta bianca ai padrini per avvicendare i rispettivi dittatori - la Russia in Siria (Lavrov è già d'accordo) e gli USA in Arabia Saudita e nel Bahrein (gli Stati Uniti l'hanno già fatto nello Yemen nel 2011, per sedare le anime). Nello Yemen, il cambio, pur essendo solo di facciata, ha aperto crepe nel regime, dando più spazio all'opposizione. Ciò succederebbe anche in Siria, secondo l'opposizione nonviolenta. Questo gesto simbolico potrebbe dunque servire a sgombrare il campo in vista di elezioni entro un anno - elezioni in cui siano i rispettivi popoli a decidere i propri leader, senza esclusioni o trattamenti preferenziali;

  • visite della società civile italiana, con eventuale reciprocità, e uso dei Corpi Civili di Pace. Con il cessate il fuoco, i Corpi Civili di Pace ("caschi bianchi") - europei, ma anche provenienti da qualsiasi paese in virtù dell'imperativo categorico - potrebbero offrirsi alle società civili siriana, bahreinita e saudita per compiti di: arbitrato, mediazione, riconciliazione; ricostruzione delle strutture amministrative e giuridiche; reintegrazione nella società di ex combattenti; gestione del microcredito per progetti ed attività economiche, ecc. Infine potrebbero servire come osservatori internazionali durante le elezioni.

Al posto della "responsabilità di proteggere" usando le armi, dunque, sarebbero assai più auspicabili iniziative provenienti dalla società civile.

Concludiamo: il "pacifismo pragmatico" difeso da Tom Perriello è inconsistente (punti 1, 2 e 3) e addirittura pericoloso (punto 4). Sarebbe possibile invocare invece altri principi etici che siano più consistenti e meno pericolosi - come quello di Kant, già menzionato - per definire una politica di pace che sia anche "risolutiva" dei conflitti. Ciò nonostante, la teorizzazione di Perriello si diffonde nei blog e sembra aver già raggiunto pienamente il suo scopo come "tassello" nel mosaico. Essa confonde, appunto, ideologicamente gli americani di sinistra che, subendo il suo fascino, diventano anche loro Progressisti in Divisa. I forum Internet ne sono pieni.

In Italia a teorizzare l'ideologia del Pacifismo Pragmatico sono Lorenzo Declich e Lorenzo Trombetta, giornalisti (anche di