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Il totalitarismo giuridico di Giuseppe Maggiore prefigura l’odierna democrazia totalitaria

di Francesco Lamendola - 05/10/2013




 

Il 13 luglio 1943, dopo che lo sbarco anglo-americano in Sicilia è già avvenuto con successo e meno di due settimane prima della caduta di Mussolini, Giuseppe Maggiore, filosofo e giurista siciliano di fama nazionale e internazionale (è stato apprezzato conferenziere in Germania), viene designato a presiedere il traballante Istituto nazionale di cultura fascista: lascia la moglie e la famiglia nell’isola ormai invasa, raggiunge Roma dopo due giorni di viaggio su un autocarro tedesco e assume il suo nuovo incarico che, di lì a poco, causerà la fine della sua carriera di magistrato e professore universitario.

Giuseppe Maggiore (1882-1954), il cui nome è oggi pressoché dimenticato, non era un intellettuale di secondo piano: seguace dell’idealismo gentiliano o attualismo, autore di una notevole biografia di Fichte e di svariati libri ed articoli di filosofia del diritto, magistrato e docente universitario, egli fu il più coerente, il più lineare, vorremmo dire il più coraggioso esponente di quella linea del pensiero giuridico che trasse le estreme conseguenze dalla progettata instaurazione di un ordine nuovo, in Italia e in Europa, nel quale non vi sarebbe più stato posto per le concezioni liberali dello Stato e della legge, ma tutto avrebbe dovuto subordinarsi alla forza, al prestigio e alla sicurezza dello Stato, abolendo anche la distinzione tra società e Stato e facendo coincidere le due realtà in un’unica, nuova dimensione del vivere comunitario. In breve, fu il più conseguente sostenitore del totalitarismo giuridico: una scuola di pensiero che ebbe ben altro sviluppo sia nella Germania nazista, sia nell’Unione Sovietica staliniana, e che oggi, retrospettivamente, ci sembra quasi un’anomalia nella storia della cultura italiana, forse solo perché l’esperimento politico fascista non arrivò mai a tradurre sino in fondo, nella realtà concreta, le linee-guida iniziali della sua concezione politica, assorbendo lo Stato e fondendolo con il partito.

Si trattava di un progetto che non solo da un punto di vista liberale, ma anche da un punto di vista extra-politico, e cioè etico, oggi ci appare aberrante, anche perché si manifesta come la negazione di un processo di progressiva emancipazione del diritto privato da quello pubblico, di una graduale conquista di autonomia del cittadino rispetto allo Stato: processo che non risale affatto a Locke o agli illuministi, ma al cristianesimo, al tomistico “primato della coscienza” sulle leggi dello Stato, e che aveva trovato la sua clamorosa applicazione già otto secoli prima di Tommaso, quando il vescovo Ambrogio da Milano aveva scomunicato l’imperatore Teodosio per l’eccidio di Tessalonica e gli aveva imposto di sottoporsi a una pubblica penitenza. Era stato il cristianesimo ad attuare questa “rivincita di Antigone”, se così possiamo chiamarla, ossia della legge della coscienza morale contro le pretese dello Stato e delle SUE leggi (nel caso di Antigone, la legge che negava sepoltura al cadavere di un congiunto macchiatosi di tradimento verso la “polis”); i giusnaturalisti e, poi, gli illuministi, non fecero altro che riprendere questa istanza fondamentale, trasferendola dalla sfera dell’etica religiosa a quella del bene sociale e, poi, della cosiddetta volontà generale.

Maggiore, dunque, negò recisamente che il diritto del singolo venga prima degli interessi dello Stato e che, nel dubbio, si debba considerare come insussistente ogni ipotesi di reato che la legge non preveda né sanzioni; affermando, al contrario, che, stante la sostanziale identità di società e Stato, tutto quel che possa mettere in pericolo la società, e dunque lo Stato, deve essere represso a termini di legge, anche se la legge non lo prevede formalmente: perché la legge non è qualcosa di astratto, ma l’applicazione concreta che il singolo giudice fa della volontà dello Stato e, più precisamente, del capo che governa lo Stato totalitario.

È una concezione che può non piacere, e che possiamo ritenerci fortunati di non aver visto tradursi in realtà nell’Italia di allora – cosa che fu, del resto, naturale, visto che l’Italia non divenne mai, al contrario della Germania o dell’Unione Sovietica, uno Stato totalitario -, ma che non deve per questo impedirci di ammirare la consequenzialità di chi l’ha formulata, né lasciarci ciechi di fronte al fatto che altri sistemi politici, che si dicono democratici, l’hanno poi ripresa surrettiziamente e tuttora la applicano ogni qualvolta lo ritengano necessario, senza che eminenti giuristi o parlamentari eletti per difendere i diritti del cittadino sollevino la minima obiezione.

Ha scritto Mario A. Cattaneo nel suo interessante e ben articolato saggio «Il rifiuto della certezza del diritto nel pensiero di Giuseppe Maggiore» (nel volume: M. A. Cattaneo, «Terrorismo e arbitrio. Il problema giuridico nel totalitarismo», Padova, Cedam, 1998, pp. 281-88):

 

«In Italia, l’espressione più tipica di una concezione giuridico-penale totalmente ispirata ai principi del totalitarismo, è quella contenuta nel saggio di Giuseppe Maggiore (penalista e filosofo del diritto) “Diritto penale totalitario nello Stato totalitario”, del 1939. […] Maggiore dichiara di preferire il termine “Stato totalitario” al termine “Stato autoritario”, perché quest’ultimo implicherebbe un ritorno indietro, una “reazione, restaurazione o controriforma”; il nuovo Stato deve avere un contenuto positivo, non meramente negativo. Maggiore nega il dualismo Stato-società, che “procede da motivi individualistici”; è lo Stato che crea la società […]. Il significato “ultimo” dello Stato totalitario è la totalitari età della POLITICA… La politica è la più alta e perfetta forma di attività umana.. Il secolo presente ha distrutto l’equivoco di un preteso dualismo tra morale e politica… L’avere riabilitato la politica svalutata e vilipesa in nome di una malintesa morale ascetica… è merito del Machiavelli, iniziatore del mondo moderno; l’avere elevato la politica nobilutandola alla luce del dovere e dell’onore, al sommo dell’attività umana, è merito del capo della più grande rivoluzione del secolo XX: Mussolini”.  La rivoluzione totalitaria, dice Maggiore, alla “inseparabilità” tra diritto e politica; egli critica il precedente “divorzio tra politica e diritto”, che ha portato a concepire come “diritto puro” solo il diritto privato […]. Vi è una stretta correlazione tra tipo di diritto penale e forma politica di governo: “L’illuminismo, con il suo antistoricismo e la fede sconfinata nel progresso, con il culto feticistico della libertà, la sopravvalutazione dell’individuo, col mito del contratto sociale, con il sospetto verso ogni forma di autorità, prima di tutte quella statale… si riproduce nella costruzione del diritto penale moderno, dal Beccaria ai tempi nostri. […] Infine, Maggiore esamina il problema del rapporto tra la legge e il giudice penale; egli criticava il tradizionalismo illuministico, influenzato dalla teoria della divisione dei poteri, che domina a questo riguardo. Le funzioni, egli riconosce, sono distinte, ma “il potere dello Stato è uno e indivisibile”; Maggiore dichiara quindi di non rigettare “la teoria della divisione dei poteri”, ma la impostazione individualistica di essa”. […] “Il principio nullum crimen, nulla poena sine lege poenali si leva come una muraglia insormontabile avanti l’interprete e appare come il Palladio inviolabile della giustizia”. […] Per Maggiore, lo Stato totalitario non può tollerare la persistenza di quel principio, perché “non può tollerare alcun limite alla sua attività” e non può “consentire a esautorarsi, quando quell’autorità è diretta alla persecuzione della delinquenza”. La legge non sta sopra lo Stato, ma è espressione della sua volontà.  Ora, di fronte a un fatto nuovo che “sia SOSTANZIALMENTE, ma non FORMALMENTE, reato, perché non incriminato da nessuna disposizione di legge… lo Stato liberale… se ne starà inoperoso paralizzato nell’ordinamento giuridico che gli comanda: nec plus ultra… lo Stato totalitario comanderà, invece, ai suoi giudici di punire, creando essi la norma mancante”. Di fronte all’obiezione che in tal modo si cade nell’arbitrio del giudice, Maggiore ribatte: “[…] Abolito il principio: nullum crimen, nulla poena sine legge, il giudice non porrà il suo criterio personale, e forse il suo capriccio, al di sopra dello Stato… Il giudice non sbaglierà mai, né farà un uso arbitrario della sua potestà, quando, interpretando la volontà, sia pure formalmente inespressa, dello Stato e del suo capo, castigherà il delinquente che si ribella contro lo Stato. In caso di incertezza del diritto egli si accosterà al principio: in dubio pro repubblica, che prende il posto, nello Stato totalitario, dell’antico: in dubio, pro reo. […] Il principio della certezza del diritto, a suo giudizio, non è compromesso, perché “va inteso nello stile della Rivoluzione”. Per i regimi totalitari “certezza del diritto” è la sicurezza della società politica di non vedere annullate le conquiste della rivoluzione e di non vedere il furfante commettere ogni sorta di ribalderie all’ombra della legge e quasi ai margini del codice penale”. Maggiore cita con favore i regimi sovietico e nazionalsocialista che hanno introdotto l’interpretazione analogica, e conclude: “Il divieto dell’espansione analogica della legge penale… ha radici nel diritto canonico che considerò la legge penale come lex odiosa o nel falso umanitarismo illuministico che deificò la libertà dell’individuo. Per lo Stato totalitario, invece, erede dello spirito di Roma, l’analogia è una interpretazione necessaria del magistero punitivo. Così il diritto penale diviene veramente totalitario”. […] In ogni modo, il rovesciamento dei principî del liberalismo giuridico compiuto da Maggiore è davvero totale: la certezza del diritto – intesa come tutela dei diritti individuali e della prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle proprie azioni – è sostituita dalla idea della “sicurezza dello Stato”; a questo si aggiunge il rifiuto del principio di presunzione di innocenza, attraverso la sostituzione del motto: in dubio pro re publica a quello: in dubio pro reo (sulla stessa linea di Carl Schmitt). L’esposizione della dottrina giuridico-penale totalitaria è davvero completa e coerente.»

 

Si noti la modernità (dove “moderno” non esprime un giudizio di valore, ma un dato di fatto) della concezione secondo cui lo Stato totalitario punisce anche quegli atti che non sono formalmente reati, ma che, nella sostanza, vanno a ledere gli interessi vitali della società, mentre lo Stato liberale sta a guardare; e si pensi a come questo principio, che sovverte radicalmente le norme del diritto penale così come lo conosciamo da sempre, venne clamorosamente applicato dal tribunale di Norimberga, contro gli imputati nazisti, da giudici che si vantavano di rappresentare le nazioni democratiche (Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia), oltre che da quelli dell’Unione Sovietica, cioè di uno Stato – al pari della sconfitta Germania hitleriana – esplicitamente totalitario. Che altro fu, infatti, se non una applicazione di questo principio, l’aver processato, giudicato e condannato gli imputati per dei crimini che, all’epoca in cui si erano svolti i fatti, non erano considerati come reati in alcuna costituzione vigente, a cominciare dai cosiddetti “crimini contro la pace”, nel senso di aver preparato dei piani strategici per la guerra (cosa che, sia detto fra parentesi, tutti gli Stati fanno in tempo di pace, perché su questo si basa l’esistenza degli eserciti permanenti)?

Questa è una ulteriore conferma di una realtà che generalmente passa inosservata, a dispetto del fatto che si tratta della NOSTRA realtà, nella quale viviamo, lavoriamo, operiamo: negli Stati democratici non vige il principio (liberale) della presunzione di innocenza, ma, sempre più spesso, il principio totalitario della presunzione di colpevolezza; è il singolo cittadino che deve, all’occorrenza, difendersi dall’accusa e provare la propria innocenza – come era stato profeta, in questo, Franz Kafka!  E tutto questo ha un nome: si chiama totalitarismo democratico, e accomuna le moderne “democrazie” ai regimi totalitari del XX secolo, piuttosto che a quello Stato liberale che, se mai è esistito, esse a torto pretendono di incarnare e, magari di aver perfezionato, mentre ne sono, di fatto, la radicale negazione.

In pratica, comunque, la pretesa di Maggiore che il diritto totalitario possa correggere, e non sopprimere, il principio della certezza del diritto, urta contro uno scoglio inevitabile: e cioè, anche restando all’interno del suo punto di vista – quello totalitario -, contro il fatto che la decisione di cosa sia reato e di cosa non lo sia, nei casi “dubbi”, ricadrà interamente sulle spalle del singolo giudice, il quale dovrebbe avere la sfera di cristallo per sapere quale sia la “vera” volontà dello Stato, o anche solo del suo capo, laddove, per forza di cose, egli dovrà procedere a tastoni, e dunque in maniera arbitraria, ma in ogni caso tendenzialmente sfavorevole all’imputato («in dubio, pro republica»), se non si lascerà addirittura trasportare da umori e interessi personali, ammantandoli con l’autorità dello Stato che egli rappresenta e con la difesa degli interessi collettivi.

Pure, non sarebbe onesto negare che, nelle argomentazioni di Maggiore, vi siano anche degli aspetti che richiamano la nostra partecipe attenzione, se non anche la nostra simpatia e il nostro consenso. Per esempio, quando egli punta il dito contro la concezione illuminista che forma il substrato della moderna concezione giuridica, e specialmente contro l’esaltazione esagerata della libertà individuale o la fede sconfinata nel progresso – foriere entrambe, come oggi sappiamo e purtroppo vediamo, di una nuova e più sottile forma di totalitarismo -, il suo discorso assume toni e significati che richiamo la nostra attenzione su dei problemi reali, ai quali non si può sottrarsi, né fare finta che non esistano, perché ci stringono più che mai nelle spire delle loro molteplici e incancrenite contraddizioni.

È vero, come onestamente riconosce Maggiore, che le radici del diritto moderno, illuminista e liberale, risiedono nella cultura giuridica cristiana medievale e specialmente nel diritto canonico. Tuttavia bisogna aggiungere che ciò che, nella cultura cristiana medievale, aveva una coerenza e un preciso significato, perché trovava in Dio la fonte suprema di ogni legge, sia morale che civile, aveva perso invece ogni senso e ogni coerenza nel pensiero illuminista, perché questo aveva messo fra parentesi il legame fra uomo e Dio – o, meglio, l’aveva svuotato di ogni vigore e di ogni vitalità, perché il Dio del deismo è una caricatura di quel che Dio era stato per generazioni e generazioni di Europei; e, inoltre, perché la teoria dello Stato laico, propugnata da Hobbes e ripresa dal liberalismo, aveva reciso alla base il legame organico fra società civile e comunità religiosa, fra Città terrena e Città celeste .

In altre parole: se si può parlare, ma in un contesto completamente diverso da quello moderno, di totalitarismo giuridico della società cristiana medievale, bisogna però precisare che esso fu tale in un quadro culturale e sociale che non ammetteva altre concezioni possibili, se non quelle che avrebbero aperto la strada alla dissoluzione e all’anarchia; mentre il totalitarismo giuridico propugnato da uomini come Maggiore, e mai realizzatosi in Italia – per fortuna, aggiungiamo noi – sta oggi divenendo, ma in forme striscianti e sostanzialmente ipocrite, la prassi “normale” dei sistemi democratici: quelli che hanno combattuto e vinto la seconda guerra mondiale, sostenendo essersi trattato di una crociata per la civiltà contro la barbarie.

E, se qualcuno avesse dei dubbi in proposito, non ha che da fare un viaggio a Guantanamo: dove i nemici della sicurezza dello Stato («i più malvagi tra i malvagi», diceva il presidente Bush junior) scontano, in minuscole gabbie di metallo aperte su ogni lato e illuminate notte e giorno, il funesto principio che, in caso di dubbio - e alcuni di quei prigionieri sono presumibilmente, in senso giuridico, innocenti -, deve prevalere l’interesse dello Stato, non certo la tutela della persona umana.