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L’itinerario della mente a Dio di San Bonaventura vertice rarefatto del misticismo medievale

di Francesco Lamendola - 08/10/2013


C’è stato un tempo, ed è durato più di un millennio, in cui un uomo che avesse detto di non aver mai udito il richiamo di Dio e di non essersi mai rivolto a Lui, avrebbe destato stupore, incredulità, diffidenza, uniti, forse, a un profondo senso di compatimento; poi è venuto un tempo, ed è il nostro, in cui quel tale uomo è divenuto legione, ed è chi dice d’essere in relazione con Dio a vedersi fatto oggetto di curiosità poco benevola, se non di aperta antipatia e di esplicito disprezzo.

Per secoli e secoli gli uomini hanno pregato: non solo in chiesa, ma nelle case, prima di iniziare la giornata, prima dei pasti e prima di coricarsi, alla sera; nei campi, interrompendo il lavoro agricolo, allorché udivano il suono lontano delle campane; al camposanto, dove si recavano a dare un saluto ai loro cari passati nell’altra vita. Pregavano prima di fare un viaggio e pregavano quando arrivavano: chiedevano l’aiuto di Dio per affrontare fatiche e pericoli e poi lo ringraziavano per averlo ricevuto ed essere giunti, sani e salvi, là dove erano diretti. Pregavano quando andavano in guerra e quando si ammalavano; pregavano per guarire, se possibile; e, se no, per morire bene, per fare una buona morte.

Per secoli e secoli, oltre alla preghiera di richiesta, di ringraziamento e di lode, uomini e donne dalla spiritualità più profonda hanno cercato l’unione con Dio attraverso lo studio, l’ascolto, la meditazione, l’estasi mistica; per secoli e secoli, uomini e donne eccezionali, capaci di donarsi interamente a Dio e di trasfondere tutta la loro anima nella ricerca di Lui, si sono sforzati di annullare il loro io, i loro desideri, le loro paure, i loro stessi pensieri, per giungere a quello stato di “vuoto” della mente, a quella purezza dell’anima, a quella perfetta passività che corrisponde alla massima ricettività verso l’Assoluto, alla massima capacità di accoglienza del divino.

Queste pratiche di meditazione, sovente accompagnate da digiuno, orazione, lavoro disinteressato, fatto non per se stessi ma per gloria di Dio e in favore della propria comunità monastica, sono esistite da tempi immemorabili anche in Asia, di qua e di là della catena himalaiana; il pubblico occidentale le ha riscoperte, ammirandole e imitandole, da pochi decenni, ma si è dimenticato, o non si è accorto, che esse sono sempre esistite anche in Europa e che sono tenute vive, tuttora, da uomini e donne generosi, i quali, nell’incomprensione o nell’indifferenza totale della società, sono rimasti fedeli al sentiero della ricerca mistica.

È come se lo spirito occidentale moderno volesse rinnegare le proprie radici, fare “tabula rasa” della propria storia, pur di sradicare anche il ricordo delle proprie origini cristiane: ragion per cui è disposto a correre dietro a tutte le mode, a tutte le sette, a inseguire tutte le pseudo-religioni e tutte le pseudo-filosofie esotiche (o ibride), ma non a riconoscere il proprio debito con la religione che ha reso possibile la sua nascita, che lo ha allevato, che lo ha nutrito. Quando il figlio diventa adulto, è giusto che lasci la casa dei suoi genitori e vada per la sua strada; ma non c’è alcun bisogno che lo faccia con astio, con rancore, sbattendo la porta, come se da quei genitori non avesse ricevuto altro che del male. Tale, invece, è divenuto l’atteggiamento della civiltà occidentale moderna verso le proprie radici cristiane: non solo le ha rinnegate, ma le ha misconosciute; non solo ha smesso di pregare, ma ha dichiarato che la preghiera è una forma di alienazione mentale; non solo ha voltato le spalle a Dio, ma ha proclamato, con Freud in testa, che Dio è il prodotto di una nevrosi da infantilismo. Eppure vi sono dei tesori di sapienza, di bellezza, di spiritualità nella tradizione del misticismo cristiano, dai quali l’uomo moderno, afflitto da mille nevrosi – quelle sì, autentiche e dolorosamente reali – potrebbe trarre forza e speranza, e nei quali potrebbe placare la propria sete tormentosa.

Prendiamo il caso di San Bonaventura da Bagnoregio, al secolo Giovanni Fidanza (nato verso il 1220 e morto nel 1274), che è stato uno dei più grandi mistici dell’Europa medievale, ma, al tempo stesso, un grande filosofo e un grande teologo – al punto da essere chiamato “Doctor Seraphicus” -, insegnante alla Sorbona e amico di Tommaso d’Aquino. Fu per diciassette anni ministro generale dei Francescani e si può considerare egli stesso quasi un secondo fondatore di questa straordinario ordine mendicante.

Bonaventura è stato, dunque, un mistico, ma anche un robusto pensatore, oltre che un uomo di vastissima dottrina: cosa che il grande pubblico non sa o sa poco e male, anche perché i professori di filosofia, nei licei e all’università, sono perennemente affannati a spiegare Galilei, Marx e Freud – i quali, con la filosofia, c’entrano poco o niente – e tendono a presentare agli studenti il Medioevo come un’epoca di profonda ignoranza e di ridicole o sanguinose superstizioni; un’epoca in cui, praticamente, non si faceva filosofia, non si pensava, non si faceva indagine razionale, perché tanto c’erano i dogmi della religione e bastava seguir quelli, per guadagnare la salvezza eterna; oppure come un’epoca in cui i filosofi, se c’erano, si fermavano ai primi passi della ricerca, per timore di offendere un Dio geloso dell’intelligenza umana. Logico che quei professori facciano così: sono convinti essi stessi che il “vero” pensiero sia sorto con la modernità; che, prima della Rivoluzione scientifica e del razionalismo cartesiano, ci furono secoli e secoli di deserto intellettuale, almeno fino a che non ci si riaggancia alla filosofia greca; e, se parlano di misticismo, nella loro bocca questa parola si carica immediatamente di una accezione negativa, diventando, più o meno, sinonimo di fuga dal mondo, di alienazione, di rifiuto dell’intelligenza, dei doveri sociali, della vita attiva e, soprattutto, produttiva.

Infatti, nella cultura oggi dominante, l’importante è produrre: fare, manipolare, creare sempre nuove macchine e sempre nuove tecnologie, investire e reinvestire denaro, moltiplicare i capitali, incrementare i consumi, dominare le cose, piegarle alla logica del massimo profitto. Rutilio Namaziano, l’ultimo poeta pagano, che se la prendeva coi monaci e con la vita ascetica e vedeva in essi, oltre che nei barbari, la causa del crollo dell’Impero romano, oggi sarebbe soddisfatto: i nipotini di Machiavelli, di Carducci, di Nietzsche, gli spregiatori della contemplazione e della mistica, in nome della “vita” (come se praticare la contemplazione fosse negare i diritti della vita), hanno avuto partita vinta, anche se ci hanno messo parecchi secoli per debellare l’avversario. Oggi quasi nessuno, nel grande pubblico, conosce i nomi di Ildegarda di Bingen o di Meister Eckhart; in compenso, non c’è uomo o donna della strada che  non sappiano e ripetano, all’occorrenza, le amene sciocchezze della mela di Newton o l’improbabile «eppur si muove» di Galilei, eroe e martire del libero pensiero laico.

Bonaventura, dunque, non disdegnava affatto l’indagine razionale; concentrò, anzi, i suoi sforzi di pensatore nel cercare una conciliazione fra la ragione e la fede, rendendosi conto dell’importanza di entrambe e riconoscendo pienamente la dignità della prima; ma sempre nella convinzione che è la luce di Cristo cad illuminare il sapere umano e che, pertanto, ogni singola scienza deve lasciarsi guidare dalla rivelazione, senza la quale l’uomo non può raggiungere la Verità in se stessa, perché la Verità ultima è Dio.

Nel suo trattato «Itinerarium mentis in Deum» («Itinerario della mente a Dio»), egli, in linea con la tradizione platonico-agostiniana, sostiene che la filosofia può guidare l’uomo a rientrare nella propria anima, perché solo così, rientrando nella propria anima, l’uomo è capace di accostarsi a Dio, sorgente luminosa di tutte le cose e di tutto il nostro sapere. Il viaggio delle creature umane verso Dio, peraltro, non può essere coronato da successo se non è illuminato dalla grazia, se non è affrontato con la necessaria umiltà, se non è aperto alla dimensione del “vuoto” interiore. Perché la conoscenza delle cose materiali viene dai sensi, ma la conoscenza delle cose ultime, la conoscenza del divino, viene dall’alto, e si attua, attraverso i sensi interni, nel silenzio e nello splendore dell’anima illuminata dallo Spirito Santo.

Egli immagina che,  nell’ascensione dell’anima verso Dio e nella contemplazione di Lui,  esistano diversi gradi o livelli, i quali si succededono, per così dire, seguendo le Sue orme impresse nell’universo: quello esteriore, quello interiore, quello eterno; gradini che non possono essere percorsi senza il divino aiuto. Si parte dalla contemplazione di Dio nelle sue orme in questo mondo sensibile; si procede alla contemplazione di Dio attraverso la Sua immagine che si rispecchia nell’anima umana; poi si prosegue con la contemplazione di Dio così come essa si riflette nell’anima riabilitata dal dono della grazia, e quindi divenuta infinitamente più luminosa e pura; infine si tende alla contemplazione di Dio in se stesso, l’Essere da cui tutto ha origine. Siamo ormai giunti a salire gli ultimi gradini: l’anima contempla il mistero della santissima Trinità, poi quello della duplice natura di Cristo, umana e divina. Un meraviglioso riflesso di questa concezione si trova nell’ultimo canto della «Commedia» dantesca, il più arduo e, probabilmente, il più squisitamente poetico: eppure quei tali professori - non di filosofia, stavolta, ma di letteratura - pensano di poter leggere e capire la «Divina Commedia» e, quel che è peggio, di poterla spiegare e far comprendere ai loro studenti, ignorando del tutto la dimensione religiosa, spirituale e mistica della poesia dantesca e limitandosi alla dimensione estetica o, tutt’al più, a quella psicologica.

Ed eccoci al settimo livello della meditazione di San Bonaventura, come lo traccia egli stesso nell’ultimo capitolo del suo trattato (da: San Bonaventura, «Itinerario della mente a Dio», a cura di Lucia Nutrimento, Treviso, Libreria Editrice Canova, 1956, pp. 121-25):

 

«Siamo passati per queste sei considerazioni come per i sei gradini del trono del vero Salomone, pei quali si giunge alla pace, dove il vero pacifico riposa nella pace dello spirito come nell’interiore Gerusalemme; come per le sei ali del Cherubino, dalle quali la mente del vero contemplativo, piena del lume della superna sapienza, è portata in alto; come per i primi sei giorni, durante i quali la mente deve lavorare per giungere finalmente al sabatismo della quiete. Dopo che la mente nostra ha guardato Dio fuori di sé attraverso le orme e nelle orme, dentro di sé attraverso l’immagine e nell’immagine, sopra di sé attraverso la similitudine della luce divina splendente sopra di noi, e nella luce stessa per quanto è possibile nella nostra condizione di pellegrini e col lavoro della nostra mente, - quando finalmente è giunta, nel sesto grado, a guardare in Gesù Cristo, Principio primo e sommo e mediatore di Dio e degli uomini, tali cose che simili nelle creature mai non si possono ritrovare e che eccedono ogni perspicacia dell’umano intelletto, questo solo le resta, che tali cose guardando, trascenda e oltrepassi non solo questo mondo sensibile ma anche se stessa. In tale passaggio Cristo è via e porta, Cristo è scala e veicolo, come propiziatorio collocato sull’arca di Dio, e mistero nascosto dai secoli.

Chi si volge a questo propiziatorio e con volto intento tutto si affissa a lui sospeso in croce, con la fede, la speranza e la carità, la devozione, l’ammirazione, l’esultanza, l’apprezzamento, la lode, il giubilo, fa con lui la pasqua, cioè il passaggio, e mercé la verga della croce passa il mar Rosso, dall’Egitto entrando nel deserto, dove gusterà la manna segreta, e con Cristo riposa nel sepolcro, come esteriormente morto, sentendo però,  per quanto nel presente pellegrinaggio è dato sentire, quel che fu detto in croce al ladrone vicino a Cristo: “Oggi sarai meco in Paradiso”. Questo sperimentò il beato Francesco, quando nel rapimento della contemplazione, sul monte eccelso (dove meditai le cose che qui sono scritte) gli apparve il Serafino dalle sei ali confitto in croce (come in quel luogo io ed alti non pochi udimmo  dal suo compagno che era con lui in quel momento), e dall’intimità dell’estasi passò in Dio, e divenne modello della perfetta vita contemplativa, come prima lo era stato della attiva,  quasi modello Giacobbe mutato in Israele, affinché per mezzo suo Dio invitasse, con l’esempio meglio che con la parola, tutti gli uomini veramente spirituali a simile passaggi, e al rapimento dell’estasi.

In tal passaggio, perché sia perfetto, bisogna che si lascino tutte le attività spirituali e che il sommo dell’affetto tutto si trasferisca e si trasformi in Dio. Un tale stato è mistico e misteriosissimo e   lo conosce se non chi lo sperimenta, e non lo sperimenta se non chi lo desidera, e non lo desidera se non chi è infiammato entro le midolla dal fuoco dello Spirito Santo, che Cristo mandò in terra; epperò dice l’Apostolo che tale sapienza mistica è rivelata dallo Spirito Santo.

Poiché dunque ad acquistarla nulla può la natura, poco l’industria umana, poco bisogna concedere all’indagine e molto all’unzione, poco alla lingua e moltissimo all’interna letizia. Poco alla parola e allo scritto e tutto al dono di Dio, allo Spirito Santo; poco o niente alla creatura e tutto all’essenza creatrice, al Padre, al Figli, allo Spirito Santo […].»

 

«Un tale stato è misteriosissimo e non lo conosce se non chi lo sperimenta»: sono parole che si trovano in tutta la tradizione mistica, quella d’Occidente come quella d’Oriente; parole che potrebbero essere di Sankara o di Patanjali - e, in questo caso, manderebbero in visibilio quei tali professori, benché ignorantissimi, quasi sempre, di filosofie orientali – ma che, venendo “solo” da un Bonaventura, essi non si prendono il disturbo di far leggere ai giovani studenti.

«Mistero»: ecco una parola che non piace alla nostra cultura, da quando, come osserva acutamente Gabriel Marcel, i misteri sono stati degradati e ridotti a problemi, cioè a qualcosa di puramente umano, d’intellegibile e di risolvibile, presto o tardi. Così come non piace il concetto che, per comprendere la verità di una esperienza mistica, bisogna averla sperimentata: perché i nostri bravi scientisti sono arciconvinti che solo le cose sperimentabili in laboratorio, in condizioni oggettive, costanti e controllate, siano suscettibili d’esser dichiarate, eventualmente, vere; ma le cose sperimentate nel silenzio dell’anima, via, siamo seri! E poi, l’anima: che cosa è? Qualcuno l’ha vista, qualcuno ne ha fatto esperimento? No? E allora, per piacere, signori mistici, smettete di parlarcene: quel che avete da dire non si accorda con i criteri della scienza moderna, dunque non c’interessa…