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Se lo spirito viene meno alla propria libertà nella verità, si ammala e inaridisce

di Francesco Lamendola - 03/11/2013

 

 

 

 

Lo spirito è libertà: se così non fosse, lo spirito non sarebbe spirito, cioè non sarebbe se stesso: perché solo nella libertà lo spirito può attuarsi; ove regna la necessità cieca, lo spirito è in esilio – o scompare.

D’altra parte, non una libertà qualsiasi caratterizza la vita dello spirito, ma solo il retto esercizio della libertà, che è – né potrebbe essere diversamente - tensione verso la verità; ogni altro esercizio della libertà sarebbe illusorio. La verità essendo suprema garanzia di giustizia, vere sono le cose che ad essa si adeguano, che essa ricercano, che verso di essa si protendono; vera è la bellezza, vera la bontà, vera la libertà che in essa trova la propria destinazione e la propria ragione ultima, la propria causa finale. Una libertà che neghi la propria relazione primaria, ontologica, con la verità, non sarebbe libertà, ma disordine; e così pure una libertà che non abbia di mira il riconoscimento e la realizzazione della verità, ma la mera soddisfazione di bisogni soggettivi e di esigenze contingenti.

La vita dello spirito è libertà perché è evoluzione, scelta e rischio: solo ciò che è libero può evolvere (o involvere), può scegliere e può mettersi in gioco, rischiando; uno spirito che rimanesse sempre uguale a se stesso, che non avesse facoltà di scelta, né possibilità di rischio, sarebbe uno spirito pietrificato: vale a dire che non sarebbe uno spirito, ma una cosa inerte, un cadavere.

L’evoluzione dello spirito è quella da forma a persona, come già indicato, tra gli altri, dal filosofo Romano Guardini: la forma che distingue lo spirito dalle altre forme, la persona che corrisponde alla conquista della personalità da parte di se medesima, ossia all’autodeterminazione della forma in una struttura cosciente, volitiva, tendente ad un fine razionale che ad essa è connaturato. Tale fine non può essere che la verità, e il mezzo idoneo per tendere ad essa non può essere che l’esercizio della libertà. Ora, la libertà implica la scelta e, con essa, la possibilità dell’errore, dunque il rischio. Non si tratta semplicemente di una possibilità di errore generico, ma di una possibilità di errore concreto e determinato, da cui dipende la coesione e la conservazione dello spirito in quanto spirito, cioè della persona in quanto tale. Diamo infatti questa definizione di persona: uno spirito libero e cosciente, dotato di volontà e capace di auto-trascendimento, mirante alla realizzazione del proprio fine, che è la verità.

Ma che cos’è, a sua volta, la verità, dal punto di vista della persona? La verità è la condizione senza la quale la persona non si realizza, né si potrebbe realizzare; la condizione solo mediante la quale la persona si adempie, e giunge alla propria pienezza, alla propria maturazione e alla propria fioritura; la verità è la verità della persona presente a se stessa e, nello stesso tempo, la garanzia di tale presenza e di tale realizzazione.

Non può essere, quindi, un fattore interno alla persona stessa, o, almeno, non solo all’interno di essa; deve trattarsi, per poter svolgere la funzione di garante della verità della persona, di un elemento che la trascende. Ora, ciò che trascende la natura ontologica della persona, che la trascende – cioè – non accidentalmente o temporaneamente, ma che la trascende strutturalmente e funzionalmente, non può consistere che nell’Essere. L’Essere, infatti, è il punto di congiunzione tra l’essere finito della persona e il rapporto che questa tende a stabilire con la verità, cioè con una realtà stabile e permanente ad essa intimamente collegata e da cui trae garanzia di autenticità: e tale realtà non può essere un altro spirito finito, né, tanto meno, un concetto ipostatizzato, come lo sono il Bene, il Bello o il Vero nella filosofia platonica. Non può trattarsi che dell’Essere incondizionato, dell’Essere come fonte della realtà, di tutta la realtà esistente e anche di quella possibile, pensabile e intellegibile, ma non esistente o non attualmente esistente. Il rapporto della persona con l’Essere, dunque, è un rapporto necessario, perché senza di esso la persona non si realizza in quanto tale; ed è un rapporto vero, perché, in quanto necessario, è anche un rapporto imprescindibilmente attuale. L’ente che vive esclusivamente nella propria finitezza, lo spirito che non cerca altro al di fuori di se stesso e che si appaga unicamente di quanto può reperire al proprio interno, vive in una dimensione transitoria e contingente: il suo essere è un essere fuggevole e aleatorio, un essere che non matura, che non giunge alla pienezza.

Lo spirito, però, non può vivere e conservarsi in equilibrio con se stesso, se vengono negate e recise le radici che lo legano all’Essere: se questo avviene, è fatalmente destinato ad ammalarsi, a deperire, a intisichire. La malattia dello spirito è la rimozione del suo rapporto necessario con l’Essere, che corrisponde al suo allontanamento della verità e al fraintendimento o al cattivo uso che esso fa della libertà.

Di fatto, la libertà spirituale può essere fonte di grazia, ma anche di maledizione: perché l’uso improprio o negativo della libertà corrisponde, per lo spirito, al suicidio, ossia alla negazione della propria sostanza interiore e della propria ragion d’essere. Un essere che non ambisca a ricongiungesi con l’Essere, infatti, sarebbe come un fiume che rifiuti di volgere la propria corrente verso il mare, che rifiuti di mettere le proprie acque a disposizione della circolazione globale delle acque terrestri. Sarebbe un fiume malato, destinato a perdersi sterilmente tra le sabbie del deserto, senza aver reso un servizio utile ad alcuno, neppure a se stesso.

Eppure, tale è la condizione dell’uomo moderno: uno spirito libero che ha abusato della propria libertà, che ha inaridito le proprie radici, che ha bruciato la propria linfa vitale; che, appagandosi della propria finitezza, ha negato se stesso in quanto spirito, e ha mancato di realizzarsi in quanto persona. Il cattivo uso che egli ha fatto della propria libertà si è ritorto contro di lui, lo ha castigato nel suo orgoglio, impoverendo la sua autentica umanità.

Ha scritto a questo proposito Silvano Scalabrella nel suo saggio «La struttura ontologica della persona nel pensiero filosofico di Romano Guardini» (in «Cultura e scuola», rivista trimestrale dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, n. 97,  gennaio-marzo 1986, pp. 18-20):

 

«Il Guardini individua tre momenti del processo di auto appartenenza: a) “una sempre più forte spiritualizzazione di elementi materiali”; b), “nuovi gradi di valore nelle forme strutturali e attuali (l’intima potenzialità d’un fenomeno)”; c), “finalmente e via via in misura crescente, coscienza, libertà e personale auto appartenenza”. […]

Riguardo alla personalità, la coscienza  ha ancora il significato di coscienza sensibile-intelligente-volitiva: non è ancora la coscienza razionale, in atto liberamente deliberante circa un mondo. Allora, “persona significa che io, nel mio essere, in definitiva non posso venir posseduto da nessun’altra istanza, ma che mi appartengo”. Ed ancora: persona dice l’orientamento dello spirito che decide riguardo ai valori, finali alla verità; se lo spirito “decade dalla verità, s’ammala”. Il concetto è agostiniano. L’appartenenza al valore non designa l’appartenenza  dello stesso valore allo spirito; il contenuto del valore, cioè, è sempre contenuto dell’atto libero dello spirito: il valore è determinato dalla libertà. Ora, se lo spirito, nelle sue determinazioni reali, vien meno alla propria libertà finale al vero, allora si ammala. Non può autodistruggersi, perché esso ha ricevuto il suo essere e non lo ha causato: rinnegando il valore, si converte al nulla. L’atto non può essere distrutto dalla volontà che nega il valore originario e finale; pertanto lo spirito vota se stesso alla decadenza, perde il proprio essere, senza però cessare dal perseguire il proprio fine ultimo. La persona assume il mondo come proprio compito etico; se devia si ammala: conserva la sua potenza, ma senza un ordine. […]

Per il Guardini l’elemento decisivo circa il significato di persona è l’amore. “Amore significa vedere la forma del valore nell’esistente distinto di continuo da sé, soprattutto se personale; intuire la sua validità… Chi ama passa di continuo nella libertà; nella libertà dalle sue vere catene, cioè da se stesso.”. L’essenza della persona risiede allora nella libertà da tutto ciò che impedisce all’uomo di stare in se stesso…»

 

Le catene della persona, dunque, risiedono nella persona stessa, allorché essa dimentica o fraintende la propria destinazione e il proprio scopo, il proprio significato e il proprio destino, che è quello di riconoscere il suo legame ontologico con l’Essere da cui deriva e in cui soltanto potrebbe trovare il suo vero e completo appagamento. Quando la persona si crede autosufficiente, quando si crede separata, quando pensa di esistere per se stessa, allora essa tradisce la propria natura profonda, che è libertà per la verità, cioè per la realizzazione di valori e non per disperdersi nella rincorsa di beni apparenti e di oggetti secondari; solo allorché riconosce il proprio legame originario con l’Essere essa si realizza secondo verità e secondo giustizia, cioè conformemente alla propria natura.

Ne deriva che l’uomo moderno, sedotto da cattive filosofie e ubriacato da un senso illusorio di libertà, che lo ha allontanato da se stesso, si è affidato a potenze di natura infera, le quali lo trascinano verso il basso e lo espropriano del suo essere autentico; forze che, nel medesimo tempo in cui lo lusingano, lo carezzano e lo illudono, tendono però a devitalizzarlo, a indebolirlo, a dissolverlo. E, di fatto, la società odierna è popolata da una folla sterminata di simili persone mancate, di simili spiriti incompiuti, confusi e traviati, che hanno smarrito la strada e che non odono più il richiamo dell’Essere, perché hanno gli orecchi pieni del canto delle sirene dell’autosufficienza e della separatezza.

Si noti che il movimento dialettico dello spirito si realizza in tre tempi. In un primo tempo esso si determina come persona, si afferma in quanto spirito individuale, si riconosce in quanto dotato di autocoscienza, di volontà e di libertà. In un secondo tempo si apre alla pienezza dell’Essere, cioè riconosce il proprio destino sopra-sensibile, la propria vocazione soprannaturale, nella scelta e nell’atto, o nella serie di atti, mediante i quali realizza la propria libertà. Nel terzo tempo esso si fonde con l’Essere, scompare come persona, si dissolve come individualità: la quale ultima, se ha un senso e un valore nella fase dell’auto-riconoscimento, non ha più senso, né valore, nel momento in cui rischia di diventare un inciampo, uno schermo e una barriera nei confronti del destino finale dello spirito, che è quello di auto-trascendersi, lasciando cadere l’illusione della propria autosufficienza e, dunque, della propria separatezza. Ma non sarebbe possibile, per lo spirito, lasciar cadere tale illusione, se prima non si realizzasse nella propria auto-affermazione: quindi, ciò che è un passo necessario, e dunque un bene, nella prima fase dialettica della vita spirituale, diventa una zavorra da abbandonare nell’ultima fase, quando si tratta di coronare il lavoro fatto per tendere alla verità e di liberarsi anche del fardello della persona.

La persona, in ultima analisi, non è l’obiettivo finale cui mira la vita dello spirito: è soltanto un passaggio, fondamentale ma pur sempre destinato ad essere superato. È come se la goccia dovesse riconoscersi in quanto goccia, prima che il suo assorbimento nell’acqua del mare la dissolva in quanto tale (ma le permette di continuare a esistere in un’altra modalità del proprio essere, non più percepibile con i sensi ordinari); senza di ciò, il suo dissolversi nell’acqua del mare perderebbe ogni significato e ogni valore, diventerebbe un atto meccanico e subito dall’esterno, non un atto liberamente scelto e voluto.

Quando lo spirito punta a realizzarsi nella verità, diventa questione centrale quella di scegliere il proprio destino con un atto volontario, che corrisponde al più alto grado di libertà, proprio perché equivale al riconoscimento di un’intima e imprescindibile necessità. Si tratta di una necessità in senso oggettivo, ma di una libera scelta in senso soggettivo: questo, almeno, è l’unico modo di rendere un tale concetto, per quanto sia un modo approssimativo e linguisticamente insoddisfacente. Quello che, considerato da un certo punto di vista – quello del contingente – è un esercizio di libertà, considerato da un altro punto di vista – quello del’assoluto – corrisponde, senza residuo alcuno, ad una piena e totale necessità.

L’uomo moderno ha smarrito una verità così evidente e, in fondo, così semplice: s’immagina che, per essere libero, un atto debba essere liberato da qualsiasi necessità. Ha scordato che la vera libertà non può essere mai solo negativa, cioè libertà da qualche cosa (tanto meno dall’Essere, fonte e garanzia della libertà stessa), ma sempre libertà positiva, per accordarsi con ciò che è vero e giusto. Ora, vero è l’essere che è quel che deve essere; giusto è l’essere che sceglie ciò che deve scegliere...