Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La fine della ragione e l'avvento di un incubo

La fine della ragione e l'avvento di un incubo

di Adriano Segatori - 05/11/2013

Fonte: centroitalicum

 

 

Francis Fukuyama in La fine della storia e l'ultimo uomo annunciava l’ultima e la più perfetta opportunità per l’uomo della post-modernità: quella determinata e definita dal liberalismo democratico.

Questa forma, secondo l’Autore, non può ulteriormente peggiorare e non è neppure la degenerazione di alcuna forma precedente. La storia si muoverebbe verso il progresso, e il progresso tecnologico e industriale è già stato assicurato, guidato ed indirizzato dal capitalismo in ambito economico. Il capitalismo ha il suo corrispettivo politico nella democrazia liberale, sia perché questa è meglio compatibile con il governo di una società tecnologicamente avanzata, sia in quanto l'industrializzazione produce ceti medi che esigono la partecipazione politica e l'uguaglianza dei diritti.

Questa mistificante analisi della realtà non solo è stata presa per buona dalle cosiddette élite intellettuali, ma è diventato il manifesto di quel progetto di globalizzazione universale i cui frutti devastanti sono quotidianamente davanti agli occhi di tutti.

Solo in un punto Fukuyama ha ragione, sull’indicazione dell’<<ultimo uomo>>, ma non con i pronostici e le prospettive che lui stesso intende.

Il capitalismo – nella sua intrinseca costituzione di modellatore (o liquidatore?) delle coscienze – ha creato una realtà virtuale nella quale ogni principio di trascendenza e di spiritualità è stato liquidato, sostituendolo con una mobile accozzaglia di valori della contingenza ed una sua rapida soddisfazione degli egoismi.

L’uomo – dai secoli e nei secoli – è sempre stato ritenuto composto (o comunque adeguatamente inserito) da ed entro tre dispositivi: quello fisico, quello psichico e quello spirituale. Rende molto bene questo concetto la dottrina gnostica, secondo la quale l’umanità sarebbe divisa in base alla natura specifica degli uomini: gli ilici, estranei alla salvezza e alla luce, legati al mondo terreno e alla corruzione del provvisorio, schiavi delle pulsioni e degli istinti; gli psichici, incerti e perplessi nell’abbandonare le finte certezze materiali, ma con una tensione interiore non ben definita che comunque li rende idonei a perseguire un certo cammino di consapevolezza e a dare un nome al loro desiderio inespresso; infine, i pneumici o pneumatici, coloro che sentono la vocazione della conoscenza, che sentono il dovere di rispondere al loro daimon – direbbe Hillman – per dare un senso compiuto alla loro esistenza e raggiungere la piena consapevolezza di sé e del mondo.

Questa tripartizione – certamente poco compresa nella modernità, piena o post- non fa alcuna differenza – è stata lentamente corrosa in modo cinico e con deliberata malignità, da manifestazioni eclatanti nella quotidiana gestione della cosa pubblica, detta anche – ormai in modo improprio e fuorviante – Stato.

È vero che repetita iuvant, ma spesso per gli addetti ai lavori questa replica diventa una prassi noiosa. Purtroppo, però, sono costretto a riprendere vecchi discorsi per coloro che non sono addentro ai concetti e alle specificazioni già precedentemente riportati e discussi.

L’antispirito capitalista ha inoculato il tarlo dell’insoddisfazione in ogni uomo, trasformandolo da soggetto delle sue scelte ad oggetto eterodiretto dalle sue voglie. In altri termini, lo ha reso sempre più bisognoso del superfluo e sempre meno appagato delle sue sostanze. Questo processo ha determinato una lenta chiusura di ognuno nel suo mondo particolare, sordo ai richiami del contesto di appartenenza e delle proprie istanze interiori. Ciò che è emerso con forza è quel sentimento di reciproca, sottile e pervasiva ostilità che si chiama invidia.

Già Erodoto, nelle Storie, riconosceva questo sentimento diffuso tra gli uomini, ma con il suo aggravarsi dovuto all’eguaglianza o, peggio ancora, alla loro similitudine. Però la malvagità di questo peccato capitale ha trovato un terreno fertile ed una sua epidemica diffusione nell’individualismo democratico, che ha sovvertito l’ordine aristocratico definito per funzioni fino a ridurlo ad organizzazione omologante per diritti e per bisogni indotti. A fronte delle comunità aristocratiche pronte a dare il sangue per il casato e per l’onore, le società democratiche perseguono solo la sicurezza del branco ed il successo materiale: <<Presso le nazioni aristocratiche […] il popolo stesso manifesta sovente gusto poetico e il suo spirito si eleva qualche volta al di là e al di sopra di ciò che lo circonda>>, mentre nei popoli democratici, <<nella confusione di tutte le classi ognuno spera di poter apparire ciò che non è e fa grandi sforzi per riuscirvi>>.[i] È questo uno dei motivi della diffusione trasversale dell’invidia, della voglia di sembrare altro, di sembrare più. Diventa chiaro, altresì, che eliminato il parametro distintivo del sangue e del coraggio, ciò che rimane come strumento di misura è l’oro, più specificamente la visibilità di un potere economico personale, anche se non c’è. È il denaro come fattore distintivo nella massa omologata; e se non c’è evidenza con questo, si opta per gli oggetti surrogati, per le marche taroccate, per la visibilità a basso costo ed impegno, purché rapidamente accessibile e di facile consumazione.

Ecco il risultato dell’egualitarismo democratico: l’individualismo informe in cui prevalgono <<debolezza, mediocrità, medietà: le caratteristiche peculiari della struttura emotiva dell’uomo democratico>>[ii], sul quale prospera la denunciata invidia. È l’invidia il motore trainante di quello che Tocqueville chiama <<dispotismo democratico>> e che noi indicavamo qualche decennio fa – inascoltati ieri come ora – con la definizione di ‘dittatura democratica’: gli uomini democratici <<vogliono l’uguaglianza nella libertà, ma, se non possono ottenerla, la vogliono anche nella schiavitù>>.[iii]

Ha ragione Fukuyama, quindi, quando si riferisce all’ultimo uomo: ma l’uomo come vir, radice di virtus, intesa come saldezza, eroismo, forza d’animo; è rimasto l’homo-sessuale, l’homo-logato, l’homo-indifferenziato, l’uomo manipolabile dal capitale e dalla sua maitresse politica, la democrazia.

I detrattori della comunità organica e dello Stato Etico hanno sempre attaccato in nome delle tre becerate della rivoluzione francese – secondo la simpatica aggettivazione data da Carmelo Bene –: uguaglianza, libertà e fraternità. Il risultato? <<L’individualismo [che] procede da un giudizio erroneo più che da un sentimento depravato. Esso ha ragione dei difetti dello spirito come nei vizi del cuore>>.[iv] L’individualismo che rompe ogni legame ed ogni senso di appartenenza per rodersi nel risentimento di nietzscheana memoria; che vive nella rincorsa alla somiglianza del suo simile a costo di perdere il proprio Sé autentico; che è disposto a rinunciare ad ogni desiderio pur di soddisfare i propri capricci.

Ha sottolineato Tocqueville: <<L’aristocrazia aveva fatto di tutti i cittadini una lunga catena, che andava dal contadino al re; la democrazia spezza la catena e mette ogni anello da parte>>.[v] Le tre velleitarie utopie dell’89 si sono trasformate per eterogenesi dei fini: l’uguaglianza in omologazione, la libertà in dipendenza dalle pulsioni e dal mercato, la fraternità in darvinismo sociale. È questa la società degli indifferenziati, dei narcisisti, dell’<<uomo senza inconscio>>[vi] – come titola un suo lavoro Massimo Recalcati. Nessuna passione comunitaria, nessuna vocazione di destino, nessun orgoglio del passato: solo una incessante e frustrante ricerca di senso nel presente.

È evidente che l’indebolimento del legame comunitario, del sentimento identitario, del prestigio nell’appartenenza è stato l’obiettivo mirato di quei poteri transnazionali che volevano la riduzione degli Stati a società e delle società a masse amorfe, più facilmente influenzabili e manipolabili. Questo risultato è stato raggiunto.

Restava, però, un possibile baluardo al degrado laico e progressista: la Chiesa cattolica. Quel dispositivo fatto di simboli e di liturgie che tuttora esiste nello Stato ebraico e negli Stati islamici, e che permea non solo la politica, ma la stessa organizzazione militare. Anche questa illusione – per chi ce l’aveva – è definitivamente tramontata. La spinta alla discesa tracollante è stata data da Ratzinger con le sue dimissioni, dimostrando che il sacerdozio è una professione dalla quale si può pensionarsi. Sta proseguendo con successo Bergoglio, con l’ulteriore trasformazione della Chiesa – come se ce ne fosse stato bisogno – in un apparato socioiatrico di bassa lega.A questo proposito è interessante prendere visione di uno scritto quasi profetico del poeta inglese Wystan Hugh Auden (1907-1973), il quale si immagina un soliloquio di Erode che, ritenendosi sinceramente un buono nella sua interiorità, profetizzava così le conseguenze se avesse avuto pietà di quel bambino particolare: <<Non occorre essere profeti per prevedere le conseguenze… La Ragione sarà sostituita dalla Rivelazione... La conoscenza degenererà in un tumulto di visioni soggettive – sensazioni viscerali indotte dalla denutrizione, immagini angeliche suscitate dalla febbre o dalle droghe, sogni premonitori ispirati dallo scroscio di una cascata. Compiute cosmogonie nasceranno da dimenticati rancori personali, intere epopee saranno scritte in idiomi privati, gli scarabocchi dei bambini innalzati al di sopra dei più grandi capolavori…L’Idealismo sarà scalzato dal Materialismo…La Giustizia, come virtù cardinale, sarà rimpiazzata dalla Pietà e svanirà ogni timore di castigo. Ogni scapestrato si congratulerà con se stesso: “Sono un tal peccatore che Dio è sceso di persona per salvarmi”. Ogni furfante dirà: “A me piace commettere crimini; a Dio piace perdonarli. Il mondo è davvero combinato a meraviglia”. La Nuova Aristocrazia consisterà esclusivamente di eremiti, vagabondi e invalidi permanenti. Il becero dal cuore d’oro, la prostituta consunta dalla tisi, il bandito affettuoso con la madre, la ragazza epilettica che comunica con gli animali saranno gli eroi e le eroine della Nuova Tragedia, mentre il generale, lo statista, il filosofo diverranno lo zimbello di satire e farse>>[vii]. È questo – metaforicamente – l’annuncio dell’avvento del buonismo demagogico attuale e della sovversione di ogni valore, a conferma che rispetto ai totalitarismi superati, la democrazia, delle tecniche di persuasione e di manipolazione.

È questa la fine dell’uomo differenziato, della sua regressione ad oggetto del capitale e dell’economia, senza un centro di riferimento, liberato da ogni forma interiore e da qualsivoglia autodisciplina, in balìa degli eventi e dei sentimentalismi determinati dalla manipolata esistenza nella quale è immerso. Senza un carattere da esprimere e senza un’identità alla quale riferirsi, crede di essere libero da ogni vincolo, mentre è schiavo di qualunque pressione eterodiretta. E che nessuno pensi di risvegliarsi spontaneamente da questo intermezzo, perché quello che stiamo vivendo non è il tempo parziale del sogno, ma l’incubo duraturo della realtà.

Adriano Segatori

[i] A. de TOCQUEVILLE, La democrazia in America, trad. it., Rizzoli, Milano 1982, pp. 487 e 463.

[ii] E. PULCINI, L’individuo senza passioni, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 130.

[iii] A. de TOCQUEVILLE, La democrazia in America, p. 428.

[iv] Ivi, p. 515.

[v] Ivi, p. 516.

[vi] M. RECALCATI, L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina, Milano 2010.

[vii] W.H. AUDEN, For the Time Being: A Christmas Oratorio in R. HUGHES, La cultura del piagnisteo, trad. il., Adelphi, Milano, 1994, pp. 19-20.