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Rrimpiango i piccoli negozi, uccisi dall’avidità

di Maurizio Maggiani - 06/01/2014

Fonte: Il Secolo XIX

Maggiani
Finiscono un sacco di cose nel tempo della crisi; si estinguono, si dissanguano, si consumano un sacco di cose che avrebbero meritato di esserci, di perdurare, di resistere. Perché la crisi spazza via parecchio dell’inutile e dell’obsoleto, ma anche molto di buono, di utile, di bello. In una minuscola, antica frazione sulla collina del golfo di La Spezia, uno dei non pochi borghi rimasti vivi nonostante i vecchi abbandoni e le recenti speculazioni, un borgo ancora abitato dai vecchi che hanno voluto rimanere e dai giovani che hanno voluto tornare, c’era un piccolo commestibile. Era un presidio importante e amato; gli anziani potevano comprare le cose essenziali senza dover faticosamente scendere in città, i giovani tornavano dal lavoro e lo trovavano aperto alle ore insolite dei loro frettolosi rientri. E siccome la signora che lo gestiva sapeva fare in cucina delle cose molto buone che metteva sul banco, le giovani coppie non sentivano troppo la lontananza dalle vecchie madri cuciniere, e gli operai dei cantieri lungo la strada si godevano confortanti pause del mezzodì, e i girovaghi e i viandanti, tra questi il sottoscritto, se n’erano fatto un prezioso punto di ristoro e soccorso alle crisi ipoglicemiche.
Con quel suo minuscolo esercizio la signora che lo gestiva non ci si è davvero arricchita, ma ci sono persone che vivono con piacere anche la semplice condizione di dignitoso sostentamento, appagandosi del necessario e ignorando l’accumulazione. Ora, dicevo, questa piccola, utile e buona cosa non c’è più. Colpa della crisi, ma di un particolare, e singolare, risvolto della crisi. Alla signora del commestibile il titolare della licenza ha chiesto un possente aumento del suo affitto, un aumento che non le permette di sopravvivere. Per inciso, stupidamente e ingenuamente, mi ero fatto l’idea che in questo Paese il commercio fosse attività liberalizzata da anni, così mi pareva per certe leggi di cui ero venuto a conoscenza, salvo constatare che non è così, non per alcuni settori strategici per la conservazione delle vecchie, care rendite di posizione, a ferma tutela del parassitismo nazionale; non solo taxi e farmacie, ma anche, per esempio, commestibili e ristorazione. Comunque, ecco, che il commestibile chiude, e non per questo se ne riapre uno nuovo, perché nessun pazzo è disponibile a farsi strozzare dall’avidità del titolare della licenza che gli dovrebbe consentire di vivere.
Non più distante di un paio di chilometri da lì, sta chiudendo, sempre a causa delle pretese del “padrone” della licenza, e in questo caso anche dei muri, una piccola trattoria di collina, presa in gestione, dopo anni di decadenza e abbandono, da un giovane cuoco capace e volenteroso. Che si è rimesso a fare quei tre o quattro piatti della vecchia cucina di cui sentiamo ancora nostalgia, e li fa buoni e sani e alla portata dei più, e solo per questo dovrebbe essere nominato cavaliere del lavoro. Se ne andrà, fine, e al suo posto non ci sarà più niente di buono, perché a quei costi niente di buono può dar da vivere. Ben che vada al goloso proprietario, arriverà un qualche disperato furbastro o un ingenuo incompetente che firmerà un pacco di pagherò che non pagherà, e svanirà nel nulla in una manciata di mesi. Come è già capitato, come continua a succedere in ogni ramo del commercio.
Perché se ne contano decine, centinaia di desolanti casi del genere in ogni città, centro storico, periferia e collina, e non si contano più le serrande abbassate e mai più rialzate, le vetrine vuote e le scritte “affittasi” ormai stinte. Come non si contano più i cambi continui di gestione. E c’è qualcosa di raccapricciante in questo. C’è il fatto che in tempo di crisi chi ha la “roba” da ricavarci una rendita di posizione, è preso da una fame di profitto ancor maggiore della sua solita, tipica fame. Una smania di fare ancora più soldi di quanti non ne abbia già fatto, da accecarlo. Sfugge a una qualsivoglia regola dell’accumulo capitalistico il pretendere più di quanto la “roba” valga sul mercato. Sfugge a qualsivoglia ragionevole calcolo preferire nessun reddito a un modesto ma certo reddito. A meno che il calcolo non segua le regole dell’irragionevole, ultra umana avidità che presagisce vacche grasse da mungere e macellare che nessun altro sa immaginare. E a me pare più che un problema sociologico da sottoporre agli economisti, una questione da affrontare nell’ambito della psicoanalisi, là dove getto lo sguardo nello sprofondo delle pulsioni di morte. E vedo in quegli avidi il Mazzarò della novella del Verga che ancora, mi pare, si studia a scuola. Il racconto della “Roba” e di quel tale, Mazzarò, che, dopo una vita dedicata all’accumulo in totale dispregio degli uomini e di Iddio, in punto di morte si mette a distruggere la sua roba urlando a squarciagola: Roba mia vieni con me.
(Maurizio Maggiani, “Quei piccoli negozi uccisi dall’avidità”, da “Il Secolo XIX” del 24 giugno 2012).

Finiscono un sacco di cose nel tempo della crisi; si estinguono, si dissanguano, si consumano un sacco di cose che avrebbero meritato di esserci, di perdurare, di resistere. Perché la crisi spazza via parecchio dell’inutile e dell’obsoleto, ma anche molto di buono, di utile, di bello. In una minuscola, antica frazione sulla collina del golfo di La Spezia, uno dei non pochi borghi rimasti vivi nonostante i vecchi abbandoni e le recenti speculazioni, un borgo ancora abitato dai vecchi che hanno voluto rimanere e dai giovani che hanno voluto tornare, c’era un piccolo commestibile. Era un presidio importante e amato; gli anziani potevano comprare le cose essenziali senza dover faticosamente scendere in città, i giovani tornavano dal lavoro e lo trovavano aperto alle ore insolite dei loro frettolosi rientri. E siccome la signora che lo gestiva sapeva fare in cucina delle cose molto buone che metteva sul banco, le giovani coppie non sentivano troppo la lontananza dalle vecchie madri cuciniere, e gli operai dei cantieri lungo la strada si godevano confortanti pause del mezzodì, e i girovaghi e i viandanti, tra questi il sottoscritto, se n’erano fatto un prezioso punto di ristoro e soccorso alle crisi ipoglicemiche.

Con quel suo minuscolo esercizio la signora che lo gestiva non ci si è davvero arricchita, ma ci sono persone che vivono con piacere anche la semplice condizione di dignitoso sostentamento, appagandosi del necessario e ignorando l’accumulazione. Ora, dicevo, questa piccola, utile e buona cosa non c’è più. Colpa della crisi, ma di un particolare, e singolare, risvolto della crisi. Alla signora del commestibile il titolare della licenza ha chiesto un possente aumento del suo affitto, un aumento che non le permette di sopravvivere. Per inciso, stupidamente e ingenuamente, mi ero fatto l’idea che in questo Paese il commercio fosse attività liberalizzata da anni, così mi pareva per certe leggi di cui ero venuto a conoscenza, salvo constatare che non è così, non per alcuni settori strategici per la conservazione delle vecchie, care rendite di posizione, a ferma tutela del parassitismo nazionale; non solo taxi e farmacie, ma anche, per esempio, commestibili e ristorazione. Comunque, ecco, che il commestibile chiude, e non per questo se ne riapre uno nuovo, perché nessun pazzo è disponibile a farsi strozzare dall’avidità del titolare della licenza che gli dovrebbe consentire di vivere.

Non più distante di un paio di chilometri da lì, sta chiudendo, sempre a causa delle pretese del “padrone” della licenza, e in questo caso anche dei muri, una piccola trattoria di collina, presa in gestione, dopo anni di decadenza e abbandono, da un giovane cuoco capace e volenteroso. Che si è rimesso a fare quei tre o quattro piatti della vecchia cucina di cui sentiamo ancora nostalgia, e li fa buoni e sani e alla portata dei più, e solo per questo dovrebbe essere nominato cavaliere del lavoro. Se ne andrà, fine, e al suo posto non ci sarà più niente di buono, perché a quei costi niente di buono può dar da vivere. Ben che vada al goloso proprietario, arriverà un qualche disperato furbastro o un ingenuo incompetente che firmerà un pacco di pagherò che non pagherà, e svanirà nel nulla in una manciata di mesi. Come è già capitato, come continua a succedere in ogni ramo del commercio.

Perché se ne contano decine, centinaia di desolanti casi del genere in ogni città, centro storico, periferia e collina, e non si contano più le serrande abbassate e mai più rialzate, le vetrine vuote e le scritte “affittasi” ormai stinte. Come non si contano più i cambi continui di gestione. E c’è qualcosa di raccapricciante in questo. C’è il fatto che in tempo di crisi chi ha la “roba” da ricavarci una rendita di posizione, è preso da una fame di profitto ancor maggiore della sua solita, tipica fame. Una smania di fare ancora più soldi di quanti non ne abbia già fatto, da accecarlo. Sfugge a una qualsivoglia regola dell’accumulo capitalistico il pretendere più di quanto la “roba” valga sul mercato. Sfugge a qualsivoglia ragionevole calcolo preferire nessun reddito a un modesto ma certo reddito. A meno che il calcolo non segua le regole dell’irragionevole, ultra umana avidità che presagisce vacche grasse da mungere e macellare che nessun altro sa immaginare. E a me pare più che un problema sociologico da sottoporre agli economisti, una questione da affrontare nell’ambito della psicoanalisi, là dove getto lo sguardo nello sprofondo delle pulsioni di morte. E vedo in quegli avidi il Mazzarò della novella del Verga che ancora, mi pare, si studia a scuola. Il racconto della “Roba” e di quel tale, Mazzarò, che, dopo una vita dedicata all’accumulo in totale dispregio degli uomini e di Iddio, in punto di morte si mette a distruggere la sua roba urlando a squarciagola: Roba mia vieni con me.