Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Tutta la parola viva è dialogo

Tutta la parola viva è dialogo

di Ramon Vera Herrera - 23/02/2014

Fonte: comune-info


Percorre gli impervi sentieri della Sierra Madre messicana, discende dagli aztechi ed è depositario di alcuni dei saperi più affascinanti e misteriosi che formano la trama del disegno nascosto dell’immaginario mesoamericano. È il popolo wixárika (o huichol), il suo compito è quello di “prendersi cura del mondo”. Seguire le piste dei suoi saperi e comprendere i segreti della sua resistenza, può offrire soluzioni d’importanza vitale, anche in questo millennio. Il coordinatore editoriale di Ojarasca, la rivista mensile che dà voce agli indigeni invisibili del Messico, ci offre un racconto di grande interesse, chiosato con testi di Ramón Panikkar. Un esempio? L’assemblea, per i Wixárika, non è lo spazio per votare ma per conversare nel senso più ampio del termine, cioè, per esporre la propria parola e pensare insieme. Il consenso è il prodotto della riflessione collettiva, non il risultato di un tipo di votazione “pre-moderna”

alechinsky0271


Quando ti punge uno scorpione,

spegni il tuo fuoco e stai all’erta.

(vecchio proverbio wixárica)

Solo fra tutti sappiamo tutto.

Emeterio Torres, marakama (colui che sa, ndt) wixárica

StripedBarkScorpionI Wixárica hanno una relazione molto stretta con gli scorpioni. Molti anziani della Sierra huichola considerano lo scorpione il sapiente più antico. I teruka, come vengono chiamati in lingua huichol gli scorpioni, sono considerati messaggeri, portatori di comunicazioni importanti. “Spegnere il proprio fuoco e rimanere all’erta” quando si riceve il loro messaggio, ci parla dell’importanza che i Wixaritari gli assegnano nel loro spazio simbolico: il fuoco li convoca a una venerazione e a una vicinanza così profonde che convivono perennemente con lui. Quello che chiede l’antica tradizione è che si sospenda ogni cosa per porre attenzione al messaggio e cercare, o aspettare, i segni di ciò che lo scorpione vuole comunicare.

Nella Sierra c’è chi dice che con la sua puntura lo scorpione vuole avvertire colui che punge del fatto che vi è stata una trasgressione che deve essere riparata e che richiede un’offerta, quasi sempre un pellegrinaggio a un sito sacro. Per altri, è solo l’annuncio di una rinascita o della conclusione di un ciclo – è l’avvertenza che qualcosa si è mosso e che bisogna ristabilire l’equilibrio con lavoro e attenzione.

Una volta, un viaggiatore arrivò a Bancos de San Hipólito, Durango, in piena Sierra Huichola, e la notte stessa fu punto da uno scorpione enorme, un esemplare del tipo centurión, color dorato traslucido a righe nere parallele e con una riga rossa che gli attraversava tutta la lunghezza del corpo.

Al momento di andare dormire in una casa col tetto di palma, il calore era così intenso che il gruppo che era arrivato per fare un laboratorio insieme alla comunità si sdraiò sopra i sacchi a pelo. Nella notte lo scorpione cadde dal tetto e cominciò ad arrampicarsi su per il ventre del viaggiatore. Questi avvertì la rasposità delle zampette sul suo corpo e istintivamente, nell’oscurità e nel sonno, lo cacciò via con una mano. Lo scorpione lo punse su un dito e fu scagliato via ma ricadde però sui capelli del viaggiatore, vicino a un orecchio. Con la mano sana l’uomo lo lanciò un’altra volta lontano da sé ma non prima di ricevere una seconda puntura velenosa.

Borbottando insulti l’uomo si alzò e cercò l’animale. Lo trovò ai piedi del suo letto improvvisato e con un pezzo di carta lo spinse in un recipiente e lo lasciò lì, prigioniero.

I suoi compagni, allarmati, si chiedevano cosa fare.

L’uomo si sentì pervaso da un dolore estremo che non lo abbandonò per più di due giorni e gli si tumefecero le braccia.

“Le sento addormentate quasi fino alle spalle”, diceva.

Lo invase una calma strana, immensa, lucida, quasi gelida.

Una puntura di scorpione può provocare soffocamento, difficoltà respiratorie, spasmi allo stomaco, allucinazioni e vomito.

Per un bimbo, un anziano o un malato, la puntura è quasi sempre mortale. Con il veleno di uno scorpione centurión (Centruroides exilicauda sculpturatus, ndt) anche un adulto sano può morire, tutto dipende da dove e in che quantità gli sia stato iniettato il veleno.

Il viaggio con quello scorpione fu un viaggio di dolore, dolore netto nelle dita, travolgente nelle mani e più diffuso verso la parte alta delle braccia. Era come se lo scorpione gli avesse iniettato una scarica elettrica infinita. Non sentì soffocamento né spasmi né nausea, ma la saliva gli inondava la bocca. Cominciò ad avere visioni.

Il padrone della casa si preoccupò molto. Ispezionò il prigioniero nel recipiente e disse al viaggiatore:

“Bisogna ucciderlo”.

“No, io non uccido mai gli scorpioni” gli rispose lui.

“Hai visioni, ti senti male?”.

“Si, ne ho. Vedo tutto più voluminoso, i colori sono molto definiti, anche in penombra. Vedo volti di gente che conosco, mi arrivano emozioni, penso qualcosa e uno dei miei compagni lo dice, poi mi arrivano sensazioni di molto tempo fa, sensazioni che ho vissuto, certezze che mi sorprendono”.

É che lo scorpione è il sapiente più antico che ci sia sulla terra” gli disse allora Catarino, “ascoltalo. C’è qualcosa che ti sta dicendo, ascoltalo”.

“E allora perché ucciderlo?” replicò il viaggiatore. E Catarino fu veloce nel rispondere:

“Perché sono sì i sapienti più antichi ma ti fregano lo stesso, i gran cornuti, e non bisogna lasciarglielo fare”, e tirò lo scorpione sul pavimento e lo schiacciò. Poi disse:

“Guarda, tra poco starai meglio, ma se ti dovessi sentir male dobbiamo andare alla clinica dei mestizos, a San Lucas, e chissà come ci riceveranno. A quei bastardi cowboy non piace che voi veniate qui, perché sentono che gli create difficoltà. É meglio se ti iniettiamo del siero antiveleno di scorpione nella clinica che sta qua. Di siero ce n’è”.

E il viaggiatore, rendendosi perfettamente conto del disagio che avrebbe potuto comportare una spedizione a San Lucas, accettò l’iniezione che non si raccomanda se non in casi estremi, perché i sieri contro il veleno degli scorpioni, fabbricati con ormoni di cavallo, a volte danno reazioni violente quanto quelle provocate dalle punture del teruka.

L’intera notte fu una battaglia tra un dolore immenso e lo sforzo del viaggiatore per calmare la respirazione, acquietare la tachicardia e trovare un po’ di sollievo. Forse, pensava, è qualcosa del genere che provano i torturati. Un assaggio. Sapere che il dolore sta lì e non se ne andrà. E che si deve sperare – o smettere di sperare. Stette sveglio tutta la notte, fumando nei momenti in cui il dolore gridava, e bevendo dei piccoli sorsi d’acqua di quando in quando.

Con la luce del giorno arrivò un poco di sollievo, proprio nel momento in cui, dopo aver camminato per vari chilometri, arrivava don Simón, il marakame più vecchio di Bancos, con cento anni compiuti. Anche lui ripetette al viaggiatore di dar ascolto al messaggio dello scorpione e lo benedì. Il dolore e la tumefazione svanivano lentamente, molto lentamente.

 

********

La persona non è né un’unità monolitica né una pluralità sconnessa. Parlare di una persona isolata è pura contraddizione. Il termine “persona” implica una relazione costitutiva, la relazione espressa con le persone pronominali. Ciò che viene chiamato “persona” non è che un nodo di una rete di relazioni (con altri nodi). Un io implica un tu, e finché questa relazione si mantiene, implica anche un egli/ella/quella cosa, come anche lo spazio in cui la relazione io-tu si è stabilita. Una relazione io-tu implica ugualmente una relazione noi-tu che includa egli, essi..”

Ramón Pannikar, “La trinidad”

 

Giungere alla Sierra Huichola è giungere a una frontiera. Una frontiera non è una cosa, non è un luogo, per lo meno nel senso che le danno i geografi. La Huichola è una frontiera in quanto è una cucitura, a tratti molto ampia, in un tessuto di relazioni. Queste forse sono invisibili per gli estranei ma, quando si mostrano, c’è in queste relazioni un qualcosa che va da un lato all’altro del significato, di ciò che è vivo, della morte, del mistero.

Nella Sierra Huichola, già dal lato di Durango, c’è una piccola valle isolata, nascosta tra enormi massicci, precipizi, rupi e pendii che si allacciano l’uno all’altro e danno al luogo un aspetto di verticalità.

Davanti a questi precipizi si trova la comunità wixárica de Bancos de San Hipólito – comunità nel senso il più vasto e più ricco del termine. La sua tragedia, la sua storia di resistenza, cominciò verso la fine della guerra cristera quando molti meticci, reduci dai due eserciti che si erano combattuti, si stabilirono nella regione. Ce ne furono cinque o sei che si unirono a delle donne coras e condussero nel territorio un’ipocrita convivenza che gli permise, come avviene in Macbeth, d’imboscare alcuni uomini, di avvelenarne altri, di bruciare molte case e d’instaurare un clima di terrore che infine lasciò le famiglie meticce proprietarie dei Títulos Primordiales della comunità cora di San Lucas de Jalpan, che da quel momento cominciò a importunare i suoi vicini huicholes. La cosa più grave fu che l’indefinitezza e la corruzione in campo agrario fecero sì che si commettesse un abuso: invece di riconoscere il territorio wixárika, invece di rispettare il fatto che la comunità di Banco de San Hipólito o Calítique era huichol o wixárica (così si autodefiniscono loro stessi come popolo) e parte della comunità agrario-religiosa di San Andrés Cohamiata, le autorità governative concessero assurdamente di fare di questa comunità un annesso della comunità “cora” di San Lucas, che negli anni ’60 era un borgo meticcio con una gran voglia d’annettersi tutto il territorio possibile, sfruttando a questo scopo l’incertezza e l’inquietudine della gente.

Lì, a Banco de San Hipólito, un gruppo di consulenti del popolo wixárica aveva programmato un laboratorio che trascorse come una giornata di lavoro nel campo, dal sorgere del sole al tramonto, tranquillamente, in modo naturale, riunendo vecchi e giovani, donne e bambini a pensare insieme, sotto una tettoia di rami intrecciati che li proteggeva dai raggi di un sole a picco, riflesso dagli enormi macigni che, invece di far ombra, ne aumentavano la luminosità e il calore.

Il primo indizio fu una signora, di circa settant’anni, che dal niente si avvicinò al tavolo dove stavano i consulenti con una pentola di peltro azzurro, e a voce bassa disse a uno di loro:

“Ho saputo che stai maluccio” (il viaggiatore continuava ad avere le braccia intorpidite e formicolanti).

“Prendi questo cibo a base di cannella e ti sentirai meglio”, gli disse.

Era chiaro che il cibo era per lui, ma con il compito implicito di dividerlo con tutti i presenti. E molti e molte gli si avvicinarono per condividere la cura. La sua puntura di scorpione era già diventato un avvenimento comunitario, e tutto questo fu rafforzato dal fatto che quella era stata una notte di scorpioni: cinque persone avevano sentito i messaggi di quei sapienti camminanti. Poi, siccome ogni giorno si usava portare il cibo alla milpa dove lavorano gli uomini, le donne cominciarono a portargli pentole con fagioli, stufati con fichi d’india, xinari (una farinata di mais, a volte di huitlacoche), tortillas, dolci, manghi. Si capisce che li portavano per i loro famigliari, ma tutti si passavano tra loro le pentole che circolarono così per tutta la mattina, mentre si discuteva sulla storia della regione, sui problemi agrari, sulla loro mancanza di difesa, sulla ricerca di soluzioni, sull’organicità, sui lavori produttivi. E questo avveniva mentre sotto la tettoia di rami intrecciati tutti si muovevano a passo con il sole perché l’ombra proiettata li coprisse. La lenta coreografia andò avanti fino alle sei del pomeriggio, e non ci furono interruzioni visibili, poiché il banchetto fu un evento parallelo e faceva parte dell’importanza che gli wixaritari attribuivano a questo pensare collettivo, masticando insieme il sapere uscito fuori per dargli un senso in comune e capire quello che sarebbe avvenuto.

Tutti i presenti sapevano che lo scorpione lo aveva visitato. Ognuno di loro, a suo modo, chiedeva o si interessava per il suo stato di salute, che migliorò visibilmente con la cannella, che lo fece sudare e lo liberò dal sopore nel quale cadeva a tratti.

E il viaggiatore comprese che, essendo dolore, lo scorpione era stato il suo regalo di viaggio. Aveva avuto l’opportunità di sentire, fortemente focalizzato, quello che forse, senza un così totale sequestro della volontà, provano quelli che vivono sempre in stato d’allerta per le aggressioni dei loro vicini, per la violenza sempre presente, quella che non dà tregua. Capirlo fu un dono:

Diciamo che lo scorpione mi ha messo nel mio posto”, dicono che abbia detto.

 

********

Todosconjuntoscomprensión

koan zen

 

La frase di “Meterio marakame” che dice che “solo tra tutti sappiamo tutto”, acquisisce il suo senso più profondo in un’assemblea di comuneros. Questa non è solo uno spazio in cui tutti parlano, e niente più. Si pensa erroneamente che il consenso sia una modalità di votazione in cui, invece di contare voti segreti o mani alzate, si esiga un cento per cento di corrispondenza. Non si considera che per i Wixárika e per altri popoli l’assemblea non è lo spazio per votare ma per conversare nel senso più ampio del termine, cioè, per esporre la propria parola e pensare insieme. Il consenso è il prodotto della riflessione collettiva, non il risultato di un tipo di votazione “pre-moderna”. Il consenso è quel noi che Carlos Lenkersdorf ha cominciato a dipanare nel caso dei tojolabales. Arrivare a un consenso, a quel noi, a quel che potremmo chiamare un senso in comune, è aver ordito il rompicapo delle opinioni ed esperienze di ognuno dei presenti. Non è la massiva accettazione di un determinato punto e non proviene neanche dall’indagare poco responsabilmente ciò che si crede decisione. É fiducia, al di là del fatto che a volte non si capiscano o non sappiano che qualcuno vuole passare a viva voce. E il modo allora è diretto, senza circonlocuzioni, si dice tutto quello che c’è da dire per non terminare in discordia ma stabilendo il punto senza transigere per pusillanimità.

I huicholes partecipano alle assemblee senza le formalità dei cittadini e le vivono come una festa. Come se assistessero a una rappresentazione teatrale. Risulta evidente che alcune forme arcaiche di teatro hanno la loro origine nelle assemblee. E loro le vivono realmente in questo modo, tanto che si accoccolano, si siedono su dei ciocchi di legno o sull’erba, formano gruppi che chiacchierano tra di loro e che si raccontano degli aneddoti. Anche le donne partecipano e commentano tra loro, e intanto tessono o ricamano, sedute in gruppi femminili o con i propri mariti. Alcuni tessono cappelli (loro dicono che quando si conversa, che è tessere, bisogna tessere realmente per rinforzare il conversato) e tutti mangiano manghi, ciccioli di farina con peperoncino piccante, e si decide che i sigari di chiunque si azzardi a tirarli fuori sono proprietà comune. Tutti i bambini sono presenti e, anche se non si vedono, stanno dietro alle loro madri o giocano tra di loro.

Potrebbe sembrare dispersione ma stanno riproponendo una forma di convivenza tipica del Rinascimento: i fatti che avvengono sullo scenario sono il nodo da cui passa tutto quello di cui parlano; i viavai della rappresentazione possono far che qualcuno del pubblico chieda la parola e partecipi, cambiando l’andamento del discorso. Allora gli attori in scena – che conducono l’assemblea – postillano, chiacchierano o assentono. A volte sembra che tutti siano sonnolenti o che si guardino all’interno con occhi dalle pupille dilatate. Alcuni sputano, altri fumano macuche o tabacco commerciale, ma la situazione riguarda tutti e li spinge a volte a rimproverare – come i cori del teatro greco – qualcuno sullo scenario che non ha risposto come il pubblico voleva.

Quello che è realmente importante in tutto questo chiasso è che c’è la volontà di non imporre un linguaggio agli altri, mentre c’è invece la necessità di costruire fra tutti una rappresentazione, imprescindibile se vogliamo, e mutante, che gli permetterà di continuare a essere quello che sono nel corso di questa trasformazione continua. Quel senso in comune, quella ricerca in comune, quel noi, sarebbe allora un plasma momentaneo – perché tutto si muove – di un processo vivo.

Il tradizionale di quest’attitudine epistemologica è un esempio di quanto afferma Raimón Panikkar quando dice:

È mediante una nuova incarnazione delle esperienze tradizionali dell’umanità che possiamo essere fedeli a queste esperienze e, inoltre, è solo così che possiamo approfondire e continuare la vera tradizione. L’autentica tradizione non consiste nella trasmissione di formule morte o usanze anacronistiche, ma nel passare la fiaccola della vita e la memoria dell’umanità”.

Posti in questa direzione, quello che Carlos Lenkersdorf è riuscito a vedere nel caso dei tojolabales è lo stesso che varie correnti di epistemologia enunciano oggi, all’inizio del secolo XXI: lo strano sentimento che ci dice che tutto quello che costruiamo come umani è collettivo o non sarà. Che è nel processo di realizzare compiti, relazioni, progetti con gli altri che infine ci conformiamo a quello che noi stessi siamo. È nel dialogo che riusciamo a conoscere noi stessi.

Partiamo dal fatto che non esistono verità universali ma visioni in comune. Non le riflette la statistica ma il confronto mutuo di ciò che percepiamo. Queste visioni comuni sorgono non solo dalla somma di molte visioni ma dalla loro relazione, che è di più che la somma delle parti. Bisognerebbe insistere nel dire in tutti i modi possibili che quando uno parla del collettivo non si riferisce a quel congiunto di esseri che cancellano la loro individualità per diluirsi nella massa. Collettivo è il tessuto di relazioni tra gli individui che assumono il loro stare in un gruppo e si riconoscono come gruppo e lo potenziano individualmente. Per questo Panikkar insiste:

una persona è un nodo di relazioni concrete”.

Ci si può spingere ancora più lontano e affermare che il termine rete potrebbe essere troppo fisso. Forse allora il termine costellazione, perché l’idea della costellazione contiene magnetismo, contiene movimento, pesi diversi, grappoli che si formano o si disfanno. Dice Ramón Panikkar:

Dal momento in cui le parole dicono unicamente ed esclusivamente quello che uno vuole dire e non lasciano spazio a quello che anche l’altro vuole dire, dal momento in cui passano ad essere solo segni e non più simboli, dal momento in cui segnalano qualcosa e non ne sono già esse l’espressione, la manifestazione e con ciò il velo stesso di quel “qualcosa”, da quel momento degenerano, incluso come parole. Si convertono in meri strumenti per la trasmissione di messaggi cifrati, aperti solo a coloro che ne posseggono già la chiave. Sono termini, segni, più che propriamente parole, simboli. Allora, molto facilmente i termini possono convertirsi in strumenti di potere nelle mani di coloro che ne dettano il significato o che conoscono le chiavi per decifrarne i segni. Non c’è necessità d’interpretare né di comprendere quei segni; sono solo ordini o avvertenze per orientare su ogni cosa, ma non formano parte di noi stessi né sono rivelazioni della realtà. Non si può giocare né pregare, e ancor meno essere, con quei segni. Non si può parlare veramente usando queste erroneamente definite“parole”, si può solo ripeterle, imitando coloro che impongono quel potere su di noi. Quando una locuzione designa solo quello che uno vuole dire ed esclude la partecipazione dell’altro, diventa sterile. In questo modo la locuzione si chiude ed esclude chi la ascolta, invece di permettere una corrente di comunicazione tra quelli che, da se stessi, avrebbero potuto non solo avvicinarsi e fecondarsi reciprocamente, ma anche approssimarsi mutuamente alla realtà, alla verità. Tutta la parola viva è dialogo. (La trinidad)

 

********

(traduzione e note di Gaia Capogna)

 

Nota sull’autore

Ramón Vera Herrera ha 64 anni, da oltre 15 fa parte della redazione di Ojarasca, storica rivista diventata supplemento mensile con forte prevalenza dei temi indigeni del quotidiano messicano La Jornada. Traduce abitualmente in lingua spagnola alcuni degli autori più prestigiosi della letteratura e della cultura vicina ai movimenti antisistemici (da Immanuel Wallerstein a John Berger) e collabora con movimenti e processi di autogestione in diverse zone del Messico. Presentando a suo tempo il libro “Veredas”, “Sentieri”, uscito nel 2005 per Itaca, Ramón Vera Herrera ha spiegato che suole girare il mondo raccogliendo storie per poi farle vivere e suonare molte volte, come fossero un carillon. Ognuna di queste storie, ha spiegato, è come un sentiero da percorrere. Sono storie reali, immaginarie o dell’emozione raccontate senza attenersi a un genere letterario o a una forma della narrazione stabilita che limiterebbe il “che fare” della scrittura. Ogni storia nel mondo chiede il suo modo per essere narrata. I 49 racconti che compongono “Veredas”, cioè “Sentieri” non sono affabulazioni ma storie reali di molti luoghi del mondo, sia urbani che rurali, anche se l’ambito rurale predomina. “Le persone di cui parlo”, dice Vera Herrera, “hanno in comune il fatto che stanno cercando di capire. Sono gente fuori dell’ordinario e non sono interne al mondo del potere. È gente comune. Non sono descritte come in un ritratto ma come se le riprendesse una videocamera da vicino e dal basso. Vivono cose speciali, molto belle o molto forti, proprio perché stanno cercando di capire. Non vorrei nemmeno chiamarla letteratura, questa. È scrittura, traduzione di esperienze”.