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L'ala mediterraneo-eurasiatica del nuovo "grande gioco"

di Franco Cardini - 26/02/2014


Quindi la bella signora Julija Tymošenko, certo un po’ provata, il volto segnato dalle occhiaie, l’oro della sua leggendaria treccia bionda a corona leggermente impallidito – où sont les neiges d’antan, è tornata, finalmente libera, ad affacciarsi sulla “sua” piazza Majdan, dove ha pronunziato parole commosse e trionfali parlando di sole che torna a splendere, di dittatura caduta grazie a chi ha avuto il coraggio di scendere in strada, di dovere di fare in modo che i caduti dei giorni scorsi non siano morti invano. Frattanto i media c’informano che il deposto dittatore Viktor Janukovyč, fuggiasco, per il momento si ostina a blaterare “da una località segreta” contro quello che egli definisce un “colpo di stato”. E tutti si aspettano che venga stanato e messo in qualche modo a tacere, e che la nuova legalità legittimata dalla Rada – il parlamento ucraino – infine trionfi.

Ma stanno proprio così, le cose? Chi tra noi ha memoria un po’ meno corta ricorderà pur bene come, appena due-tre giorni fa, a Kiev era stato raggiunto un accordo tra il presidente Janukovyč e l’opposizione, auspice l’Unione Europea e per essa in primissima istanza i ministri degli esteri tedesco, Stenmeier, e polacco, Sikorski. Ma, tra la notte di venerdì 21 febbraio e la giornata di sabato 22, è misteriosamente, repentinamente successo di tutto. Mentre il corpo di polizia nazionale sembra diviso – con gli “insorti”, o i ribelli”, o i “patrioti” (chiamateli come vi pare) la polizia di Kiev, contro di essi i reparti della zona orientale del paese -, i palazzi pubblici e i centri nevralgici della capitale sembrano presidiati soprattutto dai miliziani dei corpi paramilitari dei partiti di destra i quali sembrano molto più decisi, organizzati, brutali della polizia alla quale hanno inferto grosse perdite (il che conferisce un’aria piuttosto strana, diciamo la verità, a un movimento che tiene a presentarsi come “spontaneo”. Il governo provvisorio, uscito da quella che si presenta come un’insurrezione e ratificato dalla Rada, appare come nelle mani della signora Tymošenko: sono “suoi” uomini il premier interinale Oleksandr Turčinov e il ministro interinale all’interno, Arven Avakov. Intanto, in città si snodano le sequenze di un film visto tante altre volte, dalla Buenos Aires quando cadde Perón a Bucarest quando fuggì Ceausescu: le residenze presidenziali, il loro lusso sfrenato, la disonestà del dittatore che viveva nello sfarzo eccetera. Ora, che Janukovyč fosse un corrotto legato a doppio filo a varie mafie e che non fosse nemmeno un granché come politico è molto probabile: ma sono davvero migliori i suoi avversari, a cominciare dalla bella signora dalla treccia d’oro ch’è un’arciricca e non proprio specchiata manager, già condannata per abuso d’ufficio in seguito a un contratto di fornitura di gas con la Russia e che non giocò un ruolo esattamente adamantino lottando contro il leader della “Rivoluzione arancione” del 2004, Viktor Yushenko? Non a caso, quando cominciarono a fioccare le accuse che poi l’hanno portata in carcere, da noi i media di centrodestra avvicinarono subito il suo caso a quello di un altro “perseguitato”, Silvio Berlusconi.

Siccome nessuno di noi ha le sfera di cristallo, non possiamo dire come andranno le cose di qui a pochi giorni, o magari a poche ore. E’ probabile che Janukovyč si trovi adesso a Karkhiv, il capoluogo dell’area orientale dove per la verità non lo amano, ma in quanto lo accusano di essere stato troppo debole con la minoranza insorta, lui che sarà anche un dittatore ma le elezioni le aveva vinte a man bassa, e con il riconoscimento di UE, OCSE, ONU e via dicendo (è d’altronde sempre pronto il solito acuto osservatore, che in questi casi alza il ditino ammonitore e ci ricorda che anche Hitler aveva vinto le elezioni del 1933…come se questo fosse un argomento). Ora, sta di fatto che la minoranza russa in Ucraina è concentrata nella regione orientale, dov’è minoranza solo per modo di dire. Inoltre c’è il problema della Crimea, i russi abitanti nella quale (il 67% della popolazione) non saranno mai lasciati soli da Mosca: su ciò non c’è da farsi illusioni. A complicare le cose ci sono anche le confessioni religiose, con i greco-cattolici (gli “uniati”) che, si dice, guardano all’Europa, e le Chiese ortodosse a vari livelli piuttosto orientate in senso filorusso. Ora bisognerà vedere come si muoverà la diplomazia di Putin: ma tra le varie soluzioni, senza arrivare alla vera e propria guerra civile (anzi, proprio per non arrivarci) una scissione del paese è molto possibile. Qualcosa del genere avvenne, mutatis mutandis, qualche anno fa in Caucaso, quando a una pesante scelta in senso filostatunitense del governo georgiano gli osseti meridionali risposero proclamando al loro indipendenza e chiedendo di collegarsi con la repubblica osseta nordcaucasica, alleata con Mosca. Sul ginepraio caucasico, è utile la lettura di Grandi giochi nel Caucaso (“Limes”, 2, febbraio 2014).

Ma insomma, che cosa sta succedendo in un ampio arco che dall’Africa centroccidentale arriva a lambire il mondo baltico? E’, come lo definiscono gli osservatori, un “arco di crisi” che circonda i paesi ricchi o ex tali, comunque economicamente integrati e più o meno politicamente collegati attraverso l’Unione Europea, e che dal mali attraverso l’Egitto, la Siria e il Caucaso arriva fino in Ucraina toccando i paesi delle vere o supposte o false “primavere arabe” ormai dimenticate e sfiorando una Turchia che appare a sua volta in mezzo al guado. E tutto ciò non basta: il vero nodo del problema è che ormai non c’è più all’orizzonte nessun sicuro mediatore. Gli USA hanno troppo da pensare ai loro problemi interni e a come uscire dal disastro della politica asiatica di Bush; l’Europa deve gestire i suoi debiti e tutti i paesi della cosiddetta Unione Europea appaiono assorbiti solo dalle due questioni dei rispettivi bilanci e della governabilità. In Ucraina, la situazione è precipitata da quando, verso la metà di febbraio, la piazza (che non è una maggioranza) ha imposto con al forza un rovesciamento della situazione determinata dai risultati elettorali – ma in paesi come il nostro, dove un oppositore della TAV viene automaticamente trattato da terrorista, si è considerato la cosa più normale del mondo che durante le manifestazioni dell’opposizione ucraina si aggredissero i poliziotti e si è stati sensibili solo alle loro reazioni, senza dubbio talora eccessive -, mentre il 19 la Banca Europea per gli investimenti ha chiuso la sua attività nel paese. Poco più di una settimana prima, l’11 febbraio, sulla piazza Majdan era planato Bernard-Henri Lévy in persona, plaudendo in un infiammato appello a quello che sarebbe il sogno degli ucraini, cioè “l’Europa. Non l’Europa dei burocrati, l’Europa dello spirito”. Quello spirito nel nome del quale negli ultimi mesi Lévy si è fatto paladino di tutti gli interventi violenti e destabilizzatori, dalla Libia alla Siria. “Benvenuti in Europa!”, concludeva il filosofo-tuttologo portavoce di Hollande. Il benvenuto dell’Europa si è visto poco dopo una settimana: chiusura delle linee di credito. Ora, i patrioti ucraini che sognano l’Europa sono obbligati a confrontarsi con la cruda realtà di una Unione – le forze armate dei paesi aderenti alla quale sono automaticamente affiliate alla NATO – che pretende che essi recidano il loro rapporto con la Russia ma non sembra disposta a sborsare un centesimo per loro, mentre dall’altra parte Putin tiene concretamente aperte le vie dei suoi prestiti. Se il paese si staccasse, e nella sua area occidentale cominciassero ad affluire le testate atomiche statunitensi o comunque occidentali da puntare contro la Russia, com’è successo qualche anno fa in Georgia, il discorso se non diplomatico quanto meno strategico diventerebbe più chiaro. Tanto più che il passaggio di mezza Ucraina all’area occidentale danneggerebbe notevolmente il transito del gas russo verso l’Occidente. Ma sarebbe questa l’Europa dello spirito, Monsieur Lévy?