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Tramonta con Manfredi, a Benevento, la stella del partito ghibellino (1266)

di Francesco Lamendola - 11/03/2014


La battaglia di Benevento del 1266 ha segnato una svolta storica in Italia: la sconfitta irreparabile del partito ghibellino e dell’idea imperiale e l’inizio della lunga stagione del predominio guelfo; che sarà caratterizzata, a sua volta, da lotte incessanti tra Bianchi e Neri, tra magnati e popolani, tra popolo grasso e popolo minuto.

Ricapitoliamo brevemente l’antefatto di quella giornata memorabile.

Manfredi di Svevia,  figlio illegittimo di Federico II, incaricato di governare il Regno di Sicilia mentre il figlio legittimo, Corrado IV, si recava in Germania nel vano tentativo di farsi eleggere imperatore, alla morte di quegli si era autoproclamato re, spargendo la falsa voce della morte del figlio ed erede legittimo di Corrado, Corradino, e ignorando la scomunica del papa Innocenzo IV che prontamente si era abbattuta su di lui, nel 1254.

Erede non solo della prodezza, dell’intelligenza e dell’amore per la cultura del padre suo, Manfredi ne aveva ereditato anche il disegno politico, che non si limitava al Regno di Sicilia, ma mirava alla vittoria del partito ghibellino in tutta Italia e, dunque, alla lotta a oltranza contro le due principali forze che si opponevano a tale disegno: il Papato e i Comuni guelfi. La Santa Sede, da parte sua, rivendicava la sovranità, almeno in via teorica, sul Regno di Sicilia e quindi era portata a vedere il re di Sicilia come un usurpatore dei suoi diritti, oltre che come l’autore di una grave minaccia di accerchiamento, tanto più che lo stesso comune di Roma – con sua grandissima preoccupazione - si era dichiarato per Manfredi.

Nell’Italia Settentrionale il maggiore esponente del partito ghibellino, Ezzelino da Romano,  dopo la morte di Corrado IV si era dichiarato contro Manfredi, forse perché lui stesso puntava a raccogliere l’eredità imperiale di Federico II; ma era stato sconfitto nella battaglia di Cassano d’Adda, nel 1259, morendo subito dopo per le ferite riportate; mentre suo fratello Alberico periva atrocemente nel castello di San Zenone, l’anno dopo, trucidato, con tutta la famiglia, per opera di una lega guelfa formata da Veneziani, Padovani, Trentini e Vicentini.

Il partito ghibellino dell’Italia Settentrionale si era così ricostituito nel segno dell’alleanza con Manfredi, e la posizione di quest’ultimo si era ulteriormente rafforzata, sempre nel 1260, con la vittoriosa battaglia di Montaperti nell’Italia centrale, dove i Senesi, rafforzati da milizie tedesche, avevano fatto strage dei guelfi toscani e imposto alla stessa Firenze il ritorno di un governo ghibellino («lo strazio e ‘l grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso», dirà Dante nel canto decimo dell’«Inferno», parlando con Farinata degli Uberti).

Così, non solo Manfredi aveva riorganizzato il Regno di Sicilia, portandolo al livello di efficienza che possedeva al tempo dei Normanni e poi sotto suo padre Federico II, ma si candidava anche a diventare il signore di un’Italia riunificata sotto lo stemma della dinastia sveva: un progetto politico che Manfredi, non appesantito - come lo era stato suo padre – dalle complesse e lontane faccende del regno di Germania e dalle responsabilità della carica imperiale, sembrava in grado di perseguire con successo, concentrando tutte le sue forze nello scacchiere della Penisola.

La storia d’Italia, a quel punto, avrebbe potuto imboccare una direzione fino ad allora impensata: quella della riunificazione sotto il forte scettro di una dinastia che, pur essendo di origine straniera, sarebbe divenuta ben presto “nazionale” (si ricordi, del resto, che anche la dinastia dei Savoia, che sei secoli dopo porterà a buon fine tale progetto, era di origine straniera, e precisamente francese, se non addirittura burgunda, nel qual caso si dovrebbe considerare di origine germanica).

Non fa meraviglia che il nuovo papa, Clemente V, francese di nascita, abbia visto in tale eventualità il concretizzarsi del peggiore dei suoi incubi e si sia intensamente impegnato presso il suo connazionale Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia San Luigi IX, per spezzare l’accerchiamento e riportare il Regno di Sicilia sotto il controllo di una dinastia amica. Prima, però, il pontefice aveva tentato, in segreto, un estremo accomodamento con lo Svevo; fallite le trattative, si era rivolto interamente a giocare la carta angioina.

Carlo d’Angiò, uomo ambiziosissimo e senza troppi scrupoli, aveva già un piede in terra italiana: conte di Provenza, si era impossessato anche di Cuneo, Alba, Ventimiglia e altre terre, costituendo un saldo dominio nel Piemonte. Aperte le trattative con lui, Clemente IV gli concesse l’investitura del Regno di Sicilia, dietro la promessa che egli lo avrebbe governato come un feudo della Chiesa e che non avrebbe cercato in alcun modo di espandersi nel resto della Penisola, né che avrebbe mai aspirato alla corono di imperatore (nel quale caso la Chiesa si sarebbe trovata nella stessa situazione del tempo di Federico II).

Nel 1265 Carlo si era messo in marcia verso Sud, era entrato a Roma e aveva proseguito verso Napoli, sempre attanagliato da gravi difficoltà finanziarie, alla testa di un esercito ragguardevole e ben armato, formato da non meno di 30.000 uomini esperti e ben comandati. La sua marcia si era svolta in un clima di crociata contro lo scomunicato Manfredi: ai soldati angioini era stata promessa la remissione dei peccati e, naturalmente, era stata fatta balenare loro la ricompensa di un ricco premio terreno, sotto forma di feudi e ricchezze da confiscare al nemico.

Manfredi, da parte sua, si era reso conto di quanto poco salda fosse la fedeltà dei baroni napoletani e di come alcuni di essi si fossero messi immediatamente a trattare con il nemico, per aprirgli le porte del regno e consegnargli, senza colpo ferire, città e castelli. Per tale motivo, pur avendo stabilito di assumere una strategia difensiva, risolse di non indugiare oltre e di venire a battaglia decisiva, prima che le defezioni nel suo campo si estendessero in maniera incontrollabile. Era il 26 febbraio del 1266 e i due eserciti si trovavamo l’uno di fronte all’altro nei pressi di Benevento.

Così ha rievocato quella giornata memorabile il grande storico tedesco Ferdinand Gregorovius nella sua monumentale e affascinante «Storia della città di Roma nel Medioevo» (titolo originale: «Die Geschichte der Stadt Rom im Mittelalter», traduzione a cura di Luigi Trompeo, Gherardo Casini Editore, 1988, vol. V, pp. 452-57):

 

«Il 25 febbraio, ch’era di giovedì, [gli Angioini] sostarono in un bosco distante quindici miglia da Benevento; il venerdì, si fermarono sulle alture di Capraria. Di là Carlo mostrò alle sue truppe una città importante, che con le sue mura squarciate, era sita tra due fiumi:  essa era Benevento, capitale del Sannio, celebre un tempo nelle guerre dei Romani contro Annibale, florida residenza dei signori longobardi delle Puglie, più tardi città pontificia, da ultimo incorporata all’impero da Federico II.  Si vedeva da quell’altura la bella campagna bagnata dai fiumi Calore e Sabato, ed in essa si scorgevamo le lunghe file di fanti, e gli squadroni di pesante cavalleria tedesca, e i Saraceni di Lucera schierati in splendido ordine di battaglia. Mentre il nemico intendeva girare la posizione di Manfredi vicino a Capua, quest’ultimo  si era rapidamente spinto su Benevento, per tagliare a Carlo la via di Napoli e per offrirgli battaglia; in entrambe le parti i due capitani avevano  urgenti motivi di affrettare la battaglia. Mancanza intollerabile di tutto il necessario stimolava le truppe di Carlo;  in mezzo alla terra nemica, non rimaneva ad esse altra scelta  che vincere o morire. Manfredi poi vedeva innanzi a sé  il nemico fiaccato dalle lunghe marce, affamato, mal equipaggiato; ma intorno aveva anche facce di traditori, e di dietro le Puglie che già si ribellavano. Parecchi conti abbandonavano in segreto le sue file; altri rifiutavano il vassallaggio dovuto, sotto pretesto che dovevano andare a sorvegliare i loro castelli, altri aspettavano il momento della lotta per vendere il loro re. Anch’egli dunque doveva vincere o morire.

Nella notte del giovedì gli si erano uniti ottocento cavalieri tedeschi; sicché, rianimato, radunava a consiglio di guerra i suoi generali. Intorno a sé aveva i conti della famiglia dei Lancia, che alla sua corte tenevano i massimi onori;  erano fratelli o congiunti di sua madre Bianca,  e si chiamavano Galvano, Giordano, Federico, Bartolomeo e Manfredi Malecta; aveva con sé anche alcuni capitani ghibellini di Firenze e il prode  romano Teobaldo degli Annibaldi. Si consigliò di evitare battaglia fino a che fossero giunti rinforzi; ché Corrado di Antiochia, nipote di Manfredi, si trovava ancora negli Abruzzi, ed altre truppe dovevano venire dal mezzogiorno. Se si fosse adottato un tal partito, l’esercito di Carlo sarebbe morto di fame; ma il tempo incalzava, forse anche era di sprone l’onore cavalleresco e specialmente non conveniva fidarsi più dei traditori neanche un giorno solo.  Manfredi pertanto decise di attaccar battaglia; e questa fu opera dettata dalla disperazione tanto per Carlo quanto per lui. Il suo astrologo aveva fatto l’oroscopo, e assicurato che l’ora era fausta; e sì che la stella di Manfredi era giunta ormai all’estremo confine dell’orizzonte!

Egli divise il suo esercito in tre ordini: il primo forte di milleduecento cavalieri tedeschi, era condotto dal conte Giordano di Anglano; il secondo composto di toscani, di lombardi e di tedeschi e forte di mille cavalieri, aveva per capitani il conte Galvano e il conte Bartolomeo; il terzo era formato di vassalli pugliesi e di saraceni, in numero di circa mille quattrocento uomini a cavallo, con molti arcieri e fanti; lo comandava Manfredi in persona. In tale assetto il suo esercito passò il fiume Calore, e si schierò a nord-est della città, presso S. Marco, nel campo chiamato Grandella o delle Rose, e si fermò ad aspettare il nemico.

Frattanto, infatti, anche nel campo di Carlo s’era udito qualcuno consigliare che la battaglia  si differisse, perché le truppe erano stanche; ma il contestabile Gilles Le Brun li aveva costretti a tacere. Si disposero in tre ordini. Provenzali, francesi, genti di Piccardia, brabanzesi, soldati italiani e romani, fuorusciti pugliesi assetati di vendetta si schierarono sotto il comando di Filippo di Montfort, di Guido di Mirepoix, di re Carlo, del conte Roberto di Fiandra, del conte di Vendôme, del contestabile e di altri esperti capitani. I guelfi fiorenti,  desiderosi di vendicare la giornata di Montaperti, formarono una quarta divisione, sotto la guida del conte Guido Guerra; e quando, forti di quattrocento cavalieri, si spinsero innanzi nel campo, corruscanti di ricche armature, montati su magnifici destrieri e con splendide  insegne, chiese Manfredi  ai suoi seguaci donde venisse quella bellissima truppa; ed avendogli taluno risposto, essere i Guelfi di Firenze, sospirando esclamò: “Ah! Dove sono i miei ghibellini, pei quali feci tanto, e nei quali avevo riposto così grande speranza?”: Il vescovo di Auxerre  e i frati predicatori s’aggiravano nel frattempo  tra le truppe di Carlo, che ricevevano in ginocchio l’assoluzione, e Carlo di qua e di là andava dispensando l’ordine della cavalleria.

I saraceni con grande impeto aprono la mischia; gettando urla di guerra, si scagliano sulla minuta fanteria francese e a colpi di frecce la saettano terribilmente.  Allora s’avanza a cavalleria francese e fa strage dei saraceni, ma accorrono i cavalli tedeschi condotti dal conte Giordano, e gridando: “Svevia, Svevia, cavalieri!”, rompono quegli squadroni. A questo punto si ode un grido: “Montjoie!”; è la maggior legione di Carlo che viene all’attacco e la lotta che si riaccende fra  le due masse di cavalleria  decide le sorti della giornata. La celebre battaglia di Benevento  fu combattuta con appena venticinquemila uomini dalle due parti. La lunga e formidabile guerra fra la Chiesa e l’impero, fra romani e germanici, fu definita sopra un  angusto campo di battaglia, in poche ore e con pochi combattenti, ed invero l’ora che fosse decisa era scoccata. I francesi pugnavano con corte spade; i tedeschi secondo l’antico costume, con lungi spadoni. I colpi di punta e di taglio, della scuola romana, la vinsero sull’antica arte germanica d battagliare, come era avvenuto a Civita nell’undecimo secolo. I cavalieri di Carlo portavano in groppa fantaccini, e quando i cavalieri tedeschi precipitavano dalle loro cavalcature trafitte, quei fanti si lasciavano scivolare già di sella e li uccidevano a colpi di mazza.  Così perì la legione del prode Giordano;  e sebbene Galvano e Bartolomeo tenessero duro per un pezzo, anche questo fu inutile. I valorosi tedeschi si batterono e caddero con bravura;  e, simili agi antichi goti devoti alla morte, furono gli ultimi rappresentanti  di quell’impero germanico ch era sceso nella tomba con Federico II.

Come il re Manfredi, dalla collina su cui s’era messo, vide le sue truppe vacillare e cedere, fece scendere alla battaglia la terza schiera formata  di vassalli pugliesi e siciliani. È inconcepibile come mai invece egli non si fosse tenuto una riserva di tedeschi coi quali decidere la battaglia: gl’italiani se la diedero a gambe; e perfino Tommaso di Acerra, cognato di Manfredi, fuggì vilmente, onde altri baroni ne imitarono l’esempio  gettandosi dentro Benevento o negli Abruzzi.  Quando il re vide che tutto era finito, volle morire da eroe. I pochi rimastigli intorno lo consigliarono di riparare entro la terra, o di fuggire in Epiro per aspettarvi giorni migliori, alla corte del suocero. Ma egli sdegna di farlo, e comanda al suo scudiero di recargli l’elmo. E mentre se lo pone in capo, cade l’aquila d’argento che lo adorna, ed egli esclama: “Ecce signum Domini!”, e senza insegna regia si scaglia fra i nemici cercando la morte, seguito dal suo generoso amico Teobaldo Annibaldi, che vuol farsi uccidere con lui. Quando sul campo di Benevento scesero le ombre della notte, il cupo vincitore si ritirò nella sua tenda e dettò questa lettera al papa: “ Dopo fiera battaglia delle due parti, noi, con l’aiuto divino, sbaragliammo le due prime divisioni del nemico, sicché tutti gli altri cercarono salvezza nella fuga.  Fu così grande il macello nel campo, che i cadaveri tolgono la vista del suolo. Né tutti i fuggiaschi scamparono;  molti ne raggiunse la spada dei nostri che li inseguirono: molti furono fatti prigionieri e tratti alle nostre carceri…»

 

Il corpo di Manfredi venne poi riesumato e disperso fuori dai confini del Regno per iniziativa dell’arcivescovo Bartolomeo Pignatelli, vescovo di Cosenza - che nutriva un profondo odio personale per lo Svevo - e con il consenso di papa Clemente V.

Il fatto è stato ricordato nei versi immortali di Dante, che fa parlare l’anima dello stesso Manfredi («Purgatorio», III, 121-35): «Orribil furon li peccati miei; / ma la bontà divina ha sì gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei. / Se ‘l pastor di Cosenza, che alla caccia / di me fu messo per Clemente allora, / avesse in Dio ben letta questa faccia, / l’ossa del corpo mio sarìeno ancora / in co del ponte presso a Benevento, / sotto la guardia della grave mora. / Or le bagna la pioggia e move il vento / di fuor dal regno, quasi lungo il Verde, / dov’e’ le trasmutò a lume spento. / Per lor maladizion sì non si perde, che non possa tornar l’etterno amore, / mentre che la speranza ha fior del verde.»

Per il partito ghibellino in Italia la sconfitta di Benevento fu il segnale di un declino irreparabile, e così pure per il sogno di una riunificazione della Penisola sotto la dinastia sveva. Anche se la potenza angioina verrà ben presto indebolita dalla guerra del Vespro (1282-1302: dai Vespri Siciliani alla pace di Caltabellotta) e dall’insediamento degli Aragonesi in Sicilia, e anche se Corradino di Svevia farà ancora un disperato, tragico tentativo per riconquistare la corona paterna, finendo sconfitto a Tagliacozzo (1268) e quindi decapitato per ordine di Carlo d’Angiò, ormai le sorti del partito ghibellino erano segnate per sempre. Firenze, tornata sotto la guida dei Guelfi, sconfiggerà Siena nel 1269, Pisa nel 1282 e Arezzo nel 1293 (con la famosa battaglia di Campaldino, cui parteciperà anche Dante). I Ghibellini sono ovunque cacciati in esilio e, come dirà il Poeta al conte Ugolino, non apprendono l’arte di ritornare nelle rispettive città: la loro stella è tramontata per sempre.

Una nuova fase nella storia d’Italia sta incominciando.