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I Kurdi: storia di una nazione senza Stato

di Gianni Sartori - 11/03/2014



Il popolo curdo, tra i più antichi del vicino oriente e con più di tremila anni di storia, non ha mai avuto un'entità statale duratura e stabile. Nel 612 a.C., insieme ai Persiani, sconfisse gli Assiri, leggendari per la loro ferocia. Leader della rivolta fu un fabbro curdo di nome Kawa.
 Il carattere nomade e feudale della società curda, con il potere esercitato nelle diverse regioni dai rispettivi capitribù, non ha favorito una mentalità disponibile a riconoscersi in un'autorità centrale: volontà egemoniche, estranee agli interessi del popolo curdo, hanno cercato in ogni modo di spezzare e cancellarne unità e identità.
 Nel 1639 (accordo di Kasiri-Sirin) si è avuta la prima divisione del Kurdistan, tra l'impero ottomano e quello persiano. La seconda divisione, dopo alcuni secoli, venne decisa dal trattato di Losanna del 24 luglio 1923 -con l'influenza decisiva dei paesi europei- ed è quella che ha sancito la divisione del Kurdistan tra la Turchia, l'Iran, l'Iraq, la Siria.
 Per capire come ciò sia stato possibile, occorre considerare che i curdi hanno combattuto durante la 1ª guerra mondiale per la Repubblica Turca contro francesi e inglesi -stati europei che, come la Germania, avevano occupato il Kurdistan- in cambio della promessa di veder riconosciuta la propria identità. Ma alla fine della guerra, nonostante nel 1920 il Trattato di Sevres, avesse posto le condizioni per la creazione di uno stato curdo indipendente (progetto a cui era favorevole il presidente statunitense Wilson), i kemalisti, fautori dell'ideologia che afferma l'esistenza della sola identità turca all'interno dei confini dello stato, non rispettarono gli accordi e imposero una politica di assimilazione e di fortissima repressione.
 Tenendo conto della non omogeneità della popolazione curda -un sistema feudale all'interno del quale si parlavano diversi dialetti e venivano praticate le più diverse religioni- si mirava ad occupare una alla volta le diverse regioni, in vista di un controllo di massa nel territorio curdo. Inevitabilmente scoppiarono molte rivolte (1925, 1930, 1937), soffocate nel sangue: i kemalisti trucidarono milioni di curdi che si erano rifiutati di rinnegare la propria identità per confondersi con quella turca. Fu il periodo denominato dello “sterminio rosso”.
 Dopo il 1940 i turchi usarono una strategia diversa per raggiungere il medesimo obiettivo, attraverso l'assimilazione, con l'insediamento di scuole turche in ogni paese e villaggio. I bambini, sottratti alle famiglie, erano obbligati a frequentare le scuole fino all'età di 16-17 anni con il divieto assoluto di parlare curdo (una lingua di origine iranica) e la possibilità di incontrare i genitori solo una o due volte l'anno. Gran parte dei familiari di quelli che avevano partecipato alle rivolte, intanto, erano costretti all'esilio. Questo periodo è passato alla storia (la storia curda, naturalmente) come quello dello “sterminio bianco”. 
Va sottolineata la doppiezza della diplomazia turca che riuscì, durante tutto il periodo della guerra fredda, ad avere l'appoggio sia degli Stati Uniti che dell'Unione Sovietica. Va ricordato che durante l'impero ottomano, benché si tendesse ad assimilare i popoli dell'impero alla cultura turca -lo stesso generale Kenan Evren, ad esempio, responsabile del colpo di stato negli anni Ottanta (quando i colpi di stato in Turchia si susseguivano con scadenza decennale) era di origine balcanica- al Kurdistan era tuttavia concessa una certa autonomia. Veniva anche consentita l'istituzione di scuole locali nelle quali trovavano spazio la lingua e la cultura curda.
 Lo stato secolare turco, invece, portò alle estreme conseguenze la politica nazional- assimilazionista.

Tra il gennaio e il dicembre 1946 si realizza la breve esperienza di autogoverno curdo della “Repubblica curda di Mohabad”. Fondata in Iran da Mustafa Barzani approfittando delle presenza delle truppe sovietiche, finì in un bagno di sangue. Il presidente del governo curdo, il religioso Qazi Muhammad, venne catturato e poi impiccato dagli iraniani. Per  alcuni storici curdi si sarebbe trattato di “un vero tradimento da parte di Stalin che preferì richiamare i suoi soldati  e abbandonare i curdi al loro destino”. Per sfuggire alla forca Mustafa Barzani si rifugiò in Unione sovietica per 11 anni. Sarebbe rientrato nel Kurdistan “iracheno” (da dove nel 1946 aveva raggiunto Mahabad) con l'avvento al potere del regime repubblicano di Kassem. Dopo in breve periodo di riconciliazione e convivenza, Barzani e il suo movimento, il Partito democratico curdo (PDK), ripresero le armi per combattere contro il governo centrale di Bagdad (1962-1963). L'11 marzo 1970 il nuovo regime baasista iracheno firmava un accordo con il PDK che accoglieva in parte le richieste dei curdi riconoscendoli come la seconda nazione (insieme agli arabi) del paese. In seguito Barzani, ormai apertamente schierato con gli Usa, ritornerà in Iran per poi, fino alla morte nel marzo 1979, andare a vivere negli Stati Uniti. Una parte del PDK, quella diretta dal figlio di Barzani, entrerà a far parte del Fronte nazionale progressista iracheno. L'11 marzo 1974 nell'area curda dell'Irak si era costituita una regione autonoma con capitale Erbil (ma con l'esclusione dell'area petrolifera di Kirkuk). Il conflitto tra curdi e Bagdad riprenderà comunque nella seconda metà degli anni settanta.

In Turchia per qualche anno l'identità curda era sembrata rimanere “in letargo” e il popolo sembrava avviato a perderne la piena coscienza. Con una legge discriminatoria la lingua curda era stata messa fuori legge dal governo di Ankara (assolutamente proibito parlare curdo): un tentativo per estirpare il "problema curdo" alle radici ed impedire che altre rivolte potessero mettere in crisi l'autorità egemonica dello stato turco. Ma il vento rivoluzionario che all'epoca spirava in tutto il mondo (l'esempio di Che Guevara e del Vietnam, il divampare delle lotte di liberazione in Africa, Asia e America latina...) portò  nuova linfa anche alla resistenza curda.
 A riprendere la lotta, insieme ad alcuni compagni, sarà uno studente in scienze politiche all'università di Ankara, il curdo Abdullah Ocalan,  futuro leader del PKK. Dopo gli anni di dura repressione di ogni dissenso seguiti al golpe del 1980, il governo di Turgut Opzal (Partito della Madre Patria) cercò di promuovere alcuni progetti di rinnovamento sociale, politico ed economico (tra cui la liberalizzazione del commercio estero, la riforma dell'amministrazione pubblica e il ripristino di un sistema democratico). Mentre la Turchia chiedeva di aprirsi all'Europa, la Ue decideva di bloccare un assegno di 600 milioni di dollari per le evidenti carenze di Ankara in materia di diritti umani. Poco male: l'ospitalità offerta agli Usa (sei basi militari Nato) consentiva al governo turco di incassare oltre un miliardo di dollari. E intanto per i curdi la situazione rimaneva sostanzialmente la medesima. Dal 1988 al 1993 si contano più di 40 azioni militari di ampia portata nelle zone curde. L'esercito turco fece anche uso di armi chimiche - gas nervino - in particolare nel villaggio di Hani (nei pressi di Dijarbakir), sulle aree forestali (Ovarcik, Pertek...) e sul monte Gabar dove si nascondevano i guerriglieri del PKK. Interi distretti (Yayladere, Perwari, Silvan, Siirt...) vennero bombardati dai turchi con armi chimiche tra il 1991 e il 1992. Duramente colpite le località di Palamut, Umurlu, Eskicek, Bassine, Emte, Erzurum. Nel 1993 è la volta dell'area del monte Nurhak (Musabag, Tilkiler...) con molti villaggi rasi al suolo per costringere i curdi ad abbandonare i loro territori. Quanto al PKK, nel 1993 compie decine di spettacolari azioni dimostrative in territorio europeo contro consolati turchi, uffici turistici e banche che hanno rapporti con la Turchia.

Nel frattempo il regime iracheno non era rimasto a guardare. Il 18 marzo 1988 nel villaggio di Halabja (Kurdistan “iracheno”) almeno 5mila persone avevano perso la vita a causa del gas nervino (ma anche napalm, fosforo bianco, cianuro...) sganciato dalle truppe di Saddam Hussein, in quel momento “baluardo” e alleato dell'occidente.

 

Probabilmente il PKK è la più nota tra le organizzazioni curde. La sua storia richiede un ulteriore approfondimento.

Verso la fine degli anni sessanta, complice il clima di rivolta che si aggirava per l'intero pianeta, l'allora studente in scienze politiche all'università di Ankara, il curdo Abdullah Ocalan ed alcuni studenti turchi decisero di prepararsi alla lotta armata, con un programma politico di sinistra che però non contemplava la questione curda. Un colpo di Stato nel 1971 stroncò sul nascere le loro velleità: arresti quotidiani ed uccisioni in massa (molti saranno impiccati) ridussero ai minimi termini l'area legata alla sinistra radicale turca. Anche Abdullah Ocalan viene arrestato; trascorre in carcere sette mesi durante i quali valorizza la sua identità curda approfondendo la storia della sua nazione. Quando esce, insieme a due turchi, Haki Karer e Kemal Pir, promuove una conferenza ad Ankara, propedeutica ad un successivo seminario ed esordisce affermando che, all'interno dello Stato nazione turco, sono presenti due nazionalità: quella turca e quella curda.
 I tre danno vita ad un movimento che fino al '75 si impegna nello studio della storia curda, nella formazione politica dei militanti e del loro inquadramento nell'organizzazione. Le autorità turche seguono con attenzione il movimento; di contro, le organizzazioni di sinistra turche negano ogni sostegno politico e finanziario al nuovo movimento, nell'errata convinzione che i curdi avessero ormai perso coscienza della loro specificità etno-culturale. Così, nel 1975, tra i 40 e i 50 studenti decidono di rientrare in Kurdistan sparpagliandosi in 2-3 per città e paesi. I risultati non si fanno attendere e dopo circa tre anni, nel '78, la popolazione già li sosteneva apertamente. Nel '77, preoccupato per quello che stava avvenendo, il governo turco fa assassinare dai servizi segreti un esponente turco del movimento. Il messaggio è evidente: tutti i militanti sono in pericolo di morte. Il '78 vede la nascita del PKK e la repressione si fa più brutale e molti civili vengono massacrati dagli squadroni della morte. E' storicamente confermato che colpo di Stato del 1980 venne attuato per colpire innanzitutto i curdi e, tangenzialmente, le organizzazioni della sinistra turca. Le autorità sono a conoscenza del fatto che il PKK sta allestendo basi per praticare la guerriglia e migliaia di militanti del PKK vengono arrestati.
 Nel 1982 la lotta si estende nelle carceri, condotta da 7-8mila prigionieri politici. Solo 200 militanti, tra cui Ocalan, sfuggono alla repressione spostandosi in Libano per addestrarsi ed organizzare la lotta armata. Intanto nel Kurdistan la repressione prosegue ad alti livelli di intensità. Libri scritti in curdo vengono bruciati, la popolazione è sottoposta quotidianamente a minacce e vessazioni; ma è sui numerosi prigionieri che si concentra la brutalità del governo che cerca, invano, di innescare dinamiche di “pentimento” e delazione.
 Alcuni fondatori del partito vengono rinchiusi nel famigerato carcere di Diyarbakir. Durante il capodanno curdo -Newroz- che cade il 21 marzo e che è stato vietato negli anni Venti dalla repubblica turca, Haki Karer, si dà fuoco per lanciare un segnale alla popolazione. Il medesimo gesto estremo verrà compiuto, in maggio, da altri quattro dirigenti. Un mese dopo, sempre nel carcere di Diyarbakir, Kemal Pir muore dopo 65 giorni di sciopero della fame, seguito da altri quattro militanti.
 Per tutto l'82 continua la preparazione alla guerriglia presso i campi palestinesi che offrono ai 200 militanti del PKK la possibilità di addestrarsi. Il PKK contraccambia partecipando alla guerra contro gli israeliani nella quale rimangono uccisi 20 curdi. Nel 1983 Ocalan indice la prima conferenza con la quale annuncia l'intenzione di tornare nel Kurdistan insieme a 200 guerriglieri per intraprendere la lotta armata, considerata come l'unica possibilità contro la politica etnocida del governo turco.
 Il rientro in patria si accompagna ad un'azione spettacolare: un'intera cittadina viene conquistata e l'esercito turco, sconfitto, è costretto ad abbandonare il campo. Negli anni '84-'85 si avverte la necessità di creare un fronte che organizzi la popolazione e renda politicamente più efficace l'azione del PKK stesso. Nasce così l'ERNK (Eniya Rizgariya Netewa Kurdistan, il Fronte di Liberazione Nazionale del Kurdistan), organizzazione interclassista di intellettuali, studenti, operai, rappresentativa di ogni settore della società curda, un fronte ampio che gode di un notevole sostegno di massa e che opera anche fuori dai confini del Kurdistan per far conoscere la lotta di autodeterminazione del popolo curdo.
 Molti militanti si stabiliscono temporaneamente all'estero dove, imparando la lingua del posto, fanno da cassa di risonanza a quanto avviene in Kurdistan; in questo modo la cortina del silenzio imposta dal governo turco viene contrastata e le notizie date quasi in tempo reale. 
Il 24 giugno 1993 decine di militanti del PKK attaccano e occupano contemporaneamente i consolati turchi in Germania: a Monaco (dove tengono in ostaggio una ventina di persone), Essen, Munster, Stoccarda e Hannover. A Berlino, Colonia, Francoforte e Dortmund colpiscono sedi di banche, uffici turistici e la Turkisch Airlines. La sede della compagnia aerea turca viene attaccata anche a Lione, mentre un gruppo di curdi irrompe nel consolato turco di Marsiglia. Altre azioni del PKK avvengono in Svezia e Danimarca contro uffici turistici. In Svizzera, dopo che l'ambasciata turca di Berna è stata circondata da una folla di curdi, un funzionario apre il fuoco uccidendo un manifestante. Dalle pagine del Corriere della sera, in un'intervista, Abdullah Ocalan minaccia di “colpire in Turchia, nelle località turistiche; colpiremo anche gli obiettivi turchi nel cuore dell'Europa”. Nell'estate del 1993 vengono sequestrati dai guerriglieri alcuni turisti europei (inglesi, francesi, tedeschi, neozelandesi, italiani, svizzeri, austriaci..) trovati in territorio curdo “senza lasciapassare del PKK”. Verranno presto tutti rilasciati, tranne un austriaco di cui non si avranno più notizie. Il 4 novembre 1993, nuova serie di attacchi agli obiettivi turchi in Germania. Viene colpito anche un centro commerciale di Wiesbaden e una persona perde la vita nell'incendio provocato da una molotov. Contemporaneamente, vengono assaliti i consolati turchi di Hannover, Stoccarda, Dusseldorf, Colonia e Karlsruhe. Colpita anche una sede del giornale turco Hurriyet a Neu Isenburg. Altre manifestazioni vengono organizzate a Copenaghen, Londra, Vienna, Zurigo, Ginevra, Francoforte, Strasburgo...

Immediate le ritorsioni del primo ministro turco Tansu Ciller che invia nuovamente l'esercito nelle zone curde. Nel dicembre 1996 l'ERNK poteva affermare senza timore di smentite che “la guerra dura ormai da 12 anni (dall'inizio della lotta armata nel 1984, nda), smentendo tutte le previsioni fatte, di tempo in tempo, dai vari governi turchi che, confondendo il desiderio con la realtà, ci danno regolarmente per spacciati nell'arco di un paio di mesi, quando non di settimane. L'A.R.G.K. (Esercito Popolare di Liberazione del Kurdistan) – continuava il comunicato- può contare su 50mila uomini/donne ed un sostegno enorme tra la popolazione; controlla le montagne ed anche alcune città dove l'esercito turco non può mettere piede ed è riuscito a fermare, con un contrattacco, un'offensiva di 10mila soldati turchi, ai primi di novembre 1996, sul confine turco-irakeno”. 
Sempre secondo l'ERNK “la lotta armata, oltre a svolgere un ruolo insostituibile di autodifesa, serve a mantenere viva la coscienza identitaria ed è uno strumento per aprire il dialogo ed arrivare ad una soluzione negoziata del conflitto. È dovere di ogni popolo combattere, anche con le armi se necessario, per difendere i propri diritti e la democrazia. 
Accanto all'esercito abbiamo creato tutte le strutture di cui uno Stato ha bisogno per rappresentare gli interessi del popolo. Non è stato un lavoro facile, ostacolato dalla repressione turca e dalla società feudale che non ha potuto modernizzarsi, come per altre popolazioni, proprio a causa della mancanza di autodeterminazione che ha caratterizzato gran parte della storia curda. Ora il popolo è pronto; il PKK ha lavorato perché l'obsoleta logica feudale fosse superata anche sul piano -altrettanto fondamentale- della mentalità. Grossi passi avanti sono stati fatti”.

Ma, anche in questi momenti di forza del movimento di liberazione, i curdi non escludono le possibilità di dialogo e soluzione politica, anzi. “E' nostra intenzione –proseguiva il comunicato dell'ERNK del dicembre 1996 - aprire il dialogo con Ankara ed è in questa prospettiva che abbiamo per ben due volte proclamato il cessate il fuoco unilaterale. Il primo è durato 83 giorni a partire dal marzo 1993, il secondo quasi 9 mesi dal dicembre 1995  al 15 agosto '96. In entrambe le occasioni non c'è stato alcun segnale positivo da parte del governo turco, che ha anzi risposto continuando a bruciare villaggi e ad operare massacri tra la popolazione”. All'epoca era convinzione di molti osservatori che all'interno dello stato turco più di un politico fosse favorevole ad una soluzione negoziata del conflitto. Ma poi prevalse la paura di incorrere nella vendetta dei militari.
 Dopo la fine del secondo cessate il fuoco (agosto 1996), un attacco in grande stile della guerriglia curda contro l'esercito turco aveva portato alla  liberazione di molte zone poi controllate dall'ARGK. Inoltre la lotta si andava estendendo alle metropoli turche. Con manifestazioni e propaganda politica tra la popolazione, nelle strade e nelle piazze grazie anche alla collaborazione di una parte della sinistra turca e di organizzazioni pro curde.

Il PKK dichiarava di lottare “per costituire una federazione democratica garante dell'unità del popolo curdo e dei diritti delle minoranze presenti sul territorio; fautori di un socialismo democratico e popolare, auspichiamo un modello di democrazia partecipativa dove non sia negata la libertà personale ma tutti abbiano la possibilità di intervenire nelle scelte che più direttamente li riguardano.
 Siamo anticapitalisti, ma anche contrari al socialismo reale così come si è realizzato nell'ex URSS”. Sull'argomento lo stesso Abdullah Ocalan aveva scritto un libro in cui criticava profondamente un sistema che “aveva dimenticato le necessità della popolazione impedendo la realizzazione di un'autentica democrazia popolare”.
 Quanto all'analisi marxista, riteneva che “ può essere efficace in determinate circostanze ma deve essere sempre verificata nella realtà che spesso smentisce perfette analisi ideologiche”. Affermazioni queste che risalgono alla prima metà degli anni novanta. Sempre negli anni novanta, Ocalan aveva mostrato vivo interesse per il pensiero libertario di Murray Bookchin. In seguito, anche se segregato in una cella, il Mandela curdo ha voluto approfondire le teorie dell'autore di “L'ecologia della libertà” e consigliarne la lettura e la messa in pratica ai militanti del PKK. La sua richiesta di un incontro con il pensatore anarchico non si è purtroppo realizzata. Sia per gli ostacoli messi in campo dall'amministrazione carceraria che per le precarie condizioni di salute di Bookchin (deceduto qualche tempo dopo) che aveva espresso pubblicamente la sua ammirazione per il leader curdo imprigionato.

Schierato su decise posizioni anti-imperialiste, il PKK non ha mai fatto mistero della sua ostilità nei confronti della Nato. Anche se “non è questa la nostra preoccupazione principale, visto che  l'imperialismo aiuterebbe ugualmente la Turchia per tutelare i propri interessi che in quest'area strategica sono decisamente rilevanti”. Per poter aderire all'Alleanza atlantica, la Turchia aveva dovuto sottostare ad alcune condizioni tra le quali quella di partecipare alla guerra di Corea. Ma in realtà il governo turco inviò solo curdi che in migliaia persero la vita. Con la fine della guerra fredda, la Turchia assumeva una posizione strategica per gli Stati Uniti ed i loro alleati; escludendo Israele, infatti, la presenza statunitense nella regione era osteggiata da vari paesi, anche da quelli nemici tra loro, come l'Iraq e l'Iran.
 Quindi è facilmente intuibile che “se non intervenisse la Nato, interverrebbero direttamente gli Stati Uniti o la Germania”. Appare evidente come negli ultimi anni la Turchia abbia sostituito il ruolo ricoperto in passato da Saddam, quello di “cane da guardia dell'Occidente”. La Nato ha rappresentato un fondamentale sostegno finanziario per la Turchia: nel solo anno 1995 venivano stanziati 7 miliardi di dollari americani per spese militari (poi utilizzati quasi interamente in funzione anti PKK), arrivando nel 1996 a 10 miliardi. Una vera escalation, con gran parte della somma coperta dall'organizzazione atlantica. Ma il fatto che gli Stati Uniti usino la Turchia non significa che la Turchia sia automaticamente più forte per questo. Talvolta l'appartenenza alla Nato ha comportato anche qualche problema per Ankara. Il 17 novembre 1996, a Parigi, i delegati turchi alla riunione annuale della Delegazione interparlamentare della Nato avevano avuto una brutta sorpresa. La delegazione italiana (in particolare il presidente della commissione Esteri del Senato, Giangiacomo Migone) poneva la questione della vicenda curda e imponeva di discuterne  nella riunione nonostante le proteste di Cahit Kavak, deputato del partito turco Anap.  Alle sue dichiarazioni - “i curdi non esistono, esiste il terrorismo del PKK” -  si rispondeva che “il PKK è comunque parte del popolo curdo”. La conclusione è stata che una delegazione della Nato sarebbe partita quanto prima per verificare la situazione della popolazione curda in Turchia. Da parte sua PKK aveva più volte messo in guardia i paesi aderenti alla Nato per la loro politica di sostegno al regime repressivo.

Nel decennio precedente alla cattura di Ocalan (1999), nei territori liberati si realizzarono, pur tra mille difficoltà, forme di autogoverno della popolazione curda. “A partire dal 1990 -ci spiegava AHMET YAMAN - quando abbiamo preso il controllo delle montagne, i tribunali si sono svuotati perché la partecipazione popolare, ampia in ogni settore, riduceva al minimo i contrasti, venendo ogni controversia chiarita all'origine.
 La milizia popolare che abbiamo costituito, sostituendo le vecchie strutture di repressione turche, è composta da milioni di curdi ed opera attivamente sul territorio pronta ad aiutare la popolazione ed a raccoglierne le istanze”.

PARTITI CURDI IN TURCHIA

Per quanto riguarda i partiti politici a base curda (spesso definiti, sbrigativamente, la “vetrina politica” del PKK), nel 1991 era sorto  l'HEP (Partito del Lavoro) in breve tempo messo fuori legge. La stessa sorte toccò al DEP (Partito della Democrazia) fondato nel 1994. Ai suoi 22 deputati venne negata l'immunità parlamentare. Costretti a fuggire all'estero, davano vita al Parlamento curdo in esilio. Emblematico il caso della parlamentare Leyla Zana, condannata a 15 anni insieme ad altri deputati per reati di opinione. In seguito, sempre nel 1994,  era nato l'HADEP (Partito della Democrazia del Popolo) con l'obiettivo di “aprire il dialogo con proposte di pace”, le stesse che proponeva il PKK. Sicuramente con l'HADEP il governo turco si è lasciato sfuggire una possibilità storica. Quella di un valido interlocutore con cui avviare trattative per una soluzione politica; un'opportunità alternativa al dialogo diretto con il PKK, forse inaccettabile per l'opinione pubblica turca.
 Con le elezioni del dicembre 1995, l'HADEP diventava il primo partito nel Kurdistan turco (53% dei voti). Ma, a causa dello sbarramento del 10% istituito ad hoc, non poteva essere rappresentato in Turchia. Su HADEP, oltre alle accuse di terrorismo, si è pesantemente abbattuta la violenza di Stato: distruzione di sedi, arresti, decine di attivisti assassinati. Calcolando anche quelle di HEP e DEP (i predecessori dell'HADEP) le vittime furono oltre un centinaio tra il 1990 e il 1996. Migliaia i casi di tortura.
 Nel luglio 1996, più di 30mila persone hanno partecipato ad Ankara al congresso del partito, testimoniando un considerevole appoggio popolare. Per ritorsione il governo turco avviava un procedimento per mettere anche questo partito curdo fuori legge. La terza udienza al processo aperto dalla Corte di Sicurezza dello Stato contro l'HADEP  si è tenuta il 22 novembre 1996. Mentre due giovani militanti, accusati di aver ammainato la bandiera turca durante il congresso del partito, rischiavano la condanna a morte, per 43 dirigenti dell'HADEP, tra cui il presidente Murat Bozlac, venivano richieste condanne fino a 22 anni di carcere (per “separatismo” e legami con il PKK). Come da manuale, rimanevano invece sconosciuti e in libertà gli assassini di 4 delegati curdi, uccisi mentre facevano ritorno a casa all'indomani della violenta irruzione della polizia nella sede del congresso.