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I “cancer villages” in Cina

di Laura Gardin - 29/03/2014

Fonte: centroitalicum

Li chiamano “cancer villages”, ovvero villaggi del cancro, e sarebbero, secondo alcune fonti, almeno 459 località sparse in tutte le province della Cina, ad eccezione di quella del Quinghai, estremo ovest del Paese e Tibet. Il termine “sarebbero” è quanto mai appropriato, poiché studi ufficiali non ce ne sono e gli unici dati disponibili sono raccolti da ONG, istituti di ricerca indipendenti e qualche media cinese: il governo, infatti, evita ostinatamente di esprimersi su qualsiasi argomento riguardante i lati negativi del prorompente sviluppo industriale, ovvero l’ipotesi che esista un legame tra inquinamento ed aumento dei casi di cancro.

Queste località sono di solito piccole comunità che, nell’ultimo decennio, per effetto della crescita industriale della Cina si sono trovate a convivere con fabbriche altamente inquinanti come stabilimenti farmaceutici, industrie per la produzione di fertilizzanti o di agenti chimici. Nessuna legge regolamenta se ed in che modo debbano essere trattati gli scarti di lavorazione ed i rifiuti industriali: pertanto, tutti gli stabilimenti, scaricano le proprie scorie direttamente nei fiumi. Le immediate conseguenze per gli abitanti dei villaggi adiacenti, abituati a vivere grazie alle risorse naturali del territorio, sono la perdita dell’approvvigionamento di acqua potabile (con ricadute dirette sulla salute degli animali da cortile e sulle coltivazioni) e la rapida diminuzione (o, in alcuni casi, totale sparizione) delle risorse ittiche. Gli effetti a lungo termine sono, però, ancora più spaventosi: sembra infatti che in questi villaggi i casi di cancro siano sopra la media, soprattutto nelle fasce di età di solito meno a rischio come giovani e bambini.

Un tipico esempio di “cancer village” può essere Yanglingang, un piccolo paese situato nella provincia di Anhiu (est della Cina): senza un impianto pubblico per la distribuzione dell’acqua, gli abitanti di Yanglingang si sono sempre riforniti al vicino fiume, ricco inoltre di pesce; finché, nei primi del 2000, il governo non vi costruì nella adiacenze una nuovissima zona industriale. Da quel momento, la polvere e la cenere provenienti dallo stabilimento cartario e da quello di fertilizzanti hanno iniziato a ricoprire i campi, le case, le barche, mentre le acque di scarico rilasciate nel fiume Yangtze segnavano le rocce sulla riva con una continua linea marrone; gli abitanti purificano l’acqua con polvere di allume (alum powder) per renderla potabile, ma anche se ben trattata il sapore non è per niente gradevole. Il villaggio di Yanglingang conta solo un centinaio di persone, e dal 2003 ci sono state ben 11 morti accertate per cancro; sono in aumento, inoltre, patologie respiratorie e sindromi rare tra i bambini: sembra che in ogni famiglia ci siano problemi di salute.

Di Yanglinlingang, più o meno grandi, in Cina ce ne sarebbero quindi diverse centinaia. Ma anche le metropoli hanno i loro problemi: a Pechino, per esempio, capitale dell’ex Celeste Impero, lo smog è diventato un problema talmente serio da causare la chiusura di uffici e scuole.  Nel corso del 2013, in corrispondenza di particolari condizioni metereologiche, sono infatti accaduti degli episodi in cui l’inquinamento atmosferico era talmente fitto da oscurare i raggi del sole; nell'aria è stata rilevata una concentrazione di polveri sottili nocive pm 2,5 pari a 602,5 microgrammi per metro cubo, mentre il limite di sicurezza indicato dall'Oms è di 25 microgrammi. Il Governo, dato anche il disagio creato alla viabilità, ha dovuto prendere delle immediate contromisure chiudendo scuole ed edifici pubblici, limitando la circolazione di automobili ecc. Problemi simili, ma maggiormente frequenti, li hanno anche Shangai, capitale finanziaria della Cina, e la città di Harbin, capoluogo nella provincia della Manciuria che conta oltre dieci milioni di abitanti. In quest’ultima località è capitato di raggiungere fino 1000 microgrammi di particelle PM2,5 in una sola giornata: a causa della fitta nebbia di smog sono stati cancellati oltre 250 voli

Ma, per quanto riguarda la messa in atto di misure preventive per il futuro, l’unico provvedimento del Governo è stato quello di innalzare la soglia di allarme per i pm 2.5 a 115 microgrammi per metro cubo, contro i 75 di prima. Cercare di limitare il traffico con targhe alterne e restrizioni alla circolazione sono misure irrilevanti, in un Paese che copre gran parte del proprio fabbisogno energetico con il carbone (68,4%).

Fermo restando che il preciso collegamento tra sostanze inquinanti e sviluppo di forme tumorali è, ancora, scientificamente da dimostrare, secondo alcuni studi l’indice di mortalità per cancro, in Cina, è cresciuto dell’80% negli ultimi 30 anni. Nelle grandi città il fattore che rende la salute più a rischio sembra essere l’inquinamento dell’aria, spesso irrespirabile; nelle zone periferiche, invece, è l’acqua il principale sospettato. Il problema riguarda ormai tutto il territorio cinese a partire dalle risorse idriche, con due terzi dei fiumi inquinati

Ammesso e non concesso che l’inquinamento sia davvero una causa che possa favorire la comparsa di tumori è invece fuori da ogni dubbio che l’ecosistema ne risenta, con conseguenze immediate, a medio ed a lungo termine: acqua non potabile, aria irrespirabile, scomparsa o ampia diminuzione di specie animali, compromissione dell’equilibrio bio-ecologico.. E’ giusto, quindi,  correre il rischio di sacrificare la salute della popolazione e dell’ambiente di uno Stato in nome dello sviluppo economico? E’ plausibile per noi, Stati del Primo Mondo, fare la morale sui danni causati dall’inquinamento ai Paesi in Via di Sviluppo, dopo che abbiamo adottato lo stesso atteggiamento per decenni?

Una fredda nebbia cala sulla città nei primi giorni di dicembre: di conseguenza gli abitanti alimentano maggiormente i sistemi di riscaldamento a carbone, la cui combustione, a sua volta, provoca un aumento dell’inquinamento atmosferico che per il fenomeno dell’inversione termica viene intrappolato a terra dalla massa di aria fredda soprastante. La nebbia è così spessa che la circolazione automobilistica diviene pressoché impossibile, lo smog entra negli edifici impedendo le rappresentazioni teatrali e cinematografiche: non si riesce a vedere il palco o lo schermo! L’autorità sanitaria registra, nella prima settimana dall’inizio del fenomeno, 4000 decessi superiori alla media dovuti a infezioni dell’apparato respiratorio, bronchite acuta e polmonite. Seguono altri 8000 morti nelle settimane successive. Non stiamo parlando di una metropoli cinese dei giorni nostri, come quelle menzionate poco sopra, ma del Grande Smog che colpì Londra tra il 5 ed il 9 dicembre 1952.

Ovviamente questa è solo una delle tante catastrofi causate dall’inquinamento che hanno colpito il mondo occidentale; l’uomo ha da sempre modificato l’ambiente per i suoi scopi, persino gli antichi romani avvelenavano i fiumi estraendo metalli preziosi, ma è solo con l’industrializzazione moderna che l’impatto antropico sull’ecosistema diventa particolarmente esteso e rilevante, facendo comparire il problema dell’inquinamento su larga scala. Di contro, la consapevolezza di questo pericoloso effetto collaterale non crebbe con la stessa velocità dello sviluppo economico e industriale: nel XIX Secolo infatti, la relazione tra sfruttamento delle risorse, progresso umano e tecnologico e degrado ambientale non fu presagita nella sua gravità anche perché le principali critiche politiche verso il sistema capitalistico-tayloristico si incentravano prevalentemente sugli effetti sociali del sistema, piuttosto che su quelli ambientali. Questi ultimi furono percepiti in momenti definiti all’interno di un orizzonte sanitario minacciato, come quando gravi epidemie colpirono le popolazioni urbane facendo emergere, nel tempo, il concetto d’igiene pubblica.

La consapevolezza della vitale importanza nel caso della protezione delle risorse idriche fu ulteriormente lontana dal realizzarsi. Le cicliche epidemie veicolate dall’acqua, di colera in particolare, nel corso dell’800 testimoniano l’arretratezza igienica e culturale delle aree urbanizzate, di gran lunga le più colpite, oltre ad evidenziare chiaramente la limitata efficacia dei provvedimenti socio-igienici predisposti per sanare, o almeno ridurre, i contagi. La prevenzione dall’inquinamento microbico si limitò alla salvaguardia della salute pubblica in sé, in senso restrittivo, mentre non si presero provvedimenti contro l’inquinamento delle acque al di fuori dei centri abitati. Il nodo centrale dell’inquinamento industriale fu quindi regolato da leggi sanitarie: la raccolta delle acque doveva essere sistematica mentre quelle utilizzate nei cicli industriali e sature di sostanze inquinanti e tossiche non preoccupava se venivano scaricate nei fiumi o nel mare, purché a distanza dei grandi centri urbani. Non era ancora chiaro il legame che sussisteva fra  sfruttamento intensivo del territorio e delle risorse e l’inquinamento che si produceva nello stesso; in taluni casi ciò arrivava a dar luogo ad imponenti fenomeni di erosione o desertificazione e normalmente si confidava semplicemente nella capacità della natura di auto-rigenerarsi

Ai tempi si riteneva inoltre che i negativi effetti derivanti dallo sfruttamento territoriale potessero essere risolti grazie a ipotetiche e salvifiche soluzioni tecnologiche, senza necessitare un ripensamento tout court del modello di sviluppo scelto. Lo sviluppo delle industrie britannico, per esempio, produsse una notevole crescita di alcuni centri urbani in precedenza relativamente modesti (Liverpool, Manchester), aumentando così i problemi igienico-sanitari esistenti e creandone di nuovi. Questa dinamica spinse molti contemporanei ad interrogarsi sull’invivibilità ambientale e sociale delle città inglesi. Nei centri urbani crebbero disordinatamente quartieri nei posti più sfavorevoli: vicino alle industrie e alle ferrovie, lontano dalle zone verdi. Le fabbriche disturbavano le case con i fumi e con i rumori, inquinando i corsi d’acqua, e attirando un traffico veicolare che si sommava a quello residenziale. L’industrializzazione pervasiva ed intensiva fu comunque ritenuta un male accettabile ma necessario in quanto portava dei risultati immediati e decisamente positivi in termini di occupazione,  aumento del reddito complessivo, crescita dei consumi, aumento del tenore di vita della popolazione.

La grande ricchezza prodotta e la promessa del benessere diffuso frenarono l’azione politica di controllo nei confronti di processi chiaramente deleteri per l’ecosistema e le persone, finché essi non rappresentassero una minaccia immediata e diretta alla salute pubblica. Non esisteva, infatti, il riconoscimento e la definizione del rischio ambientale da parte della comunità scientifica e della classe politica al governo. Gli Stati Uniti furono i primi pensare a territori in termini di risorse naturali da proteggere dall’intervento umano con l’istituzione nel 1872 del parco nazionale dello Yellowstone.

Ma è solo a partire dalla seconda metà del XX secolo che complessivamente in Occidente inizia a farsi strada concretamente la consapevolezza delle conseguenze legate allo sviluppo industriale: salute dell’ambiente o, meglio, dell’habitat, e della popolazione umana sono strettamente legate. Le medicina, inoltre, ha a disposizione dati e tecnologie per individuare le cause di alcune patologie che si scopre essere collegate a fattori inquinanti (infezioni respiratorie, aumento delle allergie, malformazioni dei feti ecc.). Per la prima volta si mettono in atto misure preventive e di riparazione a livello nazionale ed internazionale: il Protocollo di Kyoto, per esempio, al di là della sua effettiva efficacia, è il segno che l’uomo è arrivato ad avere la coscienza di quanto i propri atteggiamenti possano avere effetto a livello globale.

Proprio il tentativo di imporre provvedimenti che limitino l’impatto dell’attività antropica sull’ambiente è visto dai paesi in via di sviluppo, ed in particolare dalla Cina, come l’intenzione, mascherata da motivi ecologisti, da parte dei Governi dei paesi occidentali di frenare la loro vertiginosa crescita. Anche se ciò fosse vero, avviene con giusta cognizione di causa: innanzitutto i Paesi Occidentali hanno tutto il diritto di difendere i propri interessi economici, ed in secondo luogo, come visto poc’anzi, la storia della consapevolezza sulle conseguenze dell’inquinamento sull’habitat umano è già stata scritta, proprio sulla pelle degli abitanti di quella parte di Mondo che ha visto nascere per la prima volta l’industrializzazione. Si è visto infatti come il processo di acquisizione di una volontà collettiva per la salvaguardia ambientale, derivato dalla presa di coscienza del collegamento esistente tra fattori di inquinamento e salute pubblica, non sia stato per nulla immediato.

Gli errori commessi nel corso della Storia dovrebbero costituire un monito per tutti i Paesi del Mondo, come nel caso delle catastrofi ambientali: il disastro ecologico dell’Isola di Pasqua, per esempio, causato dalla deforestazione praticata dai propri abitanti, è un modello tragico ma eccellente di cosa può accadere in un sistema ecologico chiuso. In questo caso viene da chiedersi come è possibile che gli umani dell’Isola, circondati dall’Oceano Pacifico e senza contatti esterni, non si siano accorti del danno che stavano arrecando (a loro stessi in primis), e di come siano arrivati ad abbattere l’ultimo albero senza pensare alle conseguenze di tutto ciò; ma per il sistema Terra vale la stessa identica cosa: non ci renderemo conto dell’irreparabilità dei danni fintanto che, ormai, non avremo superato il punto di equilibrio per il quale le risorse non saranno più in grado di rigenerarsi e consentire la vita di 8 miliardi di esseri umani. La Cina, come altri Paesi in Via di Sviluppo, avrebbe avuto tutti i mezzi e le conoscenze per improntare fin dall’inizio il proprio piano di crescita industriale in un modo più sostenibile, evitando di cadere negli stessi errori di quanti l’hanno preceduta nell’industrializzazione, ma hanno preferito una crescita più a basso costo e quindi rapida; per quanto grande e ricca di risorse, c’è da ricordare che l’immensa fa pur sempre parte di uno stesso sistema chiuso.

La semplice esistenza del dubbio che esistano villaggi e città del cancro, in Cina come altrove (anche in Italia, purtroppo, ne sappiamo qualcosa), dovrebbe quindi essere sufficiente per giustificare l’intervento internazionale per limitare e contenere le cause del rischio. Attendere anni ed anni per avere le prove scientifiche che attestino l’esatta corrispondenza tra sostanze inquinanti e sviluppo di tumori negli esseri umani è un inutile spreco di tempo, ma soprattutto di vite.