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Errori e declino dell’impero Usa. All’Europa unita serve la «terza via»

di Massimo Gaggi - 01/05/2014

Fonte: Corriere della Sera


C’era una volta un impero americano alquanto pasticcione e piuttosto ipocrita nel suo presentarsi come una forza del bene, una nazione di eletti, ma comunque capace di garantire la sostanziale tenuta dell’ordine internazionale uscito dalla Seconda guerra mondiale. Beh, scordatevelo: la superpotenza vive una stagione

di irrimediabile declino non solo perché non è più in grado di funzionare da gendarme del mondo (e, probabilmente, non vuole nemmeno più esserlo), ma anche perché sta perdendo alcuni degli alleati più importanti sul piano strategico, dall’Arabia Saudita al Pakistan, mentre vacilla anche il rapporto con Israele.
L’egemonia di Washington è minacciata, certo, dalla crescita della potenza cinese e dal risorgente imperialismo russo, ma nell’analisi di Sergio Romano, che pubblica con Longanesi un nuovo libro, Il declino dell’impero americano, un colpo ancor più duro alla «leadership» a stelle e strisce lo assestano alcuni Paesi che stanno passando dal ruolo di fedeli alleati degli Usa a quello di potenze regionali che giocano in proprio trasformando quelli che fino a ieri erano patti d’acciaio in rapporti utilitaristici: la Turchia è, ormai, una potenza che gioca in proprio, a cavallo tra Medio Oriente e Asia Centrale. Con la sua dirompente forza economica il Brasile ormai domina un’America Latina che ha smesso da tempo di essere il «cortile di casa» degli Stati Uniti (con l’eccezione, forse, del Messico). In Medio Oriente, ormai, Arabia Saudita ed Emirati si sono sganciati, indispettiti dai tentativi di Obama di disinnescare l’atomica iraniana, ridando, così, un ruolo internazionale al regime sciita di Teheran. Perfino il Giappone che, privo di un grosso apparato difensivo e di armi nucleari, ha un disperato bisogno dell’ombrello militare americano per difendersi dalla minaccia cinese, comincia a diffidare dell’impegno di Washington e stringe nuovi rapporti con la Russia: una sorta di contratto di riassicurazione, nelle parole di Romano.
Grande assente, per ora, l’Europa, divisa e incerta sul da farsi. E che, pur avendo un enorme patrimonio di interessi comuni con gli Usa (l’autore cita economia, finanza, ricerca scientifica, lotta al terrorismo e alla criminalità internazionale, ma non i valori comuni di libertà, democrazia, tutela dei diritti civili), sarà più utile a Washington se assumerà il ruolo di «terza forza» in un mondo multipolare, anziché accompagnare e assecondare l’America nel suo declino imperiale.
Un saggio breve, agile, di facile lettura quello nel quale Sergio Romano tratteggia le nuove incognite di un quadro internazionale sempre più complesso e difficilmente governabile, sulla base della straordinaria esperienza accumulata nelle sue due carriere: quella di ambasciatore (ha rappresentato, tra l’altro, l’Italia alla Nato e a Mosca) e quella di storico, analista e commentatore politico. La crescente ingovernabilità del quadro internazionale che Barack Obama — e prima di lui Bill Clinton — spiega con l’inevitabile evoluzione di un mondo sempre più interconnesso e multipolare, nell’analisi di Romano è in buona parte attribuibile agli errori commessi dagli Stati Uniti da quando, con la caduta del blocco sovietico, hanno acquisito lo status di unica superpotenza mondiale.
Non che il libro sia tenero nel descrivere gli anni precedenti la caduta del Muro di Berlino. Il pensiero dell’ambasciatore, per nulla convinto che gli Usa siano stati una nazione eletta, oltre che indispensabile, con la missione di difendere libertà a diritti civili, oltre che la pace e lo sviluppo del traffici commerciali, è ben noto. E così nel 1956, durante la crisi di Suez (quando Francia e Gran Bretagna, insieme a Israele, cercarono di occupare il Canale) «gli americani negarono il loro aiuto al colonialismo europeo per prenderne il posto». Mentre anche nel Vietnam — dopo aver negato un aiuto ai francesi, costretti ad abbandonare l’ultimo grande avamposto di un’era coloniale ormai al crepuscolo — l’America sarà spinta dalle sue ambizioni imperiali a combattere una guerra (persa) contro i comunisti del Nord.
In questi giorni segnati dal conflitto in Ucraina e dalle ambizioni neoimperialiste di Vladimir Putin è interessante rileggere nelle pagine di Romano i tratti essenziali di quella che, per il presidente russo, è la maggiore disgrazia del ventesimo secolo: la dissoluzione dell’Unione Sovietica. La lungimiranza delle aperture democratiche di Gorbaciov, i suoi sforzi riformatori, ma anche l’incapacità di capire che «perestroika» e «glasnost» avrebbero inevitabilmente fatto implodere l’impero comunista fino alla dissoluzione dell’Urss della quale, scrive Romano, George H. W. Bush, nel frattempo succeduto a Reagan alla Casa Bianca, avrebbe fatto volentieri a meno: «Felice di avere a che fare con un Paese più debole e quindi meno aggressivo, Bush preferiva trattare con un solo Stato piuttosto che con una disordinata brigata di repubbliche litigiose e instabili».
Lo sguardo sulla Russia alla luce della crisi ucraina è forse la parte più interessante del libro, assieme all’analisi della nuova strategia americana che punta a mantenere la sua «leadership» strategica mondiale e ad alimentare la lotta al terrorismo sostituendo l’integrazione anche militare con alleati ormai traballanti con la tecnologia dei droni e dei centri d’ascolto che filtrano tutte le conversazioni del Pianeta.
Se tutto l’Occidente, non solo l’America, accusa Putin di aver compiuto un atto intollerabile che stravolge le regole della convivenza internazionale aggredendo un Paese indipendente, Romano, che certo non sottovaluta la gravità di quanto sta avvenendo, espone un punto di vista diverso: per lui sono gli Stati Uniti ad avere «una memoria selettiva ricordando solo ciò che giova ai loro interessi». Nelle ultime pagine del libro la crisi ucraina — il presidente Yanukovich che preferisce un patto con la Russia all’accordo con l’Unione Europea, la sollevazione popolare col Parlamento di Kiev che depone il presidente (per l’autore è un colpo di Stato), l’intervento di Mosca — viene paragonata a quella cubana del 1962. Quando, in piena «guerra fredda», gli Usa reagirono con un blocco navale al tentativo sovietico di costruire basi missilistiche nell’isola caraibica, a poche decine di miglia dalle coste degli Stati Uniti.
Un paragone audace, difficile da condividere, ma certamente Romano descrive con efficacia alcuni errori di sottovalutazione commessi dagli Usa e dall’Europa quando hanno allargato la Nato a gran parte dei Paesi dell’ex blocco sovietico fino ad arrivare a un passo dall’associare Georgia e Ucraina. Sviluppi che, magari accettabili nel clima di collaborazione dell’inizio del nuovo secolo (nel 2002 a Pratica di Mare lo stesso Putin siglò una partnership Russia-Nato), sono diventati per Mosca assai più sospetti dopo il lancio da parte di George W. Bush di un nuovo programma di difesa antimissilistica: presentato come uno scudo contro la minaccia dell’Iran o di nuovi Stati-canaglia, ma probabilmente concepito avendo in mente anche (o soprattutto) i missili balistici russi.