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Quell’isola in capo al mondo che giace nel fondo inesplorato di noi stessi

di Francesco Lamendola - 04/05/2014

Fonte: Arianna editrice


 

 

Chi non ha sognato, almeno una volta nella vita, di piantare tutto e lasciarsi alle spalle la vita di sempre, il lavoro, la famiglia, gli amici, le abitudini e tutto il proprio vecchio io, per rifugiarsi in una baita sulle montagne, in qualche valle solitaria immersa nei boschi, come fece Henry David Thoreau nei boschi del Massachusetts; oppure, meglio ancora,  per navigare verso un’isola gettata  chissà dove, in capo al mondo, in cui dimenticare tutta la propria vita di prima e ritrovare la parte più viva e più autentica di se stesso?

Un’isola, in questo caso, vista non tanto come un luogo geografico, ma piuttosto come un luogo dello spirito: come un’occasione di solitudine volontaria e di accorata riflessione; una occasione preziosa, dunque, di perdersi per potersi ritrovare, di farsi dimenticare per ritornare alle sorgenti più limpide e profonde della propria interiorità, della propria anima – o per verificare se esse ci siano ancora; se non si siano, per caso, irreparabilmente inaridite, come un fiume che si è spento fra le sabbie del deserto.

Il sospetto, anzi, il timore di aver smarrito una parte di noi stessi, forse proprio la parte più importante, ci sfiora e ci ronza intorno, a volte con insistenza, come un insetto molesto; poi se ne va, ma ben presto ritorna e ricomincia a ronzare, a inquietarci: perché sentiamo che non basterà scacciarlo con la mano per mandarlo via; sentiamo che non se ne andrà fino a quando non gli avremo prestato la dovuta attenzione, fino a quando non saremo capaci di dargli una risposta – vale a dire, di darla a noi stessi.

Perché la nostra vita contiene una domanda, e quella domanda è sempre lì, ci accompagna minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, anno dopo anno; e non se ne va, non ci lascia in pace, fino a quando non siamo capaci di ascoltarla e di darle una risposta veritiera, o almeno fino a quando non abbiamo la coscienza abbastanza limpida da poter provare a darle una risposta, ma una risposta che sia onesta e non una risposta qualunque.

Riconoscere quella domanda, tradurla nella nostra lingua, formulare una risposta secondo verità: tale è il senso della nostra vita stessa; e noi sappiamo, sentiamo oscuramente, che non ve ne sono altri; che non vi è nulla di più importante di questo; che qualunque altra meta, qualunque altro obiettivo, non sarebbero che strategie per eluderla, per sfuggirle, per sottrarci all’unica cosa che abbia un’importanza decisiva.

E allora accogliamola, la metafora dell’isola in capo al mondo: proviamo a immergerci nel respiro immenso dell’oceano, nel vento gagliardo e incessante che soffia senza posa, perché viene da distanze abissali e non ha incontrato una sola terra emersa a frenare la sua corsa, per migliaia e migliaia di chilometri; con lo spettacolo fantastico delle nubi che si accavallano, simili a una fantasmagorica fortezza e che si addensano, si scontrano, si sovrappongo.

Siano soli, perfettamente soli nella sconfinata solitudine: solo i gabbiani sopra di noi, che roteano ad ali spiegate e lanciano i loro striduli richiami; e il vento incessante, il vento che pare il respiro del mondo nel primo giorno della creazione: tutto intorno una natura formidabile, intatta, talmente smisurata da farci sentire piccoli, minuscoli, pressoché insignificanti. Il vento e il cielo; il vento e il mare; il vento e il silenzio: e noi laggiù, gli occhi, gli orecchi, la pelle investiti e quasi sopraffatti da sensazioni così forti, pungenti, perfino dolorose nella loro intensità; spogliati dell’ieri e del domani, sospesi in un presente vertiginoso, assoluto, senza tempo.

Raccontano Anna Lajolo e Guido Lombardi nel libro «L’isola in capo al mondo», dopo un soggiorno sull’isola di Tristan da Cunha, perduta nelle verdi-azzurre, remote solitudini dell’Atlantico meridionale (Roma, Nuova Eri, 1994, pp. 63-4; 107-08; 133-4):

 

«Questa notte alla tre mi ha svegliata il rumore fortissimo della pioggia e del vento, poi ha smesso di piovere e il vento è diventato bufera.  La casa, che ha le pareti legno, scricchiola tutta e sembra lì lì per schiantarsi. È quasi impossibile descrivere il rumore del vento qui a Tristan: è un rombo, un urlo, un fragore pazzesco. Adesso capisco fino in fondo perché le latitudini da queste parti sono chiamate “roaring forties”, quaranta ruggenti. Ai tempi della navigazione a vela i bastimenti del Nord Europa diretti al Capo di Buona Speranza non scendevano lungo le coste africane, ma puntavano verso il Brasile spinti dagli alisei e poi filavano verso est portati dai venti prevalenti occidentali, entrando anche nei “roaring forties”. Allora Tristan era prossima alla rotta di molte navi. Poi è venuta la navigazione a vapore, per l’isola è iniziato un lungo periodo di solitudine e il vento dell’oceano non era più di nessuna utilità per le navi; ma lui non lo sa e continua a soffiare e rombare come un pazzo. È un elemento sconvolgente ma stranamente non innervosisce, piuttosto ti stordisce e alla sera dopo ore di violenti schiaffi sul viso e sul corpo ti senti esausto e stremato. A volte non si riesce a camminare, per gioco ho provato,. Benché carica di due pesanti borse, a buttarmi in avanti contro il vento e rimanevo in piedi. In questi casi non si riesce nemmeno a respirare, bisogna girare la testa di lato come quando si nuota. […]

Il nostro secondo periodo di permanenza a Tristan è stato il peggiore, caratterizzato da giorni, settimane di tempo pessimo, mareggiate, pioggia, nebbia e vento furioso. In simili condizioni non è possibile programmare niente. A volte la luce è accecante, si intuisce che sopra la burrasca c’è un cielo estivo e il sole, ma il vento è quello delle tempeste, gli alberi piegati a metà, un rombare infernale nell’aria e pioggia fitta orizzontale. Non riusciremo mai con delle immagini o delle parole a rendere l’inferno di questa natura scatenata. Anche Augustus Earle nel suo libro sugli otto mesi di permanenza forzata a Tristan scrive di aver vissuto momenti di grandi malinconie e di solitudine. È vero che quest’isola ha qualcosa di sinistro, di orrido, di spaventoso. Anche chiusi in casa si percepisce un pericolo, »sarà tutto quel mare enorme, infuriato, che ci circonda, sarà l’idea che ci vuole una settimana di navigazione per raggiungere la più vicina terraferma abitata, sarà lo scatenarsi improvviso e incontrollabile degli elementi cui devi sottostare, il sapere quanti morti per naufragio l’isola ha causato. Perché solo in pochi casi, come per la nave Italia, Tristan ha rappresentato la salvezza, per gli altri che ci sono andati a sbattere contro nella nebbia, nella notte, nella tempesta, è stata la causa della fine. E mi viene da pensare alla profondità del mare là fuori, agli squali, alle orche, alle balene, agli elefanti marini, alla ferocia degli animali che si assaltano, che si addentano l’un l’altro, che si uccidono in quel’acqua scura e densa di pericoli. E poi questo vulcano anche lui terribile, che si sveglia quando gli pare, la sua forma grigia con quell’anello di nubi tutto attorno. Nei giorni di sole tutto diventa splendido perché la luce è importante, ci fa vedere i colori e questi ci rallegrano, il mare e il cielo diventano azzurri, i prati verdi, i giardini un trionfo di fiori. […]

Dal bordo della Base sopra il villaggio compare spesso una grande nuvola densa, piatta e circolare che abbiamo battezzato l’ufo. Sta ferma lassù, anche col vento, come ancorata, per giorni e giorni. Ha una forma perfetta, tornita, proprio simile a un disco volante con la cupola in cima e dà l’impressione di ruotare vorticosamente in posizione di stallo. Non somiglia a nessun tipo corrente di nuvola. Si vede sola a Tristan. Più di una volta ho desiderato di risalire sulla Base da est per vedere da vicino il fenomeno. Ma senza una guida mi devo accontentare di osservare dal basso il graduale mutare di tinta dell’ufo. Bianco puro, perlaceo, rosa, rosso al tramonto, per cangiare in grigio cupo la sera. È una delle emozioni che offre il cielo, costantemente percorso da nuvole che si ammassano in scenari plumbei, drammatici e tempestosi o s’incendiano al calare del sole. Osservando le nuvole si può viaggiare, con un continuo spettacolo di forme fantastiche: folle, orde, branchi. Se ne vedono tre strati sovrapposti, incrociati in direzioni diverse. Spume, veli, strisce, fiocchi, manti candidi, arrivano bassi, scavalcano la Base e quando il tempo si guasta le nuvole si addensano cupe, incalzanti divorano rapidamente gli ultimi squarci di azzurro. La luce diventa livida. Poi a vista d’occhio, attorno all’isola scompaiono i colori, il mare e il cielo si confondono saldati da possenti torri d’acqua che cancellano ogni dimensione. Sei dentro un’enorme bella densa di nuvole, nebbia e pioggia senza profondità, né orizzonti. Perdi il senso dello spazio e del tempo. Il mondo si chiude sopra di te e dentro di te. Non riesci a immaginare l’oceano, né dove sei. Anche i pensieri ristagnano nella malinconia e i ricordi si rifiutano di riemergere. Potresti sprofondare nell’oblio, perso in un luogo che si dissolve. Questa evanescenza della realtà dura anche giorni e giorni, ma per gli abitanti è naturale, è nel loro temperamento. Quando poi cominci a pensare che non rivedrai più il sereno, come è venuto il maltempo se ne va. Le nuvole corrono via e si disfano in fretta, ma sul bordo della Base resta al suo solito posto l’ufo e spesso  la sera assume la forma perfetta di una lingua rosa e turgida  che sporge dal monte e lecca il cielo simile a un gigantesco cartone animato. Ci hanno spiegato cosa portano i venti. D’estate, col bel tempo spirano da sud-ovest e d’inverno da nord-est. Bufere e burrasche arrivano da nord-ovest e da questa direzione soffia generalmente il vento, vortica intorno all’isola e riprende il suo corso sulla costa opposta di sud-est. È un vento sempre pericoloso per la navigazione sotto costa e per uscire e entrare in porto.»

 

Ora, se la vita umana è una “navigatio”; se è una traversata in acque sconosciute e, non di rado, perigliose, verso il compimento del nostro ultimo destino – come immaginavano volentieri, con una suggestiva metafora, mistici e filosofi del Medioevo, e come hanno illustrato poeti e artisti di quell’epoca in opere innumerevoli, mosaici, affreschi, miniature: allora niente può esservi di più pregnante, di più calzante, dell’immagine di un’isola sperduta in mezzo al mare, ove approdiamo in attesa della rivelazione da cui tutto dipende.

Ma per udire tale rivelazione, bisogna fare silenzio: come su di un’isola deserta, persa agli estremi confini del mondo; come su di un’isola in cui altra voce non si ode, all’infuori di quelle del mare e dei gabbiani; in cui nulla esiste, che possa distrarre l’attenzione, tranne il soffio impetuoso del vento e lo spettacolo stupendo d’un cielo ove le nuvole corrono a formare castelli e palazzi fantastici, che paiono fatti della stessa sostanza dei sogni.

Ed ecco ci là: nudi, spogliati delle maschere, delle finzioni, dei ruoli di cui ci ammantiamo in mezzo ai nostri simili, dietro i quali nascondiamo ipocritamente le nostre miserie, le nostre mezze verità, le nostre astuzie mediocri, per sembrare più grandi e migliori di quanto in realtà siamo mai stati: consegnati al nostro puro essere, destituiti di ogni residuo dell’avere. Che cosa resta di noi allora, quando tutto il resto è caduto e non ci appartengono più i nomi delle cose mediante quali siamo soliti drappeggiarci e camuffarci, non ci appartiene più il titolo di studio, l’età, lo stato di famiglia e siamo ridotti alla nostra nuda essenza, alla nostra sola interiorità?

Se resta la consapevolezza di aver percorso onestamente la giusta via; di essere stati fedeli alla nostra chiamata; di aver cercato lealmente la verità, incuranti dei sacrifici e degli ostacoli che si frapponevano al nostro cammino; se resta la coscienza di non esser venuti meno al nostro compito, al rispetto dovuto a noi stessi, al dovere intransigente di procedere sempre, magari sbagliando, ma senza cercare sconti o scorciatoie e senza inseguire secondi fini: allora potremo dire che la nostra “navigatio” avrà avuto un senso, che avremo fatto quanto stava in noi per superare i mari oscuri e nebbiosi della menzogna e per raggiungere le acque limpide e cristalline dove ogni domanda trova la risposta che non abbisogna di parole, e dove ogni contraddizione si scioglie nella luce iridescente di un superbo arcobaleno.

Ma bisogna farne, di strada, prima di giungere in vista di quell’arcobaleno! Bisogna prima spogliarsi di ogni vanità, di ogni piccola furberia, di ogni forma d’orgoglio e narcisismo; bisogna avere il coraggio di guardarsi dentro sino in fondo, di comprendersi, di riscuotersi dal sonno della mistificazione e dell’auto-inganno; bisogna, infine, gettarsi dietro le spalle le false certezze, le verità pre-confezionate, e anche quella insidiosa forma di vigliaccheria che si nasconde dietro il rispetto delle cosiddette convenienze. Non è una strada facile: e, se dipendesse dalle nostre umane forze, certo non saremmo in grado di percorrerla. Ma, per fortuna, non siamo soli, allorché decidiamo d’intraprenderla: c’è un aiuto che scende dall’alto - la Grazia -, senza il quale non saremmo nulla…