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Lo sciagurato errore di Enrico Berlinguer

di Marino Badiale - 17/06/2014

Fonte: il-main-stream


Quest'anno, in occasione del trentennale della morte di Enrico Berlinguer (1922-1984), si è molto parlato della sua figura umana e politica. Come spesso accade di questi tempi, la tendenza mi sembra quella a “santificare” il personaggio e ad usarlo come nume tutelare delle più diverse scelte politiche (da Veltroni a Ferrero, per dire). Questa tendenza ha qualche giustificazione: in effetti Berlinguer appare il simbolo di un modo di essere “uomo politico” distante anni luce dalla volgarità e dall'affarismo spudorati cui ci ha abituati l'attuale ceto politico. Più in profondità, conta forse il fatto che Berlinguer è una figura di transizione: con lui si attua in sostanza il passaggio dalla sinistra emancipativa, ancora bene o male aderente ai suoi ideali storici di difesa delle classi subalterne, alla sinistra attuale, completamente interna alle logiche di un potere ferocemente antipopolare. La figura di Berlinguer rappresenta, almeno in Italia, l'estrema incarnazione della sinistra storica, e la sua morte rappresenta la morte di tale sinistra e la sua sostituzione con la ripugnante sinistra dei Veltroni e dei D'Alema.
Ci sono dunque dei motivi perché Berlinguer sia diventato il simbolo di una politica più degna di rispetto di quella contemporanea. Ma Berlinguer è stato un uomo politico importante, che ha segnato in profondità la storia del nostro paese per almeno un decennio. Un personaggio di questo calibro non può essere giudicato in primo luogo sulla base delle sue doti di dignità personale, o sulla base del valore simbolico che certi aspetti della sua vicenda possono assumere. Questa cose hanno una loro importanza, ma in primo luogo, nella valutazione di un uomo politico importante, vi è la valutazione di ciò che ha concretamente fatto. Se i ciabattini vanno giudicati dalle scarpe, gli scrittori dai romanzi, i registi dai film, è ovvio che i politici vanno giudicati dalle scelte politiche e dalle azioni politiche. Ora, l'azione politica di Berlinguer segretario del PCI si compendia nella proposta del “compromesso storico”. Naturalmente nella sua storia intellettuale c'è dell'altro,  ma non mi sembra ci possano essere dubbi sul fatto che l'azione politica storicamente significativa di Berlinguer sia stata quella di portare il PCI alla politica del compromesso storico e di mantenervelo per tutti i turbolenti anni Settanta. Il giudizio sulla figura di Berlinguer come uomo politico storicamente significativo coincide dunque con il giudizio sulla politica del compromesso storico. Ritengo che su questo punto occorra esprimersi in maniera chiara e netta: il compromesso storico è stato uno sciagurato errore politico, una catastrofe sia per la sinistra (e di questo ormai mi importerebbe poco) sia per il paese (e di questo continua ad importarmi).

Cerchiamo di motivare questo giudizio. Fra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta il paese è scosso da un turbine di mobilitazioni, di proteste, di lotte studentesche, operaie, popolari: una situazione di grande confusione ma anche di grande movimento. I partiti conservatori tradizionali, la DC in primo luogo, sono in crisi, hanno perso la fiducia di larga parte della popolazione, che già allora ne percepisce la profonda corruzione, e appaiono incapaci di reagire a questo sommovimento e di ricostruire un'egemonia. Perfino la Chiesa, tradizionale baluardo del conservatorismo, è scossa da movimenti progressisti. Insomma, in quel momento c'è in Italia una grande occasione storica, l'occasione di impostare su nuove basi il patto nazionale, di realizzare un riformismo radicale, di superare una serie di difetti e di limiti che il nostro paese si trascina fin dalla costruzione dello Stato unitario. Il PCI, il maggior partito della sinistra, che fino ad allora è stato escluso dal governo, e non è quindi coinvolto nella gestione corruttiva del potere centrale ma anzi ha dato buona prova di sé nelle amministrazioni locali, appare il candidato naturale per raccogliere questa spinta al mutamento. Ora, in questa situazione, la proposta del compromesso storico, cioè di una alleanza politica nazionale fra il PCI e la DC, non è altro che la rinuncia a operare quel mutamento nella direzione del paese che era richiesto da coloro che si rivolgevano al PCI. La cosa era del tutto evidente, e venne espressa in maniera molto chiara da Leonardo Sciascia in un articolo, molto discusso all'epoca (e che adesso purtroppo non riesco a recuperare), nel quale si diceva in sostanza che se la proposta politica del PCI era l'alleanza con la DC, allora tanto valeva votare direttamente DC. Cioè, detto in maniera più forbita, se il PCI rinunciava al ruolo di perno del mutamento radicale nelle politiche nazionali, mutamento che inevitabilmente voleva anche dire allontanamento della DC dal governo, allora era il PCI stesso a rinunciare ad una qualsiasi funzione storica significativa, e a condannarsi alla marginalità. E infatti quando Berlinguer, di fronte al fallimento di tutti gli obiettivi, dichiara nel 1980 la fine della politica di compromesso storico, il PCI ritorna ad essere “fuori dai giochi” nelle politiche nazionali, e della politica del compromesso storico non resta nulla, nessun guadagno, nessun sedimento positivo: né per la sinistra (e, di nuovo, questa è la cosa meno importante), né per il paese (e questo invece è importante).
Quanto fin qui detto ha bisogno probabilmente di alcune precisazioni, per non dar luogo ad equivoci. Non stiamo dicendo che il PCI avrebbe dovuto o potuto fare la rivoluzione e instaurare il comunismo, e malauguratamente invece non l'ha fatto. È ovvio a tutti che il PCI era in sostanza un partito riformista e socialdemocratico nella sua politica interna, con l'unica specificità del legame con l'URSS in campo internazionale. Quello che intendiamo dire è che il PCI ha rinunciato, col compromesso storico, appunto ad una politica di riformismo radicale, che era quella che la situazione storica aveva reso possibile e che una buona parte del paese chiedeva. E aggiungiamo che questa scelta sciagurata è alla radice dei mali attuali del nostro paese. Non perché essi nascano negli anni Settanta. I mali del nostro paese hanno in parte radici più antiche, legate come dicevamo ai modi stessi dell'unificazione nazionale, e in parte più recenti, legate ai modi in cui si è realizzato in Italia il passaggio dal capitalismo “keynesiano-fordista” all'attuale capitalismo “liberista-globalizzato”. Quella che è mancata negli anni Settanta è stata appunto una politica di riformismo forte, radicale, emancipativo, che attaccasse alla radice i mali storici del paese e ci rendesse più capaci di affrontare la fase storica successiva (che, certo, non si può pretendere fosse prevista dalle forze politiche negli anni Settanta). Ed è mancata una tale politica perché l'unica forza che in quel momento poteva farsene carico, appunto il PCI, ha rinunciato a impostare una battaglia per realizzarla. Certo, sarebbe stata una battaglia non facile. Potenti forze si sarebbero coalizzate per contrastarla, sul piano nazionale, e tali forze avrebbero trovato sicuramente importanti appoggi internazionali. Non bisogna dimenticare, naturalmente, che l'occasione per esporre la politica del compromesso storico viene a Berlinguer dal colpo di Stato cileno di Pinochet, che gli appare come la prefigurazione di quello che potrebbe avvenire in Italia di fronte ad un governo delle sinistre. E si può anche coltivare il sospetto che, se un tale governo sarebbe sicuramente dispiaciuto a Washington, forse non sarebbe stato molto gradito neppure a Mosca.
Di fronte alle potenti forze che avrebbero agito contro un governo delle sinistre, le forze che avrebbero potuto appoggiarlo presentavano evidenti problemi: vi era molta confusione nella spinta al cambiamento che agitava il paese, e che metteva assieme il cattolico dissidente che voleva un po' più di giustizia sociale e l'estremista di sinistra che “voleva tutto”. Il compito del PCI, se avesse voluto veramente impostare una battaglia politica per un profondo mutamento in senso emancipativo della struttura economica, sociale e istituzionale del paese, sarebbe dunque stato assai difficile e rischioso. Ma è questo un buon motivo per sfuggirlo? Se non servono a combattere queste battaglie, a cosa servono le forze politiche?
Tutto ciò mi appare oggi così evidente, che non esito ad affermare che la politica del compromesso storico ha rappresentato il suicidio del PCI. Non mi sembra davvero un caso che, pochi anni dopo la scomparsa di Berlinguer, scompaia anche il PCI. Certo, c'è di mezzo un evento molto più grande dell'Italia: la fine del “socialismo reale”. Ma il crollo del Muro di Berlino non ha portato alla scomparsa dei partiti comunisti dall'Europa occidentale. Se la fine dell'URSS ha trascinato con sé il PCI, io credo che questo dipenda dal fatto che il PCI era ormai un partito che aveva perso la sua ragion d'essere. Il PCI è un partito che nella parte migliore della sua storia ha lavorato per una politica di riformismo forte, emancipativo, e che, quando si è trovato di fronte alla possibilità di realizzare le sue politiche governando il paese, si è tirato indietro spaventato. A quel punto non aveva davvero più senso che continuasse ad esistere.
Gli anni Settanta rappresentano la grande occasione sprecata dal nostro paese. Simbolo, e insieme causa efficiente, di questo spreco è la politica del compromesso storico, e il responsabile di fronte alla storia di questa politica è Enrico Berlinguer. Il giudizio storico sul ruolo di Berlinguer nella storia del nostro paese non può dunque che essere radicalmente negativo.
 
P.S. Una precisazione terminologica: è noto che la parola “riformismo” ha subito un radicale rovesciamento di significato, per cui, mentre per un secolo e più essa ha indicato una politica volta ad aumentare i redditi e i diritti dei ceti subalterni, nonché il loro controllo democratico sui governi, da circa trent'anni a questa parte indica politiche di segno esattamente opposto, volte a togliere ai ceti subalterni sia i redditi, sia i diritti, sia la democrazia. Su questo mutamento di senso ho scritto qualcosa, con Bontempelli, ne “La sinistra rivelata”, e si veda anche il bel libro di Paolo Favilli “Il riformismo e il suo rovescio”. Quando parlo di “riformismo” del PCI nella fase precedente agli anni Settanta mi riferisco al significato storico della parola, non a quello assunto negli ultimi decenni. Ho cercato di rendere la differenza parlando di “riformismo radicale”  o di “riformismo emancipativo”, non so con quanta efficacia.