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Rimuovere la battaglia di Mezzo Giugno per meglio deprimere lo spirito nazionale

di Francesco Lamendola - 17/06/2014

Fonte: Arianna editrice


 


 

È immaginabile che uno studente inglese non abbia mai sentito nominare Trafalgar, Warerloo, Balaklava o El Alamein? Che un giovane americano non conosca i fatti di Saratoga, San Juan Hill, Guadalcanal o Iwo Jima?  Che un francese non si senta gonfiare il petto d’orgoglio quando sente parlare di Marengo, di Austerlitz, di Solferino o della Marna?

Conoscere e ricordare, con gelosa fierezza, le pagine gloriose delle proprie forze armate è, in ogni parte del mondo, una cosa talmente ovvia e naturale, da non aver bisogno di una particolare retorica da parte delle autorità pubbliche: fa parte del comune sentire della nazione, è parte integrante della memoria storica e del sentimento nazionale.

Fanno eccezione i soli Tedeschi, cui è stato insegnato che essi, nella storia moderna, hanno rappresentato il Male assoluto e che, pertanto, devono dissimulare il legittimo orgoglio di aver saputo tenere testa, per due volte, a una coalizione distruttiva formata praticamente dal mondo intero, e di aver dovuto soccombere solo per la mole sterminata dei nemici e delle loro inesauribili risorse finanziarie e materiali.

Perfino i Russi, pur avendo rifiutato l’eredità sovietica, si guardano bene dal reprimere l’orgoglio di aver vinto la decisiva battaglia di Stalingrado; perfino loro, come Inglesi e Americani, rivendicano il merito di aver liberato il mondo dalla peste nazista (anche se una piena e incontrastata vittoria di Stalin avrebbe probabilmente fatto rimpiangere a molti la sconfitta di Hitler).

E che dire del fatidico sbarco alleato in Normandia, che viene ancor oggi, a settant’anni di distanza, rumorosamente commemorato  e spacciato all’opinione pubblica mondiale come il passo decisivo per la “liberazione” dell’Europa e non certo, come effettivamente è stato, come la conquista e l’assoggettamento definitivo dell’Europa da parte delle potenze anglosassoni, sia in senso politico-militare, sia, ancor più, in senso finanziario e, soprattutto, culturale? Da allora, le potenze anglosassoni non hanno fatto altro che conquistare e riconquistare incessantemente l’Europa, un continente già vinto e deciso ad abdicare alla propria tradizione millenaria: dalle “sette sorelle” del petrolio, alle grandi banche newyorkesi, ai miti di Hollywood e ai vari gruppi e cantanti americani e inglesi, cominciando coi “Beatles” e arrivando a Madonna e oltre.

Gli Italiani, in questo quadro, fanno, come al solito, eccezione. Da noi è considerato politicamente più che scorretto, diciamo inaccettabile e intollerabile, ricordare le vittorie delle nostre forze armate, specialmente quelle riportate contro i nostri volonterosi “liberatori” anglosassoni: quelli, per intenderci, che seppellendo le nostre città sotto nugoli di bombe, reintroducendo la mafia in Sicilia, e sovvenzionando una sanguinosissima, belluina guerra civile, ci hanno liberato dai nostri cattivi istinti politici e restituiti alle gioie della democrazia e del libero mercato, vale al dire al consorzio delle nazioni civili (non senza averci sottratto le italianissime terre dell’Adriatico, già martoriate dagli infoibatori slavi, oltre alle colonie, alla marina da guerra, insomma non senza averci relegato alla condizione di ex grande potenza, spogliata e umiliata).

Ricordare El Alamein? Questo passi, perché, dopotutto, a El Alamein il nostro esercito è stato battuto (anche se ha saputo battersi con indomito eroismo, in condizioni di schiacciante inferiorità); ma ricordare le vittorie? Già, questo è il punto: perché le persone di media cultura, per non parlare dei giovani e degli studenti, non sanno neppure, probabilmente, che le nostre forze armate, nel secondo conflitto mondiale, non hanno riportato solo catastrofiche sconfitte, né sono state protagoniste solo di sfortunati atti di valore strategicamente insignificanti; ma hanno riportato anche delle vittorie clamorose, come quelle delle due battaglie aeronavali di Mezzo giugno e di Mezzo agosto del 1942, contro la potentissima flotta britannica. Non lo sanno, perché nessuno glielo ha detto; e nessuno lo ha detto loro, perché sarebbe politicamente intollerabile mancare così di riguardo ai nostri generosissimi liberatori, che hanno versato il loro sangue ad Anzio e a Montecassino per la nostra libertà; e anche perché ciò sembrerebbe quasi rendere omaggio a quella guerra di aggressione, notoriamente ingiusta e folle, che, come tutti sanno, fu voluta solo dal malvagio Mussolini, mentre il popolo italiano non la volle, non la comprese non la condivise e fece di tutto per perderla, onde affrettare la caduta dell’odiosa tirannia.

Strano paradigma storico: chi, nel 1940, si adoperò per vincere la guerra, combatteva per il fascismo, dunque per un sistema politico indegno e funesto e, in fin dei conti, contro la Patria; chi si adoperava perché la perdessimo, costui era dalla parte della ragione, dell’etica e della storia stessa: giusta la testi del presidente Napolitano, secondo il quale la vittoria dell’Asse era una “impossibilità storica”- parola di uno che, nel 1956, scriveva, nero su bianco, che la repressione sovietica a Budapest offriva un valido contributo alla pace mondiale.

E che non pochi, nel governo e ai vertici delle stesse forze armate, abbiano favorito la nostra sconfitta, è cosa talmente ovvia, che gli Alleati vollero inserire, nel trattato di pace di Parigi, una specifica clausola, che proibiva al governo italiano di perseguire quei signori, chiunque siano stati e comunque abbiano agito: clausola obbrobriosa, che nessun Paese rispettoso di se stesso avrebbe mai potuto accettare e sottoscrivere, come noi l’abbiamo accettata e sottoscritta.

Ecco, dunque, spiegato l’arcano per cui ricordare gli eroi del Piave è legittimo, ricordare gli eroi di El Alamein è poco opportuno (ma, almeno, essi hanno perduto), mentre ricordare gli eroici marinai e aviatori delle battaglie di Mezzo giugno e di Mezzo agosto sarebbe semplicemente impensabile: visto che, in queste ultime, essi hanno impartito una durissima lezione ai nostri futuri (e imminenti) “liberatori”, i gentiluomini che ci hanno fatto la grazia di liberarci dal Male, non senza inondare le nostre città di bombe e non senza incoraggiare e favorire quella suprema sciagura nazionale che si chiama “guerra civile”.

Quanto agli altri “liberatori”, i Sovietici e le loro avanguardie titine, come ammettere che degli Italiani onesti e sani di mente abbiano preferito fuggire dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia, piuttosto che vivere nel Paradiso comunista, fatto di arresti arbitrari, di foibe, di plotoni d’esecuzione e di feroci misure di pulizia etnica? No, impossibile: perfettamente logico, dunque, accogliere a sputi e insulti quei miserabili “fascisti” che avevano la sfrontatezza di rifiutare un simile Paradiso in terra e di voler tornare in Italia, nazione carica di tutte le magagne clericali e capitaliste, confessando con ciò stesso la loro abiezione politica e morale.

In una guerra civile, tutto diventa lecito: beninteso, purché si combatta dalla parte giusta. Anche passare informazioni militari al nemico; anche favorire il bombardamento delle proprie città (che possono risultarne distrutte, come nel caso della disgraziatissima Zara); anche pugnalare alle spalle i soldati che ancora si battono per la difesa della patria contro l’invasione nemica. Le fanfare dei vincitori, a guerra finita, provvederanno a nobilitare simili infamie, contrabbandandole per azioni disinteressate ed eroiche: come quella di riempire di esplosivo un cassonetto della spazzatura e uccidere una colonna di soldati tedeschi insieme ad alcuni ignari passanti, allo scopo preciso di provocare una sanguinosa reazione da parte dell’occupante. Anche simili gesta divengono “gloriose” e, soprattutto, moralmente giustificate e ineccepibili: la storia la scrivono i vincitori, e i vincitori non condannano mai se stessi. Se pure essi, talvolta, sono disposti ad ammettere di aver calcato un po’ la mano (come nel caso delle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki), il fine tuttavia era lecito e buono, dunque nessun problema di coscienza. Anzi, i vincitori possono prendersi perfino i lusso di travisare l’evidenza dei fatti: e far sì, per almeno un sessantennio, che la guerra civile non sia presentata come tale, che non sia chiamata “guerra civile”, perché le guerre civili, si sa, sono una brutta cosa, ma nel nostro caso non si trattò affatto di una guerra civile, bensì di una guerra di liberazione, di una guerra della civiltà contro la barbarie, del Bene contro il Male.

Così, dunque, scrive nelle sue memorie Giacomo Acerbo, importante figura di studioso e uomo politico che ha servito il fascismo senza infamia ed è passato senza servilismo, caso raro, nei ranghi di quanti hanno collaborato alla resurrezione nazionale dopo la tragedia del 1945 (da: G. Acerbo, «Fra due plotoni di esecuzione. Avvenimenti e problemi dell’epoca fascista», Bologna, Capelli, 1968, pp.  501-5):

 

«Lo scontro aeronavale di Mezzo Giugno] è stato uno dei più brillanti della nostra guerra, una chiara ed illustre vittoria conseguita, su un piano sapientemente ideato e abilmente attuato dallo stato maggiore, per virtù di una serie di intrepide azioni combinate, e in questa occasione mirabilmente coordinate, della Marina e dell’Aviazione, tanto che è impossibile discernere a quale delle due armi spetti il merito maggiore del successo. Il che aumenta la gloria di ambedue. […]

Il ricordo dell’”operazione mezzo giugno”, svoltosi proprio nei giorni anniversari di Premuda e del Piave [cioè, nella ricorrenza del giugno 1918], e che impedì il rifornimento di Malta, preparandone la progettata occupazione (poi abbandonata), pare oggi perduto, come quello di altre non meno gloriose, dalla memoria degli Italiani. Questi anzi nemmeno ne conobbero la grandezza poiché, già avviliti dalla sfiducia sull’esito generale della lotta, diffidavano ormai delle notizie ufficiali che avevano troppo abusato della loro credulità, mentre prestavano più volentieri ascolto ad altre voci, ugualmente in lingua italiana, provenienti da lontani siti, interessate a scolorire ogni nostra impresa. Poi sopravvenne il torpido periodo in cui il solo accenno a prove di valore o a gesta vittoriose compiute dalle armi italiane costituiva un atto di empietà punibile con l’anatema se non pure coi ceppi, mentre, per converso, rappresentavano titolo di merito il giubilo per le nostre sconfitte e l’esaltazione di coloro dai quali la nostra Nazione era stata vinta e soggiogata.

Ma io ho voluto soffermarmi a richiamare quella vittoria per areare queste tristi pagine nelle quali sto trascrivendo miserie e sventure, e per incorarmi nel pensiero che forse i giorni futuri dell’Italia potranno non essere abietti come la sorte che l’ha abbattuta e ancora oggi la umilia e la prosterna, se nel suo tetro cielo non si spegnerà del tutto la luce, anche fioca e lontana, dei ricordi: un fievole valore del passato, ma che potrà un giorno diventare il demiurgo riordinatore della nostra storia ed alimentare il nostro avvenire.»

 

Il fatto è che gli Italiani non “devono” sapere che nel 1942, in condizioni difficilissime, quando erano soli - con la Germania e il Giappone - a combattere contro il mondo intero, le nostre forze armate sono state capaci di infliggere due sconfitte memorabili alla leggendaria marina di sua maestà britannica: perché la seconda guerra mondiale, per noi, deve essere considerata, puramente e semplicemente, una pagina vergognosa, da archiviare e dimenticare. L’Italia ha osato tentare di conquistare la propria indipendenza e il proprio spazio a livello della politica mondiale: una impudenza che ben meritava una solenne lezione da parte degli Alleati (a proposito: ma “alleati” di chi? di se stessi, la Gran Bretagna con gli Stati Uniti e viceversa, con tutte le altre nazioni dell’orbe terracqueo al loro rimorchio? o alleati anche nostri – e, in tal caso, come non riconoscere che la guerra l’abbiamo vinta un po’ anche noi, dato che godevamo della loro benevola alleanza?, e  pazienza se a perderla siamo stati ancora noi, come nazione libera e indipendente).

Già: perché, se alcuni storici sono disposti, ma solo in via d’ipotesi, a chiamare la prima guerra mondiale come la nostra quarta guerra d’indipendenza, non ce n’è uno solo che sarebbe disposto a chiamare la seconda guerra mondiale come la nostra quinta guerra d’indipendenza: anche se tale è stata a tutti gli effetti, e anche se un evidente filo rosso lega Custoza e Solferino al Piave e alle campagne di Grecia e di Russia e, appunto, alle battaglie di Mezzo Giugno e Mezzo agosto. Questi due ultimi fatti d’armi, è vero, non furono risolutivi, né furono delle piene vittorie strategiche, perché Malta, bene o male, poté ricevere quei rifornimenti di cui aveva disperato bisogno per continuare a resistere. Ma non è per questo che oggi sono caduti nell’oblio, bensì per il loro implicito significato politico e morale. Politico: perché le nostre forze armate sapevano ancora battersi vittoriosamente contro la strapotente Inghilterra, dopo oltre due anni di guerra impari su tutti i fronti. Morale: perché forse è pur vero, dopotutto, che in quella guerra si affrontarono non il Bene e il Male, ma la fierezza spirituale e il Dio denaro. E che dire, poi, del fatto che nella battaglia di Mezzo agosto ebbe un ruolo diretto proprio Mussolini? No, troppo imbarazzante: meglio tacere...