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Orizzonti di resistenza all'americanismo

di Costanzo Preve - 29/06/2014

Fonte: Italicum

 

I  LIMITI DELL'ANTI - AMERICANISMO COME DETERMINAZIONE PURAMENTE NEGATIVA

 

Non amo e non ho mai amato I'espressione "anti-americanismo", e mi sono trovato spesso nell'imbarazzante situazione di dover avallare iniziative politiche fatte in nome di questo termine sia per quieto vivere sia perché non ero io ad avere le cosiddette "chiavi di casa". Il motivo di questa mia posizione è già stato ampiamente ricordato nelle pagine precedenti. Non a caso, ho dedicato i quattro capitoli precedenti non all'anti-americanismo, ma alle distinte forme di filo-americanismo, tutte caratterizzate in vario modo da un insieme di libidine di servilismo, deresponsabilizzazione etica e politica, fascino del provvidenzialismo imperiale variamente interpretato, eccetera. E' infatti il filo-americanismo il vero problema, non I'antiamericanismo, che certamente esiste, ma è un fenomeno puramente reattivo. Heidegger scrisse a suo tempo che si è prigionieri della problematica teorica contro cui ci si vuole opporre. Nello stesso modo quasi sempre I'anti-americano è prigioniero della sua immagine polemica ossessiva. Il problema non è mai la semplice ostentazione di una reazione, anche se essa è più che legittima, ma è sempre I'acquisizione di una vera indipendenza.

L' anti-americanismo è dunque di per sé una determinazione puramente negativa, e sappiamo che le determinazioni puramente negative sono insufficienti per la costruzione di un profilo prima culturale e poi politico realmente soddisfacente. Sebbene non sia questo I'oggetto di questo studio, voglio fare l'esempio di due determinazioni puramente negative, che sono legittime e comprensibili nei momenti storici della loro attualità, ma diventano presto una prigione concettuale se ci si continua a muovere al loro interno. Gli esempi che farò sono quelli del cosiddetto "antifascismo" e del cosiddetto "anticomunismo". Se si capisce bene la loro dinamica puramente negativa, si vedrà facilmente che lo stesso insieme di contraddizioni può toccare anche lo stesso "antiamericanismo".

A proposito del fascismo e dell'antifascismo, confesso subito di non essere uno specialista di questi fenomeni, e non intendo ingannare il lettore spacciandomi come tale. Ho letto ovviamente decine di libri in proposito, ed ho anche soggiornato relativamente a lungo in paesi in cui sussistevano regimi considerati "fascisti" in senso lato (la Grecia dei colonnelli 1967-1974, la Spagna dell'ultimo periodo franchista e il Portogallo dell'ultimo periodo del salazarismo, eccetera). Ma questo non fa di me, ovviamente, un "esperto" di fascismo. In estrema sintesi, ritengo che il modello interpretativo migliore, o almeno il meno peggiore, sia quello dello studioso israeliano Zeev Sternhell, per cui l'esame dei fenomeni fascisti prima del 1945 deve essere fatto producendo categorie storiografiche specifiche, e non semplicemente applicando pigramente la dicotomia Destra/Sinistra. Ma, come ho detto, non pretendo di enunciare detti sapienzialmente profondi in proposito.

Quello che so, invece, è che si può essere "antifascisti" per motivazioni diverse e con programmi diversi. Si può essere antifascisti per ragioni estetiche di nausea verso la straripante presenza della figura del dittatore (e questo fu ad esempio il caso dello scrittore italiano Gadda). Si può essere antifascisti perché si ritiene che il fascismo sia un fenomeno essenzialmente antiproletario, in cui la base di massa piccolo-borghese è soltanto lo schermo della base di classe composta dalla parte più reazionaria del grande capitale finanziario (ed è la definizione di fascismo di Dimitrov e dell'Internazionale Comunista negli anni Trenta). Si può essere antifascisti, infine, perché si ritiene la statolatria integrale dei regimi fascisti potenzialmente pericolosa per la morale cristiana e potenzialmente distruggitrice dell'autonomia dei corpi intermedi come la famiglia e la società civile (e fu questo il caso dei numerosi oppositori religiosi del fascismo). Ho qui fatto solo quattro esempi, ma potrei ovviamente farne altri. A volte, nella figura psicologica concreta del singolo antifascista tutte queste componenti sono unificate nella concretezza espressiva unitaria della personalità individuale, ma non c'è dubbio che si tratta di motivazioni diverse. C'è chi infatti nel suo antifascismo è contrario alla dittatura in generale, e chi invece non ha mai avuto nulla in contrario a che una dittatura di tipo comunista si sostituisse alla precedente dittatura di tipo fascista. C'è l'antifascista liberale conservatore, e c'è l'antifascista popolare anarchico. E si potrebbe continuare, ma il lettore ha certamente già capito la natura del problema, e cioè che il semplice riferimento all'antifascismo è una determinazione puramente negativa, ed il fatto che essa sia stata artificialmente mantenuta per più di mezzo secolo in Italia è dovuto non a problemi storiografici o filosofici, ma a motivi di legittimazione o di delegittimazione politica ampiamente strumentali. E questo, si noti bene, lo scrive una persona che è sempre stata per così dire "antifascista", ma che non ne può più del fatto che la proclamazione di antifascismo venga oggi fatta per legittimare il bombardamento della Jugoslavia del 1999 e quello dell'Iraq del 2003, e che un sorta di "hitlerizzazione metafisica" venga applicata automaticamente a tutti coloro che resistono contro gli USA (Milosevic-Hitler, Saddam-Hitler, eccetera). Il processo di fascistizzazione simbolica del nemico è oggi uno strumento ideologico dell'impero ideocratico americano, e richiamarsi alle grandi ombre di Antonio Gramsci o di Primo Levi per giustificarlo è un'operazione vergognosa anche e soprattutto di fronte alle vittime reali del fascismo (o dei fascismi, a seconda di come la pensiamo in proposito).

A proposito del comunismo e dell'anticomunismo, ritengo di esserne invece in un certo modo uno specialista, o quanto meno di essere qualcuno che se ne è occupato sistematicamente per quarant'anni. Conosco quasi tutte le ortodossie e le eresie del comunismo storico novecentesco, e conosco relativamente bene il pensiero di Marx e le varie forme di marxismo successive (quelle proto-marxiste del 1875-1914, quelle medio-marxiste del 1914-1956 ed infine quelle tardo-marxiste del 1956-1991, eccetera). Dato il carattere fortemente soggettivo ed opinabile dei giudizi storici e teorici, nessuno possiede comunque la cosiddetta "verità" sul fenomeno del comunismo, ed è anzi bene che sia così. Tuttavia, che cosa sia l'anticomunismo e quali siano le sue diverse forme più o meno ritengo di saperlo.

Si può essere anticomunisti per le ragioni liberaldemocratiche classiche, che non perdonano al comunismo il suo cosiddetto "totalitarismo", cioè il suo meccanismo unico di direzione dell'economia, della politica e della cultura (e qui si va da Hannah Arendt a Isaiah Berlin, da Karl Popper a Norberto Bobbio, eccetera). Si può essere anticomunisti perché si individua nel materialismo e nell'ateismo un fattore filosofico di assoluta negatività (e si tratta di posizioni molto diffuse, da Giovanni Paolo II a Cornelio Fabro, da Augusto Del Noce al russo Berdjaiev). Si può essere anticomunisti perché si vede nel comunismo la forma più estrema dell'egualitarismo livellatore contenuto nei principio democratico in politica ed utilitaristico in economia (ed è questa la posizione della maggioranza della cultura di destra nel Novecento). Si può essere anticomunisti perché si teme che la plebaglia ci porti via i rubinetti d'oro, il caviale del Volga e le odalische ventenni dalle poppe ad alto tonnellaggio, il tutto frutto di speculazioni finanziarie riuscite o di rendite parassitarie trasmesse da nonni creatori di demiurgiche fortune (ed è il caso del normale anticomunismo dei ricchi deideologizzati ma consapevoli della necessità di difesa animale del proprio privilegio). Si può essere anticomunisti, infine, ed è il caso di gran lunga più istruttivo ed interessante, se si è stati ex-comunisti e si sono conosciuti dall'interno gli abbietti meccanismi riproduttivi dei gruppi dirigenti burocratizzati del comunismo politico, gruppi caratterizzati dal cinismo più ributtante e dal nichilismo filosofico più rigoroso (e da Ignazio Silone a Massimo Caprara non c'è qui che l'imbarazzo della scelta).

Tutta questa tipologia è indubbiamente interessante per una balzacchiana commedia umana del secolo appena trascorso. In questo carnevale dei sensi e della ragione alcuni hanno fondato un partito comunista personale nella propria coscienza di cui sono stati a lungo gli unici iscritti. Questo, almeno è stato il mio caso per decenni. Ma è facile vedere che, così come è il caso per l'antifascismo, anche l'anticomunismo è una determinazione puramente negativa. Si tratta di collanti ideologici estremamente utili per il ceto politico professionale che utilizza l'antifascismo o I'anticomunismo per fini identitari da spendere sul mercato politico parlamentare e non, ed in più per la galvanizzazione di militanti ansiosi di fare tristi caroselli di automobili nella sera della vittoria elettorale. Ma si tratta di qualcosa che corre a lato dei veri fenomeni culturali di fondo.

E lo stesso ovviamente capita per il semplice antiamericanismo. Esso ha senso solo quando la piena comprensione del carattere dispotico della ideocrazia imperiale eretta ad articolo di esportazione mondiale è solo la premessa ed il presupposto di comportamenti culturali di resistenza e di indipendenza. In caso contrario si diventa facilmente vittime della polemica strumentale di coloro che affermano bensì di "criticare" alcuni aspetti cruciali dell'americanismo ma di non essere comunque "antiamericani". Nella maggioranza dei casi si tratta solo di virtuosa ipocrisia di astuti marpioni che vorrebbero la botte piena e la moglie ubriaca, e che sanno bene che il politicamente corretto di sinistra ha limiti ferrei di tipo "sistemico". In ogni caso gli opportunisti vanno e vengono, ma il problema resta. Ed il problema, lo ripeto qui ancora, è sempre e solo la capacità individuale e sociale di resistenza e di indipendenza.

 

GLI ORIZZONTI DELLA RESISTENZA DELL' INDIVIDUO ALL'AMERICANISMO

 

La resistenza al dispotismo spirituale di un impero ideocratico parte sempre e comunque dai singoli. Sono i singoli coloro che in ultima istanza danno il consenso o negano l'assenso ad un potere che si presenta come la manifestazione provvidenziale di una missione speciale. Personalmente non credo ai singoli nel senso di Kierkegaard o di Stirner, ma credo nella costituzione della libera individualità nel senso di Hegel. E dalla libera individualità (categoria che fa parte anche dell'apparato categoriale di Marx, dove vi è addirittura centrale) bisogna partire.

Il comunismo storico novecentesco, del tutto ignaro della antropologia filosofica originaria di Marx (che è una antropologia dell'ente naturale generico che si concretizza storicamente nella libera individualità), ha sempre messo in atto strategie di scoraggiamento e di diffamazione della libera individualità. Si è creata la figura demonologica di "anarchismo piccolo-borghese" per colpire qualunque pretesa a ciò che a suo tempo la riforma protestante tedesca definì in termini di "libero esame". Ciò non avvenne certamente a caso, ma di questo il proletariato inteso come classe sociale vittima dello sfruttamento capitalistico non ha assolutamente nessuna colpa. Mentre infatti il meccanismo della concorrenza economica capitalistica ha come sua ricaduta anche la concorrenza ideologica fra unità sociali diverse, il meccanismo unificato di economia, politica e cultura dei sistemi socialisti non poteva consentire stabilmente la voce di chi cantava fuori dal coro, e questo fatto "sistemico" dovette essere legittimato nascondendo il fatto che Marx era stato a suo tempo un pensatore della libertà e soprattutto creando una ridicola e ripugnante demonologia sull'anarchismo piccolo-borghese della coscienza dissenziente. Chi comprese meglio questa situazione kafkiana, mio avviso, è stato il marxista austriaco Ernst Fischer. Fischer studia lo sdoppiamento schizofrenico della coscienza del comunista medio novecentesco e parla genialmente di "sosia socializzato". Il sosia socializzato è la figura pubblica del comunista costretto a negare tutti gli elementi sua coscienza morale e della sua consapevolezza intellettuale che sono inconciliabili con I'adesione alla ideologia obbligatoria di stato e di partito. In proposito, la sconfitta collettiva dei sosia socializzati di fronte all'arbitrio individualistico dei sudditi dell'impero americano appare oggi come un episodio darwiniano di sconfitta degli organismi ideologicamente meno adatti di fronte ad organismi ideologici in grado di dominare meglio la flessibilità della modernità ed in generale dell'individuo moderno.

Bisogna partire allora dall'individuo. Il termine "individuo" significa in realtà in-dividuo, ossia ente non ulteriormente divisibile, ed è infatti il calco latino del greco a-to-mon. Questo termine non mi piace molto, perché semanticamente rimanda ad un processo di resecazione e di taglio, un processo di resecazione dalla comunità che è effettivamente avvenuto soprattutto a partire dal Seicento europeo, e che I'antropologia di Hobbes ha consacrato a livello filosofico.

In ogni caso, al di là dei suo rimandare ad un processo violento di resecazione sociale di carattere integralmente storico e per nulla "metafisico", l'individuo moderno è ormai un dato irreversibile, e da lui bisogna partire. Altra cosa è invece il supporto del cosiddetto "individualismo liberale", che invece non è affatto irreversibile, e che è invece il prodotto artificiale di una configurazione sociale e politica che si tratta appunto di superare in modo non regressivo. Ma questo cruciale nodo di problemi non può essere trattato in questa sede.

Una differente tradizione filosofica, apertamente polemica verso I'individualismo liberale, preferisce invece parlare non di "individuo" ma di "persona". Come è noto, questa corrente è soprattutto diffusa presso pensatori di ispirazione religiosa. So bene che in questa tradizione il termine di persona intende tradurre non solo la parola greca psyché, e cioè anima, ma I'intero complesso aristotelicamente concepito della singola personalità umana concreta. Nello stesso tempo non bisogna mai dimenticare che il termine latino di persona traduce il termine greco prosopon, che significa maschera, e lo stesso Marx ereditò questo uso linguistico, parlando di "maschere di carattere" (Charaktermasken), a proposito dei ruoli in cui la produzione capitalistica inchioda le differenti singolarità. Il filosofo marxista ungherese Lukàcs, dal canto suo, scrisse acutamente che all'interno della generalizzata alienazione capitalistica il soggetto non può realizzarsi, ma soltanto avvizzire fra i due poli opposti e convergenti dello specialismo e della stravaganza.

Mi sono permesso questa parentesi filosofica per rendere consapevole il lettore del fatto che quando parliamo di "individui" oppure di "persone" come di centri primari di resistenza ad una ideocrazia imperiale che si presenta come onnipotente ed invincibile ci inoltriamo in un terreno antropologicamente e sociologicamente difficile. Storicamente parlando, si è trattato di una situazione già presentatasi al tempo dei regni ellenistici e dell'impero romano, quando la sproporzione soverchiante di forze fra il potere e gli individui costrinse appunto questi individui stessi slegati dai loro precedenti vincoli comunitari a diventare "persone", cioè pròsopa, maschere di carattere. Si tratta di quella "interiorità all'ombra del potere" che le scuole filosofiche ellenistiche descrissero in termini di generalizzata atarassia, cioè di vita libera dai turbamenti, consigliando anche il lathe biosas, cioè il "vivi nascosto". In fondo, anche l'impero ideocratico americano ci concede il telecomando per cambiare di canale quando I'imbonimento apologetico diventa insopportabile. Anche nell'antica Roma non era obbligatorio andare ai giochi gladiatori oppure ai trionfi in cui i Milosevic ed i Saddam Hussein dell'epoca erano trascinati dietro il carro del vincitore fra le urla della plebe festante.

Ho evocato per un attimo la situazione ellenistico-romana non per crogiolarmi in un pessimismo cosmico, ma al contrario per segnalare come oggi la situazione non sia paragonabile a quella di allora. Non considero probabile l'avvento di un Paolo di Tarso, per cui la liberazione (apeleutherosis) avverrà attraverso l'asservimento universale ad un Liberatore, e questo asservimento interclassista riguarderà i liberi, i liberti e gli schiavi. Considero invece più probabile uno scenario di aggregazione progressiva di individui (o singoli, o persone, o anime, o come vogliamo chiamarli) che prendono progressivamente coscienza della sfida mortale che l'affermazione della ideocrazia imperiale porta alla loro identità.

In altra sede ho sostenuto analiticamente che questa presa progressiva di coscienza anti-imperiale presuppone il superamento storico della maggioranza delle categorie all'interno delle quali pensiamo (la dicotomia Sinistra/Destra, la dicotomia Progresso/Conservazione, la dicotomia Ateismo/Religione, la dicotomia Materialismo/Idealismo, eccetera). In piccole minoranze di pensatori liberi queste dicotomie sono già state superate da tempo, o sono almeno in via di superamento. Ma so bene che queste dicotomie vengono continuamente reimposte da giganteschi apparati politici, universitari, editoriali, giornalistici, eccetera, e sarebbe errato credere che siano già tutti "spiriti liberi".

In ogni caso, lo spazio de1la coscienza individuale resta lo spazio primario per ogni processo di presa di coscienza. Ogni "conversione" (metanoia) è prima di tutto conversione del singolo. Questo riguarda anche la questione della ideocrazia imperiale americana.

 

GLI ORIZZONTI DELLA RESISTENZA DELLA COMUNITÀ ALL'AMERICANISMO

 

L' omologazione mondiale alla misura dell'ideocrazia imperiale americana ha preso il nome di "globalizzazione". Questa globalizzazione è dal punto di vista culturale una sorta di anglobalizzazione. Mi ha colpito il fatto che il campo militare dei soldati italiani a Nassirya del 2003 sia stato battezzato White Horse (cavallo bianco), cioè con una parola inglese, laddove la logica vorrebbe cioè che o fosse battezzato con un termine italiano o fosse connotato con un termine arabo. Leggo continuamente su giornali italiani il nome della capitale del Messico, metropoli ispanofona di milioni di abitanti, e definita Mexico City. In questo la miseria provinciale e mimetica della cultura ufficiale italiana non è seconda a nessuno al mondo. Nella mia vita professionale ho fatto per un anno il professore di lingua inglese, ma quando incontro un italiota che si nasconde dietro un gergo anglicizzante alla moda fingo sempre di non conoscere una parola d'inglese. Su questo l'insensibilità generale è massima, e chiunque sollevi il problema del corretto uso di parole italiane come indice di consapevolezza del mantenimento della cultura e della lingua nazionali è subito accusato di nostalgismo fascista e di voler chiamare i bar "mescite" oppure i cachet "cialdini". Su questo punto la Francia, cui va la mia più grande e costante ammirazione, è lontana da noi anni luce.

Non voglio qui entrare nel merito della discussione marxologica sul fatto per cui la cosiddetta "globalizzazione" è qualcosa di nuovo e di inedito nella storia mondiale ed ha così "superato" la categoria leniniana di imperialismo, oppure non è altro che il ripresentarsi di una tendenza storica ed economica che esiste almeno a partire dal Cinquecento. In estrema sintesi, ritengo che venga definita in modo abbastanza improprio "globalizzazione", una situazione storica posteriore al 1991 per cui, finito il bipolarismo di USA ed URSS, si ha un insieme di processi fortemente antagonistici in cui gli USA cercano di imporsi sui propri concorrenti economici con I'uso sistematico del potere militare e del deterrente nucleare, in cui la loro superiorità è soverchiante. Il cosiddetto "terrorismo internazionale" (alla Bin Laden, per intenderci), oltre ad essere il nemico polimorfo di cui l'impero ha bisogno per legittimare una situazione di emergenza militare permanente, è anche il frutto malato di una situazione asimmetrica, in cui gli USA vincerebbero sempre nei conflitti regolari ed allora non resta per i loro nemici che la risorsa dell'azione terroristica. Con questo, ovviamente, non intendo affatto giustificare questo fenomeno, per cui non ho alcuna simpatia, ma solo ridefinirlo nei suoi termini storici esatti e non in quelli propagandistici.

Contro questa globalizzazione le resistenze individuali sono necessarie ma non sufficienti, ed è necessaria una resistenza nazionale e comunitaria di tipo particolare. La questione nazionale, o nazionalitaria secondo la terminologia preferita da alcuni, diventa quindi centrale, ed appunto per questo si alza contro di essa un fuoco di sbarramento concentrico che la accusa di essere di "destra" oppure "populista". La categoria di populismo è così usata in modo terroristico ed indifferenziato per squalificare immediatamente qualunque accenno di resistenza. In questa sede, purtroppo, non c'è lo spazio per discutere dell'uso della categoria di "populismo", ma è evidente che dietro di essa vi sono giganteschi problemi di orientamento. Le classi dirigenti e le oligarchie a1 potere si rendono perfettamente conto che fra la gente comune comincia a farsi strada I'idea di un sentimento nazionale e comunitario, ed appunto per questo sono già in piena guerra culturale preventiva riproponendo la bandiera ed alcuni culti patriottici depotenziati di ogni loro carattere di resistenza in cui la bandiera italiana possa sventolare a fianco di quella americana all'interno della Guerra Comune dell'Occidente contro il terrorismo. In proposito sono cautamente ottimista. Considero questo passaggio manipolatorio assolutamente obbligato, ma penso anche che si tratti solo di una prima fase di un processo che può facilmente rovesciarsi nel suo contrario, cioè in una reale autonomia nazionale.

In ogni caso, è bene aprire una piccola parentesi sulla questione del cosiddetto "comunitarismo" e su come questa veneranda parola può essere usata in modo sensato. Per questo, dopo un rapido richiamo al significato greco del termine, opportunamente ripreso da Alisdair Mac Intyre, bisognerà fare un breve excursus sulle culture di destra e su quelle di sinistra in rapporto a questo concetto.

Il termine aristotelico politikòn zoon può essere tradotto nelle lingue moderne in tre modi tutti corretti, e cioè animale politico, animale sociale ed animale comunitario. La dimensione della politica nella Grecia classica non corrispondeva a quella attuale nelle due versioni liberaldemocratica e socialcomunista, e l'opinione di Benjamin Constant sulla differenza fra antichi e moderni resta una rispettabile opinione liberale primo-ottocentesca, e non una sentenza inappellabile destinata a durare per sempre. Il politico, il sociale ed il comunitario si identificavano per i greci, che così definivano in modo contrastivo il dispotismo ed il tribalismo dei barbari (dai persiani "evoluti", ai Traci "arretrati", eccetera) proprio per il fatto che presso i barbari c'erano sia il sociale che il comunitario, ma mancava il politico propriamente detto. L'eredità greca non può certo essere "riscossa" automaticamente senza correzioni ed aggiornamenti, e nessuno è così ingenuo da non esserne pienamente consapevole, ma prima o poi dovremo cominciare a riscuoterla, se non vogliamo essere inchiodati per sempre allo homo homini lupus di Thomas Hobbes ed allo homo oeconomicus di Adam Smith. Ogni presunto "aggiornamento" delle culture di destra e di sinistra che non si ponga in modo radicale questo problema resta condannato a girare su se stesso come una trottola impazzita.

La cultura di destra novecentesca, considerata nel suo insieme e non nei suoi innumerevoli dettagli, ha sempre intrattenuto con il concetto di "comunità" rapporti ambigui e problematici. Troppo a lungo si è rimasti inchiodati alla nota distinzione di Tónnies, per cui vi erano nella modernità due tipi di convivenza globale alternativi, quello della società, (Gesellschaft), tipica delle società anglosassoni e francese, e quello della comunità (Gemeinschaft), tipica del germanesimo. A mio avviso, sulla base di questa dicotomia non si tira fuori un ragno dal buco. Questa distinzione riflette solo, nel rarefatto mondo delle ideologie, il conflitto montante fra l'Inghilterra imperiale tardovittoriana e la Germania imperiale guglielmina. Il fatto che almeno due generazioni di intellettuali ci abbiano sinceramente creduto é rilevante per una storia sociale dei gruppi intellettuali, ma non ci dice praticamente nulla sul problema moderno del rapporto fra individuo e società.

Nel contesto delle lotte ideologiche novecentesche la cultura di destra è sempre stata in linea di massima "comunitaria". Essa ha condotto per quasi un secolo una lotta su due fronti, da un lato contro l'egualitarismo livellatore nemico del riconoscimento dei meriti attribuito al comunismo, dall'altro contro l'individualismo atomistico ed egoista attribuito al liberalismo politico ed al liberismo della borghesia capitalistica. La filosofia di Nietzsche era usata strumentalmente per legittimare una radice comune alle due deviazioni comunista e liberale, unificata sotto l'unica categoria di "decadenza". Al di là della pertinenza o meno di queste due critiche (ed io le ritengo personalmente entrambe pertinenti, e comunque degne di essere razionalmente considerate e non solo magicamente demonizzate), penso che ormai la guerra sia finita, e gli ultimi giapponesi che continuano pervicacemente a combatterla debbano uscire dalla foresta ed andare tranquillamente in pensione.

Nella sua lotta contro il comunismo e il capitalismo, ritenuti entrambi poco "comunitari", la cultura di destra ha di fatto proposto un suo modello di comunità di tipo "organico" e "gerarchico" che non poteva a mio avviso comunque funzionare, in quanto la presunta "organicità" (ammesso che sia mai esistita al di fuori delle tribù dette impropriamente "primitive", cosa che personalmente non credo) è ormai incompatibile con la costituzione storica dell'individuo moderno dopo il Seicento (ed a suo tempo Hegel se ne accorse e ne fece la base per la sua teoria della libertà dei moderni, tanto migliore di quella di Constant), mentre il principio della "gerarchia" disegualitaria, dietro al quale vi stava il nocciolo razionale del riconoscimento sociale dei meriti individuali, rispondeva con una fuga all'indietro di tipo nostalgico ad un vero problema. In sostanza, la "fuga all'indietro" della cultura di destra e la "fuga in avanti, della cultura di sinistra hanno dato tutto quello che potevano dare. Si impone oggi l'esigenza di una corretta filosofia dei presente, ed essa prima o poi verrà.

La cultura di sinistra novecentesca ha sciaguratamente deciso che il "comunitarismo" fosse una perfida infiltrazione della eterna destra diabolica, ed in questo modo, ovviamente, si è inibita anche la conoscenza di sé stessa. Ad esempio la comunità dei compagni dei partiti stalinizzati è stata una vera e propria comunità "organica", basata sulla colpevolizzazione dei singoli militanti e sulla loro espulsione infamante in occasione della loro violazione del massimo rito religioso di partito, la "linea politica". Negando la pertinenza categoriale del concetto di comunità ci si è espropriati della possibilità di intervenire nella cura delle proprie comunità patologiche. In proposito, il mito monoclassista del proletariato salvifico ha sostituito all'analisi sociologica e psicologica concreta una illusione soteriologica priva di ogni possibile concretezza operativa, la comunità dei "sosia socializzati" di cui ho parlato in un precedente capitolo.

In questo modo, proprio quando comincia a porsi il problema storico di una resistenza comunitaria all'ideocrazia imperiale americana la deriva individualistica e postmoderna della cultura di sinistra demonizza la categoria di "comunità" come perfida tattica di infiltrazione dell'eterno nazifascismo che cova sotto le ceneri dei focolare della bestia umana, l'Urfascismus del dilettante Umberto Eco. La comunità è riconosciuta ed ammirata solo quando si trova in utopistici paesi esotici, come il Chiapas nel Messico. Il caso del Chiapas è in proposito assolutamente emblematico. Da un lato i contadini maya del Chiapas reagiscono all'espropriazione delle loro terre con tecniche di resistenza unitaria tratte dalla loro secolare tradizione. Dall'altro il cosiddetto sub-comandante Marcos, sociologo acculturato nell'area della "sinistra", scrive brani retorici antologizzando tutti gli autori a visibilità mediatica del politicamente corretto mondiale. In questa schizofrenia io vedo non tanto delle empiriche debolezze dei benemeriti contadini maya o del sociologo messicano in passamontagna, ma un sintomo di un fatto tragicomico, e cioè del fatto, che la sinistra occidentale ormai vede la possibilità di liberazione solo nella forma del "centro sociale" autogestito. Lo stesso Chiapas è stato trasfigurato in un grande "centro sociale" esotico. Ma l'insegnamento di questo caso mi sembra chiaro: chi rifiuta la dimensione della comunità sociale e della sovranità nazionale al proprio popolo (in questo caso il popolo italiano) è poi costretto a spostare simbolicamente questa esigenza ad un luogo onirico ed esotico pensato come un "grande centro sociale".

 

EPILOGO

 

Necessità di una "filosofia del presente"

 

Possiamo allora "chiudere'' questo scritto dedicato alla ideocrazia americana ed alla necessità di resisterle. Abbiamo bisogno di una "filosofia del presente"' e non di una filosofia tradizionalistica del passato propostaci dalla cultura della destra novecentesca o di una filosofia futurista del futuro propostaci della cultura di sinistra novecentesca. Senza questa filosofia del presente non riusciremo neppure a concettualizzate le nostre esigenze, perché le penseremo all'interno di schemi di tipo iperstoricista o di tipo ipostoricista, in cui cioè alla storia è attribuito un inesistente ruolo salvifico oppure è negato il suo ruolo genetico e costitutivo di nuove configurazioni sociali determinate.

L'ideocrazia imperiale americana è nella sua più profonda natura livellatrice ed annientatrice delle differenze di popoli e delle nazioni, oltre ad essere asservitrice del lavoro vivo trasformato in lavoro astratto reso intercambiabile, svalorizzato e disponibile alla speculazione finanziaria. Ma la sua forza consiste proprio nel fatto che essa, a differenza dei sistemi politici novecenteschi di tipo fascista o comunista, è flessibile e non rigida, e prevede espressamente valvole di sfogo e nicchie di contestazione tollerata al suo dominio. Queste nicchie sono numerose e diventeranno sempre più numerose. I centri sociali autoghettizzati, in cui giovani refrattari alla disciplina del lavoro potranno consumarsi in riti innocui, alternando la loro musica (ultracapitalistica) a pieno volume con lo spaccamento rituale di vetrine ampiamente assicurate e con lo scontro in casco di motociclista fra adolescenti di "destra" e di "sinistra". I riti sociali di manifestazione ostensiva delle opinioni ragionevoli e dei buoni sentimenti, in cui salmodiare che si è per la pace contro la guerra, per il bene contro il male, per la vita contro la morte, eccetera. L'interiorità intellettuale sofisticata all'ombra del potere, in cui pensare la propria differenza snobistica con la massa cafona e berlusconizzata sulla base delle proprie letture culturali alla moda. E tante altre nicchie ancora, che non conosciamo ancora ma che certamente verranno.

Si apre dunque una scommessa storica. In questo mio breve saggio ho volutamente tralasciato aspetti fondamentali del problema, come il conflitto latente fra Europa e Stati Uniti, che ovviamente spero si concretizzi e scoppi al più presto, come la possibilità (cui purtroppo non credo molto) che il Venezuela di Chavez, il Brasile di Lula e l'Argentina di Kirchner costruiscano una loro autonomia politica dagli Stati Uniti, come l'aumento della forza geopolitica della Russia e della Cina (che ovviamente auspicio, del tutto indipendentemente dal problema della natura sociale dei loro regimi interni), eccetera. Ma questa è geopolitica e geoeconomia, e non intendevo parlarne.

Intendevo invece mettere a fuoco un problema culturale, e ritengo di averlo fatto almeno parzialmente e nei suoi tratti generali.

da "L'ideocrazia imperiale americana", Settimo Sigillo 2004