Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Su Rem Koolhaas

Su Rem Koolhaas

di Sandro Giovannini - 29/06/2014

Fonte: Arianna editrice

Ho la netta sensazione che tutti possano legittimamente equivocare su Rem Koolhaas e che lui ne sia perfettamente consapevole e che possa pienamente gustarsi questa situazione di confusione mediatica del e sul suo messaggio. Chi ha letto infatti il suo Junkspace edito da Quodlibet nel 2006, ed ora giustamente riportato ai fasti comunicazionali anche dall’incarico (tra tanti, tutti prestigiosi) alla Biennale di Architettura 2014, si è reso conto di una cosa, essenzialmente: Koolhaas prende posizione sulla base di una verifica puntuale dell’esistente:

 

“…Non fare la morale, non interpretare (artisticizzare) la realtà ma intensificarla. Punto di partenza: l’accettazione intransigente della realtà… metodo di lavoro: isolare, collegare. Dunque autenticità. Non di colui che fabbrica, ma dell’informazione. L’artista non è più un artista, ma un occhio freddo, razionale…” (1) 

 

A parte l’immediato risguardo ad una scuola dell’occhio che va, nel secondo dopoguerra, dai francesi ai tedeschi, con qualche perfetta corrispondenza e con alcune dissonanze, non tanto per l’accettazione del mondo per come (ormai) è, ma soprattutto per il retroterra filosofico antecedente alla presa d’atto,  Koolhaas sembra programmaticamente (non certo autenticamente), partire non da una teoria per dimostrarne un’altra, ma far base dall’osservazione lucida e capace di collegamenti su più piani, per poi enucleare una sua linea interpretativa ed espressiva. Questo almeno per quanto riguarda l’esame analitico dell’esistente, nella conurbazione attuale e non certo perché non abbia avuto od abbia (tuttora) delle idee filosofiche e/o politiche. Anzi, sono proprio le sue idee filosofiche e politiche, fin dagli esordi al De Haagse Post negli anni ’60, a rendere duplici (ma non dialettiche, almeno in linea teorica) le sue posizioni rispetto alla Bigness ed allo Junkspace, in quanto da una parte vede in queste due dimensioni un inquietante buco nero della modernità, dall’altro considera inevitabile e quindi antistorico opporvisi, se non tramite strategie ben definite e complesse, certo non da tutti ben comprensibili. Tanto è vero che ad un osservatore comune, le sue opere architettoniche (non quelle letterarie) si differenziano poco da quelle invalse, tra altre archi-star, negli ultimi decenni, dimensioni che il letterato, invece, sa contrarre con uno spirito caustico, feroce nell’affondo brillante, quanto corrispondente ambiguamente alla propria linea filosofica. L’uomo dell’occhio pertanto, proprio partendo dalla sua capacità di vedere e non solo di guardare, nato nella dimensione creativo/intuitiva di commentatore di costume e di sceneggiatore,

 

“…qualche anno più tardi, si avvicina all’architettura, persuaso che il progetto debba, innanzitutto, esprimere un’idea letteraria, costruire una storia che giustifichi la presenza  o la realizzazione  di un’opera architettonica.” (2)

 

La reazione smodata di molti feriti dallo sguardo dell’occhio binoculare e penetrante di Koolhaas, che va verso l’alto e verso il basso mantenendosi perfettamente al centro della realtà contemporanea, tipico sguardo telemetrico “al di là del bene e del male”, a noi sembra  proprio più dispiacere ai paludati e/o agli straccioni, ovvero alle due principali categorie dei suoi detrattori di mestiere o di circostanza, che non si rendono conto che lui è una cartina di tornasole, manovrata però genialmente da un laboratorio che sperimenta, valuta e sforna brevetti. (E lui ne è l’inventore, l’aedeo ed il comunicatore).   La stessa valenza di un concetto ormai diffusissimo: quello di nonluogo di Augé, (luogocomune ormai anch’esso capace di creare molta più confusione interpretativa e liquidazione semplicistica di quanto potesse apportare di comprensione profonda per le implicanze psico-sociali ben segnate, problematizzanti e previste dall’autore), è stato integrato e quasi superato (in apparenza) dallo Junkspace e dalla Bigness, ma possiamo ben considerare che vi sia una perfetta corrispondenza tra tali concetti, rimandando necessariamente tutti e tre alla proliferazione massificata e globalizzata.  Il problema è che dietro al nonluogo vi è una lunga processione o deriva delle implicazioni globali ma eterne della convivenza antropologica - basti pensare al problema della “repressione” in Augé - che invece nei testi di Koolhaas è sempre una freccia polemica, geniale, ma isolata da un pensiero ideo-logico organico, per quanto ricorrente e ripresa di volta in volta…  (3)   Questa consapevolezza dei processi storici ha formato un complesso teorico, (quello di Augé), non certo facilmente deducibile od utilizzabile sempre, ma comunque con forti implicazioni di riconoscibilità, mentre Koolhaas riesce simpaticamente a scontentare tutti nel mentre che graffia, sparge un panorama di colori significanti e non solo di pigmenti autoreferenziali alla Action Painting ed  ottiene il grande successo…

 

E’ indubbiamente l’elemento della proliferazione che governa la conurbazione e che non fa più (solo) edifici o (solo) urbanismi, ma denota di sé un mo(n)do subdolamente significante nel mentre la connotazione stessa s’espande a macchia d’olio inarrestabile, nella sua sovrabbondanza ideologica agerarchica. (L’eccesso di Augé).    La “libertà eroica” nell’osservare la perdita del centro e del simbolo:

 

“…Se, da una parte, la Città Generica è, infatti, la città che si è eroicamente liberata <dalla schiavitù del centro>, e  <dalla camicia di forza dell’identità>, <spezzando l’asfalto dell’idealismo con il martello pneumatico del realismo>, dall’altra essa è la città definitivamente sedata, il <luogo di sensazioni deboli e rilassate>, il trionfo di una <terribile quiete>, che si compie <tramite l’evacuazione della sfera pubblica>…” 

 

denota (anche) tutto Koolhaas, il suo convinto anarchismo, il suo spinto compiacimento nel constatare l’annichilimento di dimensioni millenarie e la genialità nel descrivere il negativo, nel portare, persino, a galla l’indicibile quando ci ricorda che in alcuni paesi ex-emergenti dell’Asia, ormai tra i più evidenti corifei della modernità nelle loro sfrenate realizzazioni, lo…

 

“…shopping non è una semplice frenesia di consumare ma una autentica essenza della vita urbana”  (4) 

 

…come se si trattasse dei popoli dei grandi brulicanti mercati a cavallo storico delle civiltà e dei mondi di senso (ma ognuno ben connesso a se medesimo… e gli sconfinamenti… immani rotture) e delle grandi carovaniere   …quasi ci fosse ancora dato, di nuovo, come una garanzia di precaria stabilità nel primario sopravvivere, (né sottovivere,sopravivere)  e quindi nel tempo della liquidità insignificante, (ma rispetto alla… vacuità ed al destino, c’è mai stato un diverso tempo?) il grande insegnamento (anticoccidentale, estremorientale), della corrispondenza (significante ed insignificante) del tutto (e di ognuno) al tutto.  Contro la lettura immediata, ideo-logica, giusta in sé, (anche nostra, mai da abbandonarsi… sempre da tenere in sottotraccia) ma che non comprende quasi mai (per statuto), né lo stato di realtà né quello di necessità…  Ecco il perché della giustezza del successo, (rispetto al mondo, rispetto al secolo) che non va letto con la sufficienza, la rabbia, l’invidia, la poca consapevolezza dell’altro, ma con una serena, lucida, disincantata, ma assieme potente rigenerazione verso il sempre possibile dell’età del futuro tragico, nella nostra marginalità attiva.  Dentro il mondo così com’è, senza utopismi che non siano la volontà intatta e consapevole, logica, di costruire… non nascondendoci dentro il roseo sogno (l’incubo) “dell’uomo senza pesi e senza legami, che preferisce la sensazione all’esperienza, lo sfioramento al radicamento”, nel mentre che il tempo e lo spazio sono crescentemente divorati, digeriti e scartati, nel mentre che comprendiamo definitivamente che possiamo essere felici “…solo malgrado qualcosa: malgrado un amico che soffre, malgrado una guerra che uccide, malgrado un universo malato…”

 

Chi (ammette) di vedere, (come fa Koolhaas),  può denunciare e può pensare a qualche ipotetico (e magari anche concreto) limitato rimedio, ma il fatto della conurbazione che significa solo se stessa, rimane nella sua dirompente tragicità, suggerendo un giudizio complessivo. Che è implicitamente ideologico, anche se gli stupidi-intelligenti od i coperti dal successo, non lo vorranno (protranno) mai ammettere.  E’ esattamente ciò che fa infuriare  tutti coloro che in buona o cattiva fede pensano che la pesanteur  possa essere contrata da mezze misure o da una gestione, magari appena meno delinquenziale o solo un poco più onesta dell’esistente… senza incidere sui fondamentali, quelli di cui Koolhaas fa paideia… Costoro si chiamano progressisti?  Se sta bene a loro…  Ma noi non lo crediamo… se togliamo al progresso, come reperta Koolhaas, la sua giustificazione interna e decisiva, che sarebbe probabilmente tremendamente smarcante,  (…essendo ontologica, filosofica, ancora prima che etica).  Ma la lezione che viene da lui e da altri che hanno saputo leggere dentro il mondo, non ci risuona negativamente solo perché altri (che sembrano a noi più vicini)  hanno saputo leggere fuori dal mondo… anzi in tal modo collima telemetricamente l’incrocio binoculare.

 

I passi che ci interessano, in definitiva… erano tutti già a noi ben presenti e quindi il favore è di vederli risuonare in altri spazi e forse con qualche diverso accento:

 

“…Non è esattamente vero che si ‘accetta quasi tutto’: in effetti il segreto del Junkspace è di essere insieme promiscuo e repressivo: mentre l’informe prolifera, il formale si indebolisce, e con esso tutte le norme, i regolamenti… i ricorsi. Babele è stata fraintesa. Il linguaggio non è il problema, è solo la nuova frontiera del Junkspace. L’umanità, dilaniata da eterni dilemmi, dall’impasse di dibattiti apparentemente senza fine, ha lanciato un nuovo linguaggio, che supera divisioni invalicabili come la fragile passerella pedonale  di qualche progettista… ha coniato un’intraprendente ondata di nuovi ossimori per sospendere le vecchie incompatibilità: life/style, reality/Tv, word/music, museum/store, food/court, health/care, waiting/lounge. Il nominare ha preso il posto della lotta di classe, amalgama sonoro di status high concept e storia. Attraverso acronimi, importazioni inusuali, soppressioni di lettere, invenzione di plurali inesistenti, lo scopo è liberarsi del significato in cambio di una nuova spaziosità…  il Junkspace conosce tutte le tue emozioni, i tuoi desideri. E’ l’interno del ventre del Grande Fratello. Anticipa le sensazioni della gente. Viaggia corredato da una colonna sonora, odori, sottotitoli; fa sapere a tutti in modo chiassoso come vuole essere letto:  ricco, stupefacente, impassibile, enorme, astratto ‘minimale’, storico. Sponsorizza una minacciosa collettività di consumatori in sicura anticipazione dei loro prossimi acquisti, una massa di riottosi punti a capo catturata in un regno millenario di Razzmatazz, un parossismo di prosperità. Il soggetto è svuotato della sua privacy in cambio dell’accesso ad un nirvana di credito.  Sei complice nel tracciamento delle impronte che ogni tua transazione lascia dietro di sé, sanno tutto di te, tranne chi sei…”  (5) 

 

…quando magari un tempo sapevano niente di te, tranne chi eri, (…scegliete Voi),  con il sorrriso amaro di aver, da decenni, appunto, dovuto vedere ogni cosa trasformarsi per rimanere uguale, inno contro la noia (versus ordine-misura/disordine-dismisura), - peccato laico (e loico) per eccellenza ed a cui le masse oggi debbono fuggire più della peste… le discoteche di plastica… le code in autostrada… le incongrue insegne, anche le più prevedibili e provinciali, tramutarsi da povere/immediate a sgargianti/cialtrone… ed il proliferare inarrestabile dappertutto e su tutto degli stupidi intelligenti che per decenni avevano ironizzato sul colonialismo diretto, che supportano e sopportano, con un ghigno scollacciato e risibile alla Salone Kitty, (con il visivo/letterario culto paranoico dell’atroce, che è tipico di una cultura pantofolaia), un’indiretta induzione coloniale ben più invasiva e pervasiva…  (ma, si conferma, mitridatizzata, anche l’altra). 

 

oppure:

 

“…Metà dell’umanità inquina per produrre, l’altra metà inquina per consumare.” (6)

 

oppure:

 

 “Il Junkspace è una ragnatela senza il ragno; per quanto sia un’architettura delle masse, in esso ogni traiettoria è rigorosamente unica. La sua anarchia è una delle ultime forme tangibili attraverso le quali abbiamo accesso ad un’esperienza di libertà .”   (…)     “…il Junkspace, è post-esistenziale; ti rende incerto su dove sei, rende poco chiaro dove stai andando, distrugge il luogo dove eri…”   (7) 

 

Se la forma tangibile della libertà tende a residuare nel consumismo compulsivo, ultimo stadio del post-capitalismo che si suggerisce come fine-del-mondo senza ovviamente poterlo essere, (…vedere a quali mali siamo sfuggiti è cosa dolce… lucrezianamente) si capisce questa accettazione massiva e frenetica della (de)pressione del sistema, nell’essere ridotti gradualmente a compartecipi compiaciutamente anarcoidi della gestione sociale.  ‘Sedata’ dalla società medicalizzata in quanto progressivamente nevrotizzata, dalla cultura terapeutica e dal culto della felicità indotta promossa dal nuovo conformismo emotivo, che giustifica l’edonismo spicciolo ed irresponsabile, tutte realtà così ben descritte complessivamente da quella che è, per noi, la ben significante contestuale endiadi  Furedi/Bruckner(8)  Società medicalizzata e felicità indotta sono le due inesauribili camere di risonanza mediante le quali ogni esistenza, anche quelle apparentemente meno dotate di una potenzialità apparente di significanza ed appariscenza, si sono trovate arricchite di una profondità altrimenti impensata ed impensabile. Se questo può essere ribaltato nel positivo per pochi, dotati di un autocontrollo sempre più impegnativo, è inevitabile che per i più, all’esuberanza euforica segua progressivamente il dramma depressivo ed asfissiante del grande personaggio nello scafandro paleoindustriale, privo di tecnologia sofisticatamente adatta agli abissi… Anche perché non tutti alla routine riescono ad opporre la convinta diserzione del centro-commerciale o della non-vita come ascesi di conoscenza, alla Amiel od alla Emo…

 

Ora noi sappiamo bene, con Furedi e Bruckner, quanto il percorso del nuovo conformismo emotivo ed il culto della felicità indotta abbia invece ben poco a che fare con la ‘vera’ sofferenza psichica e con la relativa terapia clinica e che la teolologia del denaro che è il brodo di cucina del nuovo obbligo alla felicità, sarà sempre ingannevolmente e mortificatamente suadente, se non seguendo la stessa logica che segue Koolhaas… proprio questa illogica planetaria impostasi, che trasforma singoli e complessità in deformi ed informi,  con lo statuto ipocrita della cura obbligatoria e senza-fine-vita e con il contestuale richiamo parallelo alle fedi più o meno esotiche (sempre di necessità traslate ed alla fine ridicolmente parafrasate e non consideriamo neanche i fondamentalismi che sono impressionanti fughe per la tangente), ancor più incapaci di quelle endogene ormai consentanee a tutto, di opporsi, se non funzionalmente e residualmente, alla spaventosa carenza interiore di potenzialità stoica…  Certo, lo speculum è importante… “faccia a faccia” spesso non riusciamo proprio a vedere (oltreché ormai persino a guardare… Corinzi  I, 13,12), od almeno questa sembra la nostra condanna vitale.   Ed allora, sia pur sovente in veste enigmatica, dobbiamo rifarci agli intellettuali, ultima schiera degli interpreti, così vituperati dalla lettera paolina (poco prima), non tanto, ovviamente, in quanto tali, ma (per noi) come disponibili tramiti potenziali d’un insegnamento vivente e trasmissibile…  Anche perché poi non è solo il mondo (il secolo) a deluderci, in profondità, ma le chimere instabili e perlopiù miniaturizzate (non emiane) che noi irresponsabilmente autofabbrichiamo, non avendo il potere di realizzare, al minimo almeno, i nostri veri progetti vitali, sia pur permanentemente dirottati. Degli infinitesimi cristoforocolombo, proiettati verso le antiche terre indie e che scoprono lande sconosciute. La promessa che riproponiamo, imperterriti e mai arresi, contro la constatazione del fallimento…  E questo avviene sia verso l’avvenire che verso il passato. Ma se l’avvenire mantiene bene e male, commisti alla promessa dell’imprevisto e dell’ignoto e del “sempre possibile”, un suo orizzonte radioso e folle, sul passato incombe il pericolo fosco dell’oscuramento, del travisamento, dell’esaurimento totale, della riscrittura senza onestà e rispetto…

 

Infatti Koolhaas non parla solo (ad esempio)  di spazio consumato, quanto di passato consumato, in quanto esso è legato all’identità (questa icona ove ormai si gioca la partita più decisiva di tutte):

 

“…Ma il fatto che la crescita dell’umanità sia esponenziale implica che il passato ad un certo punto diventi troppo ‘piccolo’  per essere abitato e condiviso da chi è vivo.  Noi stessi lo esauriamo.  Nella misura in cui la storia si sedimenta nell’architettura, l’attuale quantità umana inevitabilmente esploderà e consumerà la sostanza precedente. L’identità concepita come questo modo di condividere il passato è un’affermazione perdente: non solo in un modello stabile di continua espansione demografica c’è proporzionalmente sempre meno da condividere, ma la storia stessa  possiede un’emivita odiosa: più se ne abusa meno si fa significativa, finché i suoi vantaggi depauperati diventano dannosi.” (9)   

 

Proliferazione è senza scampo… anche se non crediamo sia, per merito o necessità, il martello divino di nietzschiana memoria… L’unico scampo che ci potrebbe assistere (…ad un ‘sistema finito’ non si può applicare, oltre un certo limite, - e quindi secondo ragione, anche fin dall’inizio ideologicamente - una ‘progressione infinita’), è quello che ci deriva dal poter pensare (e forse sperare) che il sistema possa rivelarsi anch’esso infinito (unica obiezione razionale oltreché - paradossalmente - ragionevole) (10) per una progressione potenziale, ipotetica e futuribile od urfuturibile, (11)   tramite i varchi offerteci dalle nuove scienze come la genetica molecolare e la fisica dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande… ed ovviamente da tutti i tipi di tecnologie ad esse afferenti… anche se a livello di non specialisti viviamo inconsapevolmente immersi in un mondo di cui sappiamo realmente e proporzionalmente sempre meno  (ci vede sudditi come e forse più di un tempo) e che ci trova impegnati perlopiù in incombenze del tutto fisiologiche. In fondo siamo anche abbastanza convinti che, se la parafrasi di molte ricerche  scientifiche ultime non si può mai facilmente tradurre in un insegnamento spendibile immediatamente (…i neuroni a specchio!!!???... i vari tao della fisica…), ovvero sul piano della cosiddetta cultura umanistica, ma che valga semmai evocatoriamente prima ad un livello ontologico e filosofico, (Noica… Emo), per poi magari poter essere veramente lievito logico ed emozionale, il vecchio sogno della cosiddetta terza cultura, (12) è più una vocazione formale (…nel senso che la trasmissione culturale è sempre una trasmissione anche formale) ed un auspicio di percorribilità per onesti e produttivi.

 

Questo solo per restare al campo del possibile… (o meglio dei guénoniani compossibles).

 

I passi di Koolhaas, quindi, al di là degli ammiccamenti e delle scudisciate, sono quelli in consonanza con un pensiero di tradizione e di costante ricerca, non conferme, pleonastiche e quindi non essenziali, ma modi propri invece nel procedere intellettuale di chi vede e non volge il viso altrimenti… capaci di farci più che sospettare che questa implementazione folle, che ha trovato dei sapienti cantori,  troverà anche sicuramente (e saranno altri canti, forse meno sapienti ma più immediati…), raggiunto il possibile estremo (se non interverranno inaudite sorprese) e risparmiandoci le facili declamazioni come i più che squallidi compiacimenti, chi dovrà affrontarla prima o poi con un carico di verità, responsabilità e destino, ben diversi da ciò che oggi sembra contare.

 

 

 

 

Note:

 

1) Rem Koolhaas, Junkspace, Quodlibet, 2006, pag. 111. Come riporta Gabriele Mastrigli, nella Postfazione del libro, questo pensiero è prossimo al manifesto  del Nulbeweging (Movimento Zero), variante del tedesco Zero Movement e del francese Nouveaux Réalistes…

2) Idem, pag. 112. Il padre di Koolhaas, Anton, scrittore teatrale, dirigeva in quegli anni l’Amsterdam Film Academy.

3) Sandro Giovannini, ‘Potere: senso e repressione in Marc Augé’, in: …come vacuità e destino, NovAntico, 213, pag. 148. Il concetto di ‘surmodernità’ di Augé, non liquidabile subito come metafisico, perché sempre sostenuto fenomenologicamente.   Il  concetto di ‘cosmo-tecnologia’, sia pur nella personalissima versione progressiva di Augé.   Le ‘tre figure dell’eccesso: la sovrabbondanza di riferimenti, di spazio, di individualizzazione dei riferimenti’… E soprattutto, a nostro avviso, rispetto al problema repressione/potere il concetto della ‘diversità (nella sostanziale identità… quindi non: meglio o peggio ma diverso) che può avere una sua cornice sovratemporale nell’ambito dell’accettazione logico/metastorica della complessità originaria (alla de Santillana)… anche questi sono parametri sistematici di Augé assimilabili alla sensibilità di Koolhaas… Per rinforzare ulteriormente questa linea interpretativa potremmo riportare una citazione del nostro saggio in questione:

 

“ <Dedurre il vissuto individuale concreto dai miti d’origine, dalle cosmogonie, dalle forme rituali o dalle teorie antropologiche locali è certamente sacrificare ad una concezione strettamente esegetica del simbolismo. Quest’ordine intellettuale non è espresso, o all’occorrenza imposto all’individuo, se non come richiamo all’ordine.> (Augé, Poteri di vita, poteri di morte, R. Cortina Editore, 2003)    Ove il richiamo all’ordine esplicitamente diviene elemento ben più complesso e problematico della semplice categoria repressione.  Se è vero quindi che il richiamo all’ordine è ben più complessa dimensione della repressione pura e semplice ed implica un riferimento a fattori simbolici, palingenetici e alcune volte persino messianici, in tal modo sollevando parte della responsabilità civile dell’individuo, è anche vero che, come Augé dice: <Il totalitarismo logico-sociale non toglie nulla alle difficoltà della pratica e all’angoscia del vivere. La tendenziale identificazione dell’ordine sociale, dell’ordine individuale e dell’ordine intellettuale mette a confronto le pratiche con i temibili rischi della necessità retrospettiva e ineluttabile. Nessuno è al riparo dal rischio, ma gli individui sono diversamente armati per fronteggialo e questa disuguaglianza è, in ultima analisi, sociale. > (Augé, cit., pag. 74)   (…)  <Certamente alla base del problema della repressione come espressione del potere c’è il problema ineliminabile ed inaggirabile delle differenze, sia nelle società di classe sia nelle società senza classi, essendo il potere ben anteriore alla comparsa delle classi. > (Augé, cit., pag. 16),  Le differenze innervano ogni società, qualsiasi sia la sua ideologia, in quanto: <l’ideologia è sempre ideologia del potere in qualsiasi tipo di società...  (...) ...tutte le società sono repressive ed impongono allo stesso tempo un ordine individuale e un ordine sociale. >” (Augé, cit., pag. 18).

 

4) Rem Koolhaas, cit., pag. 118:

 

“…Da ‘S,M,L,XL’, in poi le riflessioni di Koolhaas alimentano vari gruppi di ricerca di cui egli stesso è animatore e figura di riferimento, i cui prodotti (libri, mostre, riviste, cataloghi) si situano a cavallo tra arte, architettura, sociologia urbana, comunicazione”.  Dalla Postfazione di Gabriele Mastrigli.

 

5) idem, pag. 84.

6) idem, pag. 83.

7) idem, pagg. 75 e 82.

8) Frank Furedi, Il nuovo conformismo, Feltrinelli, 2004. Un solo passo:

 

“La tensione fra ragione ed emozione risale alla filosofia greca e la difesa dell’intelligenza emotiva può essere vista come un contrappunto ideale alla concezione platonica. Per Platone l’accentuazione delle emozioni aveva l’effetto paradossale di impedire alla gente di trovare soluzione alle loro sofferenze. <Dobbiamo imparare a non perdere tempo a piangere sulle nostre ferite, come un bambino appena caduto, ma abituarci a scacciare il dolore curandoci delle ferite ed emendando i nostri errori il prima possibile.> Oggi una simile affermazione varrebbe a Platone una diagnosi di ‘negazione’.  Eppure per tutta l’epoca moderna, l’autocontrollo, il dominio sulle emozioni, è stato considerato il fondamento di una società civilizzata. Oggi i teorici dell’intelligenza emotiva sosterrebbero che il distacco di Platone era solo esteriore e mascherava in realtà un profondo disagio. Antidote, l’organizzazione inglese impegnata nella promozione della intelligenza emotiva nella vita pubblica, sostiene, in una prospettiva decisamente antiplatonica, l’importanza della competenza emotiva in politica, <…per avere dei cittadini, che come da tempo chiede il femminismo, sappiano parlare di politica ed agire in politica in maniera coerente, sulla base di informazioni valide – e con sentimento. > La promozione dell’intelligenza emotiva è sintomatica di un clima di pessimismo intellettuale, di sfiducia nella razionalità e nell’apprendimento convenzionale.  <…l’intelligenza di tipo accademico lascia impreparati  di fronte ai problemi emotivi dell’esistenza>, scrive un assertore dell’importanza delle emozioni. E dunque la risposta ai problemi dell’individuo contemporaneo  sarebbe l’educazione emotiva.”.  F. F., cit., Pag. 195.

 

 

Pascal Bruckner, L’euforia perpetua, Garzanti, 2001. Un solo passo:

 

“In conclusione, vogliamo evitare ogni forma di fraintendimento: non c’è in noi, e probabilmente non ci sarà più, saggezza di fronte alla sofferenza, come un tempo la manifestavano gli antichi, come ancora oggi fanno i buddhisti. Per la semplice ragione che la saggezza presuppone  equilibrio tra individuo e mondo e questo equilibrio è rotto da molto tempo, almeno fin dagli inizi della rivoluzione industriale. Dinanzi alla malattia, alla vecchiaia, noi adesso subiamo, ma questa docilità del tutto provvisoria verrà smentita non appena l’ingegno umano riuscirà a sovvertire le norme sinora accettate. (E la scienza è davvero la nostra ultima avventura, il nostro ultimo grande racconto, che porta in sé incubi e sogni, l’unico capace di combinare insieme poesia, azione, utopia.)”.  P. B., cit., pag. 185.

 

 

 

9) Rem Koolhaas, cit., pag. 28.

10) Robert Graves, In favore di Santippe, ne Il palinsesto del cervello umano, Il melangolo, 1995, pag. 210:

 

“Sebbene mi affidi all’intuizione per scrivere poesie e in generale per condurre la mia vita, l’intuizione va chiaramente posta al vaglio della ragione ogni volta che si può.  I poeti sono (o dovrebbero essere) persone ragionevoli; le poesie, sebbene partano dall’intuizione, sono (o dovrebbero essere) entità ragionevoli, e hanno una pienezza di significato invero unica. Non classificherei, tuttavia,  poeti o poesie come ‘razionali’.  ‘Ragionevole’ ha calorose connotazioni umane, ‘razionale’, ne ha di freddamente disumane. (…)  Cara provvida Ragione!  La tecnica di separare i fatti concreti da un mare di congetture, voci o leggende e di inglobarli, a seguito di prove e controprove, in un sistema ordinato di causa ed effetto!   Ma attenzione a non dare troppa potenza e troppa gloria a questa tecnica. Per quanto utile in numerosi compiti stereotipati, la Ragione ha i suoi bravi limiti. Manca, ad esempio, di ispirare chi scrive poesie originali o dipinge tele originali o compone musiche originali, e non mostra alcun barlume di spirito o di sentimento religioso.”  R. G.. cit., pag. 209.

 

11) Sandro Giovannini, ‘urfuturismo. Ipotesi di lavoro’, in …come vacuità…, cit., :

 

“…L’urfuturismo potrebbe essere di nuovo questa dimensione non scontata, problematica, di rimessa in gioco di ogni cattiverio e di ogni ipotesi individuale e sociale, che possa divenire storia, dopo il sostanziale dayafter che ci riserverà prima o poi il nostro semplice futuro.  E qui, quando parliamo di futuro, non parliamo di un futuro futuribile ma proprio di un banalissimo avvenire riservatoci, di probabile degrado e di probabile marginalizzazione.  Per reagire a questa deriva non si può che mettere in campo quel poco che ci residua e che ci è proprio, ovvero una antichità assoluta ed una modernità altrettanto assoluta.  Ogni ipotesi altra è quasi sicuramente destinata a fallire per l’inadeguatezza alla deriva medesima.  La necessità dell’urfuturismo è quindi vitale e non solo spirituale, ideale, generazionale, artistica.  E dobbiamo figurarcela come estranea a tutti i parametri della usualità borghese accettabile attuale, ovvero quel qualcosa che sta tra l’eccellenza senza paragoni (ovunque si verifichi e dovunque si diriga) e la scorrettezza estrema del pensiero non assoggettato ad alcun limite, né di tipo umanistico né di tipo confessionale ed una vitalità ritrovata e luperca che non deve prendere esempio da nessuno perché nessuno è in grado di darci ciò che non ci appartiene già, almeno come ipotesi di lavoro.” S.G. cit., pag. 357-358. 

 

12) Autori Vari, Terza cultura. Idee per un futuro sostenibile, Il Saggiatore, 2011.