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Dalla lingua, alla cultura, alla civiltà: (ir)resistibile progressione dell’imperialismo didattico

di Francesco Lamendola - 15/07/2014


L’insegnamento delle lingue straniere è un cavallo di Troia dell’imperialismo politico, tanto più subdolo, quanto meno esso è consapevole? L’insegnamento della «lingua e civiltà inglese», in particolar modo, è l’utile strumento di cui le due potenze anglosassoni, dal di qua e al di là dell’Atlantico, si servono, per egemonizzare l’immaginario culturale dei giovani studenti di tutto il mondo, compresi i nostri? E gli insegnanti di quella lingua, specialmente quando organizzano viaggi di studio e soggiorni culturali in Paesi di espressione inglese, diffondendo materiale pubblicitario e turistico e presentando tali viaggi e soggiorni come fondamentali esperienze formative e culturali, ne sono i preziosi, ancorché ignari agenti e propagandisti?

Prima ancora di qualsiasi esplicito discorso, il semplice fatto che le famiglie e la scuola decidano di fornire a un bambino delle elementari, o a un ragazzo che frequenta la scuola media, un insegnamento della lingua inglese, che, poi, alle superiori, diventerà anche insegnamento della letteratura e civiltà statunitense, non significa forse proporgli un modello culturale privilegiato, intrinsecamente degno di attenzione e di ammirazione? E condurre quel bambino, quel ragazzo, a fare un viaggio d’istruzione o una vacanza-studio, in cui dovrà ulteriormente familiarizzarsi con quella lingua e sperimentare di persona quel “way of life”, quello stile di vita, non significa, implicitamente, suggerirgli che sarà tanto più “bravo”, quanto più si saprà ispirare o uniformare a quel modello, staccandosi, per converso, dal proprio, percepito come meno prestigioso, meno allettante e, quindi, in ultima analisi, anche come “inferiore”?

Esemplare di questa inconsapevolezza della funzione di imperialismo didattico svolta dall’insegnamento delle lingue straniere è quel che scrive in proposito Giovanni Freddi nel suo libro «Didattica delle lingue moderne» (Bergamo, Minerva Italica, 1979, pp. 108-09):

 

«L’opzione di valori è talmente inerente all’educazione e all’istruzione da emergere “naturalmente”, prescindendo da qualsiasi  intenzionalità cosciente. Se consideriamo il legame di solidarietà che unisce la lingua alla cultura globalmente intesa, dobbiamo riconoscere che, allorché l’insegnante opta per una certa varietà di lingua con esclusione di altre, egli opta altresì per certi modelli culturali con esclusione di altri, assegnando ai primi una funzione normativa, di orientamento nella condotta. Gli insegnanti di lingue sanno quanto sia importante delimitare, a qualsiasi stadio dell’insegnamento, un corpus linguistico da proporre agli allievi. Tale delimitazione, che è poi una scelta, concerne la selezione delle  situazioni comunicative, delle varietà di lingua, delle strutture e del lessico da mettere in gioco. In tale operazione, pur imposta da esigenze di funzionalità e di efficacia, l’atteggiamento apprezzativo dell’insegnante risulta già in atto.

Il nostro discorso ci porta ad alcune osservazioni conclusive. Prima di tutto l’accostamento organico alla lingua e alla realtà culturale espressa dal popolo che la parla consente il superamento del formalismo grammaticalistico, assicurando ai significanti linguistici i loro significati autentici. Tale saldatura appare indispensabile a tutti i livelli, anche per i corsi di lingue di taglio più decisamente strumentale (corsi per camerieri, corrispondenti, hostess, ecc.). Inoltre, se l’accostamento ai motivi culturali immanenti (referenti interni, inerenti al materiale linguistico accostato) può servire a far maturare un’adeguata competenza linguistica e, in certa misura, anche sociolinguistica, è soltanto UN’ESPERIENZA dei motiv culturali “esterni al testo” che consente di raggiungere un’adeguata competenza sociolinguistica e comunicativa di dimensione semiotica. Così l’esperienza della lingua viene ad inserirsi nel più vasto reticolo dei linguaggi propri del popolo straniero, che vanno non soltanto descritti ma anche “praticati”, data l’intima connessione esistente fra questi e lo strumento linguistico. Relativamente a tali aspetti, sono scarse le verifiche operate in sede psicologica, ma sembra egualmente possibile affermare che, nella graduatoria delle motivazioni, cioè dei momenti vitali del’allievo, l’istanza culturale – nell’accezione da noi proposta – si colloca ad un livello di preminenza.

I processi di socializzazione e di culturizzazione (o, come esito ultimo, di civilizzazione) costituiscono gli aspetti più visibilio dell’itinerario formativo. L’incontro con la lingua-civiltà straniera allarga l’area dei rapporti sociali dell’allievo, mettendolo in contatto con popoli che “pensano il mondo in modo diverso”. Ciò gli consente di penetrare il significato delle culture altrui, di superare le visioni etnocentriche ed autarchiche della cultura e della vita, in breve di conseguire quella coscienza del relativismo culturale che oggi, più che mai, va considerata un valore da perseguire.

Non è da ritenere che questa nuova dimensione si dilati in misura direttamente proporzionale al numero delle lingue –civiltà straniere accostate: perché l’etnocentrismo entra in crisi lasciando posto al relativismo culturale cui si è accennato è sufficiente accostarsi anche ad una sola lingua-civiltà straniera, a condizione tuttavia che l’incontro non sia vanificato da formalismi didattici di tipo grammaticalistico. Se tale vanificazione non avviene, nell’allievo maturano sentimenti d tolleranza, desiderio di liberarsi dagli stereotipi, disponibilità al dialogo e alla collaborazione con tutti i popoli.

All’espressione lingua-civiltà straniera noi assegniamo dunque un valore inclusivo che comprende l’accostamento alla “cultura”, quale veicolo di significato, e un’apertura ideologica – pertanto selettiva – a quei modelli culturali del popolo straniero che ci sembrano suscettibili di soddisfare le esigenze di un’educazione integrale della persona umana.»

 

L’Autore, dunque, non solo si compiace del fatto che l’insegnamento della lingua – e della civiltà – straniera svolga un utile ruolo di sprovincializzazione, consentendo il superamento di visioni autarchiche ed etnocentriche, ma afferma che il suo effetto sarà una visione del mondo basata sul relativismo culturale, visto senz’altro come un valore da perseguire. Beata ingenuità, verrebbe da dire. Se è vero senz’altro che nessuna cultura, e dunque nemmeno la propria, dovrebbe scivolare in un atteggiamento di autosufficienza o, meno ancora, di etnocentrismo, è altrettanto vero che non perciò risulta vero e desiderabile l’opposto estremismo: il relativismo culturale; né che una egemonia culturale esercitata dalla lingua straniera di maggior prestigio, e del modello culturale da essa sotteso, si traduca in una relativismo culturale, e sia pure nel senso positivo dell’espressione. Molto più probabile, al contrario – e ci sembra che lo si possa verificare con mano -  sarà la sostituzione di una “ingenua” autarchia culturale nostrana con una altrettanto ingenua, ma tanto più esiziale, in quanto inconsapevole e perciò acritica, imitazione di modelli stranieri, i quali, non avendo alcun riscontro nel tessuto culturale di appartenenza, non possono che esercitare una finzione simile a quella del cuculo nel nido altrui: gettare fuori, ad uno ad uno, i propri valori e i propri modelli di riferimento culturale e sostituirli con valori e modelli importati («tu vuoi fa’ l’americano» di Renato Carosone; e «l’americani so’ forti» di Alberto Sordi.

Addirittura, l’Autore paventa, come unico rischio, quello di un eccesso di rigore “grammaticalistico”, che potrebbe frustrare lo slancio dell’atto educativo verso l’introiezione di modelli culturali stranieri: come se parlare male una lingua straniera fosse il male minore, pur di non smorzare lo zelo imitativo nei confronti di quella lingua-civiltà straniera. Egli, infatti, si direbbe che finga di non rendersi conto che la lingua-civiltà in questione non sarà affatto una qualsiasi, ma quella politicamente ed economicamente più forte: e che, pertanto, l’effetto relativistico in senso buono, come egli lo intende, si avrebbe se uno studente italiano, o svedese, o bulgaro, studiasse la lingua e la civiltà degli Eschimesi, o dei Papua, o degli Andamanesi: non se egli studia la lingua-civiltà anglosassone, foriera di un modello culturale che si sta imponendo come unico a livello mondiale, con tutto ciò che la cosa comporta, dall’alimentazione (mangiare hot-dogs da McDonald’s e bere Coca-Cola), alla politica estera (assenso alle guerre di aggressione statunitensi ai quattro angoli del globo, beninteso in nome della democrazia e della pace), alla visione complessiva del mondo e della vita (materialismo, consumismo, pragmatismo, utilitarismo, nonché efficientismo ed economicismo esasperati).

Non stiamo parlando di una lingua e di un modello culturale qualsiasi, dunque, ma di quello oggi dominante a livello mondiale: e rafforzato, direttamente o indirettamente, da innumerevoli programmi televisivi, prodotti cinematografici, riviste, giornali, giornalini a fumetti, pubblicità, e favorito dalla incredibile piaggeria della televisione di stato, che mantiene dei corrispondenti fissi da Londra per intrattenerci piacevolmente, con cadenza quasi quotidiana, sugli ultimi pettegolezzi relativi al principe ereditario britannico e alla sua consorte o al più recente scandaletto denunciato dai “tabloid” d’oltre Manica e relativo a cose che non interessano minimamente il pubblico italiano (e questo, sì, è provincialismo culturale, anche se non è autarchico, ma esterofilo!). Siamo in presenza della solita inversione di valori: il conformismo culturale viene contrabbandato per anti-conformismo; la sudditanza, per cosmopolitismo; l’assenza di senso critico, per apertura mentale.

Dobbiamo domandarci, a questo punto, quali strategie si possano prospettare per uscire dal vicolo cieco, visto che imparare l’inglese bisogna, piaccia o non piaccia, nel mondo d’oggi (e viene in mente il buon vecchio Catone che diffidava del greco e diceva che impararlo era già imboccare la strada della sottomissione culturale).

La prima e più ovvia strategia è quella di un insegnamento critico, che, accanto alla lingua straniera – insegnata come Dio comanda, comunque: perché, con licenza di certa pedagogia “progressista”, una cosa imparata male è sempre e comunque un dis-valore -, presenti la “cultura” e la “civiltà” che si esprimono in quella lingua non come qualcosa di misticamente superiore e degno di essere imitato in tutto e per tutto, ma come una realtà storica e, quindi - essa sì - relativa, con le sue ombre e le sue luci, con i suoi lati positivi e negativi. L’insegnante dovrà astenersi da forme di esaltazione ingiustificata, da lodi iperboliche, da atti e parole – espliciti o impliciti – che possano suggerire una “superiorità” di quella cultura e di quella civiltà rispetto alla nostra, così come rispetto a qualsiasi altra; non taceranno gli aspetti sgradevoli di un certo sciovinismo, di un certo orgoglio che ne fanno inestricabilmente parte; ricorderanno, se del caso, le pagine nere legate a quella storia – lo sterminio dei Pellerossa o degli Aborigeni, per dirne una – e non solo quelle che si prestano all’ammirazione e all’entusiasmo.

Quanto alla lingua in senso stretto, è necessario che la scuola italiana, e la società italiana in generale, ritrovino la fierezza del nostro idioma; che ricomincino a dedicare maggiori cure al bel parlare e al bello scrivere; che si sforzino di contrastare sia l’imitazione servile di modelli stranieri, senza con ciò voler tornare al’autarchia linguistica, sia il pressapochismo e la sciatteria che impoveriscono e deturpano la lingua italiana. Il mezzo migliore per frenare l’arroganza dell’inglese che dilaga nella nostra lingua, mediante il vocabolario tecnologico oltre che mediante il cinema e la musica leggera, è quello di restituire consapevolezza, ai nostri studenti, della dignità, della bellezza e del valore storico della nostra lingua.

Il danno più grave che si fa all’italiano è quello di misconoscere il ruolo che la lingua svolge nella formazione interiore della persona. Il bambino italiano cui, fin dalla scuola materna, viene insegnata la lingua inglese, con fermezza e costanza talvolta superiori a quelle con cui gli viene insegnata la propria, da adulto guarderà alla lingua – e alla civiltà – italiana con una sorta di degnazione, se non di vergogna, come si guarda ad un parente povero rispetto a un parente ricco sfondato – che è, più o meno, il tragico errore commesso dai maestri, nei tempi passati, rispetto al dialetto: svilendolo e disprezzandolo, con esso veniva svilita e disprezzata la civiltà contadina, di cui era la prima e più autentica espressione.

Ai nostri nonni è stato insegnato a vergognarsi del proprio dialetto, così come ci si vergognava dei pidocchi o delle mani callose; cerchiamo di non ripetere lo sbaglio: cerchiamo di evitare che i nostri figli arrivino a vergognarsi dell’italiano, della lingua italiana, della cultura italiana, del modo di pensare italiano. Questo, almeno, se non vogliamo produrre individui sradicati, frustrati, confusi, ma cittadini consapevoli della propria identità sociale e culturale, oltre che di quella individuale.