Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Si può essere felici in amore senza curarsi affatto della felicità dell’altro?

Si può essere felici in amore senza curarsi affatto della felicità dell’altro?

di Francesco Lamendola - 28/07/2014

Fonte: Arianna editrice


 

 

 

Si può essere felici, in amore,  senza curarsi affatto della felicità dell’altro?

Il marchese De Sade ne era talmente convinto, che tutta la sua monumentale opera letteraria ruota, si può dire, attorno a questo punto; che poi è la necessaria premessa del sadismo in quanto disposizione mentale, perché, se la felicità dell’altro non è necessaria, anzi, è bene che non vi sia, allora ne consegue che la propria felicità consiste precisamente nel godere senza che l’altro goda, ridotto, com’è, a mero strumento del piacere di chi usa del suo corpo.

Dietro ogni atteggiamento sadico vi è, in controluce, una tendenza necrofila: il sadico punta al dominio assoluto, persegue una sottomissione totale dell’altro, vista come la condizione necessaria del proprio piacere; ma poiché la sottomissione totale e il controllo assoluto si raggiungono solo su un altro che è declassato da persona a cosa, a mero oggetto (di piacere, appunto), ne consegue che ogni sadismo è una forma mascherata di necrofilia, perché solo un corpo inerte, abbandonato, cadaverico, offre i giusti requisiti per la brama di controllo del sadico.

In altre parole: il sadico non desidera un corpo interamente sottomesso, che gli offra il massimo del piacere, cioè della sensazione di potenza; pretende di soddisfare la massima sensazione di potenza per mezzo di un corpo totalmente sottomesso e abbandonato: meglio ancora, un corpo sofferente. Un corpo, si badi, non una persona: come fosse un manichino animato: perché, se il sadico potesse riconoscervi ancora una persona, vi sarebbe qualche cosa, in quest’ultima, che sfuggirebbe al suo controllo e al suo dominio; dunque, per il sadico, poter disporre a suo piacere di un tal corpo “di morte” non è una delle maniere di sentirsi forte e potente, ma l’unica ed esclusiva, e si lega indissolubilmente al soddisfacimento dello stimolo sessuale.

Pertanto ogni sadico è un insicuro e un immaturo: un insicuro, perché teme che qualcosa possa sfuggire al suo controllo e permettersi di vivere di vita propria; un immaturo, perché nell’altro non sa, non può vedere altro che un corpo, una cosa, e precisamente una cosa da disprezzare, da umiliare, da far soffrire; però, nello stesso tempo, una cosa che lo attrae, che lo turba, di cui ha disperatamente bisogno. Di qui la contraddizione insita in ogni psicologia sadica: quel caratteristico impasto di dipendenza, cioè di mancanza d’autonomia, e di violenza, che è la scorciatoia con cui gli animi deboli tentano di nascondere, a se stessi e agli altri, la propria debolezza. Ogni violento è un debole; e un violento che trae l’unica fonte di piacere sessuale dal maltrattamento e dall’umiliazione dell’altro, è un debole alla ennesima potenza, un debole terrorizzato dalla propria fragilità e vulnerabilità, che ha deciso di ribellarsi al proprio destino, non già affrontando i propri fantasmi, ma concedendo loro quanta più libertà possibile, gonfiandoli ed enfatizzandoli - salvo poi servirsene per cercare in essi un illusorio senso di liberazione e di sollievo. Ha bisogno di farsi coraggio con la sua droga abituale, che, assunta in dosi sempre più massicce, poco a poco lo spinge oltre il limite da cui non si torna più indietro. Infatti il sadico, in genere, incomincia coltivando le proprie fantasie, poi inizia a metterle in pratica – da bambino o da adolescente – sugli animali; in seguito, divenuto adulto, passerà, quasi come fosse un gioco, agli esseri umani, forse consenzienti, forse no…

Il caso del marchese De Sade, comunque, è quello di un intellettuale che si ferma allo stadio della fantasticheria, anche se, in questa, si vanta di aver oltrepassato ogni limite. Sovente i suoi personaggi si gloriano di compiere degli atti che assommano, in un medesimo tempo, tre o quattro crimini diversi: violentare una figlia in una chiesa, servendosi di un’ostia consacrata, è, contemporaneamente, un atto di sodomia, di incesto, di blasfemia. La fantasia morbosa di Sade è pressoché inesauribile nell’escogitare sempre nuove aberrazioni; anche se il suo lettore sa bene che, arrivato a un certo punto, il divino marchese è costretto a ripetersi e incomincia a diventare terribilmente noioso, ripetitivo, prevedibile.

Come se non bastasse, Sade non si accontenta di descrivere minutamente le imprese dei suoi eroi libertini, le condisce con un vero profluvio di dissertazioni, prediche e sproloqui, che, con esasperante monotonia, girano e rigirano incessantemente, senza mai deflettere, senza mai cambiare scenario, senza mai aprirsi al più lieve soffio d’aria fresca, con asfittica perseveranza, sul medesimo tema: che trarre godimento dalla sottomissione e dalle sevizie inflitte all’altro è la forma più alta di piacere, nonché la più naturale, anzi, la sola veramente naturale, essendo ogni altro piacere “romantico”, o “spirituale”, cioè una costruzione fasulla di spiriti deboli, repressi, incapaci di guardare onestamente in se stessi e di liberarsi dalle pastoie di una educazione conformista e di una morale bigotta e irragionevole.

La parola chiave, infatti, nei fluviali discorsi che Sade mette in bocca ai suoi protagonisti, è proprio “ragione”: in nome della ragione essi conducono la loro impavida crociata per il ritorno alla natura: che è, a loro avviso, la legge dell’egoismo individuale portato ai suoi limiti estremi; un edonismo naturalistico e forsennato, che sfocia in una morale alla rovescia e che, anticipando Nietzsche, “trasvaluta” tutti i valori, dichiarando buono e giusto ciò che la società aborrisce, qualificandolo come infame e malvagio; e viceversa.

Nel corso di un dialogo fra due personaggi del romanzo «Aline e Valcour», Sade inserisce uno dei suoi caratteristici, incessanti, logorroici e noiosissimi sermoni filosofici, che suona così (in: D. A. F. Sade, «Aline e Valcour, ovvero il romanzo filosofico»; titolo originale: «Aline et Valcour, ou le Roman philosophique», traduzione dal francese di F.  Rossini Nicoletti, Roma, Newton Compton, 1993, pp. 176-78):

 

«”Ma tu riesci a concepire – dissi, camminando, a Sarmiento, “riesci a concepire che esistano esseri ai quali la sregolatezza rende necessarie sette o ottocento donne” [stanno parlando dell’harem del monarca di un regno immaginario, metà del quale è costituito da bambine che hanno meno di dodici anni]. “In queste cose non c’è nulla che non trovi semplice”, rispose Sarmiento. “Uomo dissoluto!”. “M’insulti a torto; non è naturale cercare di moltiplicare i propri godimenti? Per quanto bella sia una donna, per quanto appassionata, è impossibile non abituarsi, dopo quindici giorni, alla monotonia delle sue fattezze; e come potrebbe quel che si sa a memoria infiammare il desiderio?... L’eccitarlo non è cosa più certa quando ciò che lo suscita varia continuamente attorno a noi? Dove provate una sola sensazione, l’uomo che cambia o che moltiplica ne prova mille. Dal momento che il desiderio non è altro che l’effetto dell’irritazione causata dall’urto degli atomi della bellezza sugli spiriti animali [qui Sade dà una definizione  degli spiriti animali: il fluido elettrico che circola nella cavità dei nostri nervi; non esiste una sola delle nostre sensazioni che non nasca dalla vibrazione causata da questo fluido;  è il soggetto del dolore, del piacere; è, in una parola, la sola anima ammessa dai filosofi moderni…”], e che la vibrazione di questi nasce dalla forza e dal gran numero di quegli urti, non è dunque chiaro che più moltiplicherete la causa degli urti e più l’irritazione sarà violenta? Ora, chi mette in dubbio che dieci donne alla volta sotto i nostri occhi, non producano, per l’emanazione del gran numero di urti dei loro atomi, sugli spiriti animali, una infiammazione più violenta di quella che potrebbe procurare una sola?.” “Non ci sono né princìpi né delicatezza in questa sregolatezza; non offre ai miei occhi che un rivoltante abbrutimento”. “Perché cercare dei princìpi in un genere di piacere che non è certo se non quando spezza ogni freno? A proposito della delicatezza, disfati dell’idea che aggiunga qualcosa ai piaceri dei sensi. Può andar bene per l’amore, utile a tutto quel che concerne la sua condizione metafisica; ma non apporta niente al resto. Credi che i Turchi, e in genere tutti gli Asiatici, che comunemente godono da soli, non ottengano la felicità come te, e dimmi tu dove vedi in loro delicatezza. Un sultano ordina i suoi piaceri, non badando se sono condivisi [A questo punto Sade cita Fontenelle, altro celebre scrittore libertino: “Niente di più facile a concepirsi che si possa essere felici in amore, tramite una persona che non rendiamo affatto felice; esistono piaceri solitari che non hanno alcun bisogno  di essere comunicato, e dei quali si gode molto deliziosamente, anche se non dati; è solo puro effetto dell’amor proprio o della vanità il desiderio di far felice; è fierezza insopportabile il non accettare di essere felice se non alla condizione di rendere la pariglia… Un sultano, nel suo serraglio, non è forse mille volte più modesto?  Riceve piaceri innumerevoli, e non presume di restituirne alcuno… Si studi bene il cuore dell’uomo, e si troverà che la tanta stimata delicatezza non è che un debito pagato all’orgoglio; non si vuole dovere qualcosa”.] Chissà se certi individui capricciosamente organizzati, non scorgerebbero persino nella tanto decantata delicatezza qualcosa che nuoce ai piaceri che si aspettano. Tutte queste massime, che sembrano erronee, possono essere ragionevolmente fondate; domanda a Ben Mâacoro perché punisce tanto severamente le donne che si azzardano a condividere il suo piacere: ti risponderà come gli abitanti, male organizzati, secondo te, come gli abitanti, ti ripeto, di tre quarti della terra, che la donna che gode quanto l’uomo, si occupa d’altro e non dei piaceri dell’uomo, e che tale distrazione, che la costringe a occuparsi di se stessa, nuoce al suo proprio dovere, quello di non pensare che all’uomo; che colui che vuol godere, completamente, deve attirare tutto a sé; che ciò che distrae la donna dal compendio delle voluttà va sempre a svantaggio di quello dell’uomo; che l’oggetto, in quei momenti, non è donare, ma ricevere; che il sentimento derivante dal beneficio ACCORDATO, non è che morale e non può perciò convenire se non a un certo tipo di persone, mentre la sensazione avvertita dal beneficio RICEVUTO, è fisica ed è necessariamente di tutti gli individui, qualità che la rende preferibile a ciò che non può essere percepito da pochi; che, in una parola, solo il piacere gustato con l’essere inerte può essere completo, perché solo l’agente lo sperimenta, e pertanto, da quel momento più vivo”. “In questo caso, bisogna stabilire di una statua è ben più dolce di quello di una donna?”. “Non mi capisci; la voluttà è immaginata da quelle persone consiste nell’immaginare che il succubo POSSA e NON FACCIA, nel fatto che la facoltà che ha e che occorre che abbia, non siano impegnate se non a raddoppiare la sensazione dell’incubo, senza pensare di provarle”. “Veramente, amico mio, non ci scorgo che tirannia e sofismi”. ”Nessun sofisma; tirannia, e sia; ma chi ti dice che non aumenti la voluttà? Tutte le sensazioni si prestano i reciprocamente forza; l’orgoglio, che è quella della mente, aumenta quella dei sensi; ora, il dispotismo, figlio dell’orgoglio,  può dunque, al pari di esso, rendere un dispotismo più vivo. Guarda gli animali…»

 

Come si vede, la filosofia di Sade – e di Fontenelle – è una sintesi alquanto spregiudicata, ma piuttosto confusa, di edonismo, sensismo, materialismo, meccanicismo, naturalismo, con qualche spruzzata di epicureismo e di aristotelismo averroistico (senza con ciò voler fare torto a robusti pensatori come Boezio di Dacia e Sigieri di Brabante), il tutto coniugato in una chiave che oggi diremmo rigorosamente maschilista, poiché l’«altro», che deve essere sottomesso e ridotto a strumento passivo di piacere, è, per definizione, la donna (in realtà, come risulta da molte situazioni descritte nei romanzi di Sade, può essere anche l’uomo; ma qui, evidentemente, l’Autore vuole cautelarsi dal sospetto di pederastia).

Proviamo a seguire il suo ragionamento. L’uomo cerca incessantemente il proprio godimento, e in ciò consiste la sua felicità: in lui, infatti, non si dà alcuna dimensione spirituale; e quella che i filosofi ignoranti del passato chiamavano “anima”, altro non è che «il fluido elettrico circolante nei nostri nervi», ossia gli spiriti animali. Ora, quanto più questo fluido è sollecitato, tanto più il corpo gode e tanto maggiore è il grado di felicità che può essere raggiunto. Tutte le nostre sensazioni vengono dalle sollecitazioni del corpo; per cui, tanto maggiori sono le sollecitazioni, tanto maggiore è la felicità. Qui, a dire il vero, incominciano le contraddizioni: perché, se noi siamo soltanto corpo e se la nostra felicità deriva unicamente dalla sollecitazione del fluido vitale mediante le sensazioni, non si vede perché sia necessario disporre di molti oggetti di piacere. Sade afferma che una donna, una volta posseduta, per quanto bella, dopo quindici giorni al massimo viene a noia, perché il suo corpo, che è tutto quanto interessa, diventa noto fino alla sazietà; e che per questo è necessario poter disporre di moltissime donne, onde rinnovare continuamente il senso di novità derivante dal possesso dei loro corpi. Ma l’idea della novità è, appunto, una idea, cioè qualcosa di diverso dalla sensazione: se noi siano solamente le nostre sensazioni, allora che importanza fa se a provocarle è il poter disporre del corpo di una sola donna, o di molte? Sade, cercando di spiegarsi, parla dell’urto degli atomi della bellezza, che produce il piacere sessuale: ma che cosa vuol dire ciò? Gli atomi sono sempre e soltanto atomi, cioè materia; la bellezza è sempre e soltanto un concetto, cioè una essenza mentale, non corporea. Allora, dopotutto, non è vero che si gode solamente per mezzo delle sensazioni; si gode anche e soprattutto con l’immaginazione, che è una facoltà “spirituale”. E Sade è il primo a saperlo: lui, che in vita sua ha trasgredito ben poco le norme morali del suo tempo, almeno a paragone dei suoi personaggi, viveva letteralmente d’immaginazione e di fantasticherie, specialmente all’epoca della sua detenzione alla Bastiglia (quando, appunto, un anno prima dello scoppio della Rivoluzione francese, compose «Aline et Valcour, ou le Roman philosophique», il più “speculativo” dei suoi romanzi).

Poi Sade fa l’elogio della brutalità sessuale, mediante la “dimostrazione” che la delicatezza non aggiunge niente al piacere sessuale: perché la delicatezza vorrebbe anche la felicità dell’altro, mentre è certo che, se l’altro si concentra intorno al proprio piacere, sottrae qualcosa – egli dice – al mio. Dunque l’altro non deve godere, io solo devo godere; del resto, aggiunge, questa pretesa delicatezza non è che la maschera dell’orgoglio: si vuole far godere l’altro per avere una conferma del proprio valore amatorio (e questo, lo concediamo, può essere vero) e soprattutto per non essergli debitori di nulla. Se gode anche lui, allora siamo pari: non c’è niente di cui ringraziare. Ma questa, sostiene Sade, non è che vanità, tanto è vero che un sultano nel suo harem è l’uomo più modesto che vi sia al mondo: infatti non si sogna nemmeno di dare qualcosa alle sue concubine, e non si aspetta per niente che esse gli siano grate. Intanto, però, Sade si contraddice ancora: perché, citando Fontenelle, ammette che sta parlando della felicità in amore; ma ha appena detto che la delicatezza può andar bene per l’amore, sì, inteso in senso “metafisico”, ma non per «tutto il resto», cioè, stando al suo ragionamento, non per il piacere e, dunque, non per la felicità.

Infine, il maschilismo estremo: la donna, nell’atto sessuale, non deve godere; se gode, bisognerebbe punirla; ella deve occuparsi unicamente di dare il massimo piacere al suo amante (ma sarebbe meglio dire: al suo padrone onnipotente). A questo punto Sade pone a se stesso una logica obiezione: dunque non sarebbe la stessa cosa fare l’amore con una bella statua? E la confuta spingendosi ancora oltre, e affermando che il piacere dell’uomo non è quello di disporre di una donna naturalmente passiva, bensì di una donna che sarebbe attiva, e che potrebbe godere quanto l’uomo; ma che, appunto perché impedita di godere, dona all’uomo la consapevolezza di un predominio totale, cosa che eccita quest’ultimo in misura esponenziale. Di nuovo, Sade si contraddice: perché ciò di cui egli sta facendo l’elogio, a questo punto (valutazioni morali a parte), non è qualcosa di puramente sensoriale, ma di spirituale; è un’idea: l’idea, da parte del maschio padrone, che la donna di cui sta usando potrebbe anche lei godere, ma è le è rigidamente proibito di farlo, e ciò lo eccita fino al parossismo. Si badi: alla donna è proibito il godimento; non si tratta di una rinuncia volontaria, ma di una regola imposta dal maschio-padrone.

Povero Sade: come conosceva male la psicologia femminile! Possibile che non gli sia mai venuto in mente che, così come la donna può simulare perfettamente l’orgasmo, potrebbe anche simulare l’assenza di orgasmo? Eppure, dopotutto, forse non la conosceva neanche poi così male: visto che sovente le donne che più accesamente sostengono le rivendicazioni femministe, la “liberazione” del loro sesso  e il rifiuto del maschio egoista e prepotente, sono poi quelle stesse che finiscono per innamorarsi – non solo concedersi, ma proprio innamorarsi - di quel tipo maschile che più si avvicina al prototipo del maschio stupido, insensibile, scimmiesco; e che proprio all’epoca di Sade stava muovendo i primi passi l’idea della “emancipazione” femminile…

Povero Sade, davvero. In fondo, il suo vero dramma è aver disperato, in partenza, che fra gli esseri umani non possa darsi alcun legame di amicizia, di solidarietà, di tenerezza; alcuno scambio profondo e rigenerante; alcun bene reciproco. Il suo radicale pessimismo antropologico – mille volte più cupo e disperato di quello che egli, senza posa, rimproverava alla tradizione cattolica – lo portava all’isolamento, alla disperazione, e… alle inevitabili fantasticherie di onnipotenza: proprio come accade a tanti bambini e adolescenti che si sentono goffi, inadeguati, soli.