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Julius Evola e lo storicismo

di Luca Leonello Rimbotti - 28/07/2014

Fonte: Italicum

 

Rivolta contro il mondo moderno di Julius Evola è uno di quei pochissimi libri che meriterebbero di esser portati con noi sulla classica isola deserta. Appartiene al novero delle opere universali, che in un unico sguardo racchiudono l’intera vicenda della nostra civiltà, stabilendone le origini, i significati, i simboli, i destini. Qualcosa che, per impianto, profondità e ampiezza epocale delle prospettive, può considerarsi il pendant de Il tramonto dell’Occidente di Spengler. In Rivolta come altrove Evola legge gli avvenimenti della storia conosciuta come una costante regressione, ponendosi lungo quella linea di storicismo tradizionale che – da Esiodo fino a Nietzsche – vide nell’avvento del pensiero calcolante e nel dominio delle sottocaste materialiste la progressiva involuzione del sistema aureo delle origini. Come sappiamo, nel suo testo sulle Opere e i giorni Esiodo leggeva la degenerazione nel passaggio dall’età dell’oro a quelle dell’argento, del bronzo, degli eroi e infine del ferro. Una successione regressiva che tuttavia si impiantava tutta su un’idea del tempo come filo che si svolge verso una direzione necessaria, recante al suo interno la nozione ciclica degli eventi e delle ére: concezione dunque essenzialmente storica, anzi storicistica poiché fa della storia il perno della vita e del manifestarsi dell’essere. Allo stesso modo, Nietzsche vedeva nello sviluppo storico la stessa tendenza a regredire, per cui, da Socrate al socialismo, egli non vedeva che un unico svolgimento verso il basso, che dalle antiche eccellenze delle aristocrazie di pensiero e di dominio conduceva all’egemonia del razionalismo acquisitivo e al correlato avvento al potere delle plebi mercantili.

Quando Evola – ad es. in Gli uomini e le rovine – attaccava lo storicismo, dicendolo un elemento della degradazione progressista, lo legava alla versione moderna di quel movimento, per cui, davvero, la storiografia egemone negli ultimi due secoli ha sempre dato per scontato che l’umanità procedesse secondo una linea storica che dalla barbarie dell’antichità perveniva alla luce del progresso, della democrazia, dello sviluppo etc. Inoltre, Evola diceva quest’impostazione un frutto corrotto dell’epoca materialista, che al posto della tradizionale concezione dell’essere, dello star fermi sui principi intemporali legati alla trascendenza, aveva dato corso all’idea affatto sovversiva del divenire, del mutevole sempre e in ogni caso, del sempre nuovo che, con la velocità, l’effimero e il transeunte, li diceva cardine della società liquida e instabile legata al progresso e al cambiamento. E certamente, se guardiamo le cose da un tale punto di vista, è impossibile non dargli ragione.

Eppure, è anche vero che la medesima ottica evoliana è storicistica, poiché legge comunque uno svolgimento storico, sebbene rovesciato e in negativo rispetto alla lettura progressista: si va comunque procedendo in avanti, solo che ne risulta rovesciato il postulato di fondo: l’illuminismo cosmopolita vede nella storia il viaggio verso le “meravigliose sorti e progressive” dell’umanità, mentre il tradizionalismo – si tratti di Evola, Esiodo oppure Nietzsche o Spengler – legge in questo stesso fenomeno un’involuzione verso tutto ciò che è inferiore. Ma il fenomeno osservato è il medesimo. Scriveva infatti Evola circa «quel cedimento o franamento, per cui da civiltà dell’essere – cioè della stabilità e della forma, con aderenza a principi supertemporali – si è passati ad una civiltà del divenire, ossia del mutamento, del fluire, della contingenza». E accusava lo storicismo progressista di trascurare le variabili e i contraccolpi, i cambiamenti di direzione che spesso intervengono a mutare rotta per poi inabissarsi, così da considerare solo le culture egemoni e, così facendo «presumere di ricondurre il tutto ad uno sviluppo lineare».

L’accusa, riferibile al falso storicismo giacobino-illuminista di coloritura massonico-liberale, è certamente sottoscrivibile in pieno. Ma il “vero” storicismo, quello che attribuiva alla storia il compito fondante di rintracciare – sia come componente egemone e visibile sia sotterranea e minoritaria – i tratti della personalità identitaria dei popoli e, così facendo, narrarne la morfologia e le vicende, questo vero storicismo fu altra cosa. Modernamente, esso provenne per l’appunto dal Romanticismo, che per primo riscoprì la vena popolare delle culture e cercò di abbracciare con un unico sguardo ciò che segna la presenza oppure l’assenza di un’identità storicamente leggibile, qualcosa che può essere definito come una coscienza storica di sé, che certi popoli di cultura superiore hanno e certi altri invece non hanno. Evola non rifiuta il significato e l’importanza del senso della storia, che tra l’altro è implicito nella stessa considerazione della ciclicità delle epoche, da lui condivisa. La critica di Evola allo storicismo lineare e progressista, in cui egli vedeva l’impossibilità di inserire un libero volontarismo: il concetto di “fatalità della storia” rende gli accadimenti ineluttabili, e quindi, secondo questa impostazione, ogni sforzo di contrasto sarebbe destinato a soccombere. Ma allora anche la concezione ciclica della storia possiede un suo sviluppo, svolgendosi le epoche lungo percorsi ricorrenti e, al limite, prevedibili: necessità e finalismo sono interni anche alla dottrina dei cicli storici e dell’eterno ritorno. Difatti Evola critica lo storicismo marxiano (che, come quello cristiano, prevede un procedere verso la “fine della storia”, la “freccia della storia” che corre verso il bersaglio), ma compie anch’egli un percorso simile, semplicemente rovesciando i significati: dove il progressista vede lo sviluppo, Evola vede la regressione, la decadenza, fino all’avvento del “quinto stato” da lui denunciato come finale approdo degenerativo della civiltà moderna.

Quando poi Evola – in Cavalcare la tigre, ma anche in Gli uomini e le rovine – suggerisce di agevolare le forze degenerative al fine di affrettare la conclusione del ciclo nichilista, di nuovo presenta una concezione storicistica, che assegna comunque al procedimento storico – ciò che lui chiama il divenire – un ruolo centrale nella lotta per i valori. Era in fondo la medesima opzione nietzscheana: opporre al nichilismo distruttore un nichilismo attivo e creatore. Evola, insomma, è un vettore anch’egli dell’impostazione storicistica, ma quella tradizionale e organica che giudica – alla maniera di Spengler – gli eventi come parti relative e ricorrenti di un fenomeno molteplice, per cui ogni cultura ha il suo periodo di sviluppo, apogeo e crisi, dispiegandosi secondo logiche interne che dipendono dalla morfologia di una civiltà, dal suo segno interiore, dal suo Volksgeist. Sebbene anti-hegeliano, Evola rimase un cultore della storia come manifestazione del sacro che è interno ad ogni Kultur e che è individuabile lungo il suo peculiare percorso storico.

Cade a proposito quanto ha ben scritto Alain de Benoist nell’introduzione all’edizione delle Mediterranee de Gli uomini e le rovine, una delle opere in cui si appuntò la critica evoliana allo storicismo moderno: «In realtà, ciò che Evola rifiuta più profondamente, non è tanto lo storicismo propriamente detto, quanto l’ottimismo inerente alla forma moderna di storicismo, a cominciare dall’ideologia del progresso […] Evola stesso cerca, al di là della semplice concatenazione degli avvenimenti, d’identificare le linee di fondo dello sviluppo storico, e i momenti e le tappe della storia che egli ritiene più significative non differiscono affatto da quelle che la stessa ideologia del progresso ha preso in considerazione». E ciò che rivela questo dato è quanto Evola stesso ebbe a scrivere in Ricognizioni, dove, in margine alla sua critica allo storicismo fatalistico e utopistico marxiano, pure riconosceva a Marx il merito di aver cercato di «individuare una direttrice generale di marcia della storia in funzione di fasi ben precise». Che era in fondo il medesimo intendimento che lui, Evola, ha perseguito in tutta la sua opera: individuare la direttrice di marcia della storia – regressiva anziché progressiva – e precisare il fulcro dei valori, ora emergenti ora sommersi, che permangono nella storia. L’ideale ghibellino di Evola ebbe tutti i crismi di un’epifania eternamente passibile di inverarsi anche nel futuro, una presenza storica ma anche un augurabile approdo, dunque secondo un modo di pensare a suo modo finalistico, come possibile sbocco in un nuovo ciclo storico.

L’affresco in questo senso più poderoso compiuto dalla cultura italiana del Novecento per precisare i confini dei valori relativi all’essere della civiltà europea e per osservare da vicino i procedimenti in base ai quali questo fermo imperio dell’ordine si è andato sfaldando sotto i colpi di una secolare sovversione, è Rivolta contro il mondo moderno. Qui Evola sembra davvero un Mommsen della Kultur, un Ranke della civiltà indoeuropea, uno Spengler della tradizione: uno storico dell’anima interna alla civiltà superiore. E un diagnostico della curva involutiva che venne impressa per via dell’insorgere di forze inferiori e perverse, ciò che condusse lungo un intero arco di secoli alla modernità, allo sgretolamento dei valori tradizionali e infine all’aperta sincope della civiltà occidentale.

Attingendo ai parametri della storia sacra e del mito – ben più che ai semplici accadimenti della storia profana – Evola perviene alla descrizione del mondo stabile delle età auree in cui il simbolo e il rito, la spiritualità e l’azione coincidevano nella perfezione metafisica di un mondo incardinato sull’ordine cosmico. Leggi di potenza e segni di calma forza ordinatrice furono alle origini del ciclo indo-ario che generò la storia occidentale e orientale: dalla regalità alla simbologia polare e solare, dalla gerarchia all’ordinamento delle caste, dall’ascesi sacerdotale a quella guerriera, simboli, miti, liturgie e istituti erano l’esito di uno sguardo sacrale sul tutto, per poi confluire in un mondo di ordinamenti interiori e politici, simmetrici e immobili nel loro costituirsi in veste di centro immutabile della società triordinata. Un tale Kosmos, letto da Evola come il frutto misterico e fatale di un conflitto primordiale fra i valori matriarchici-naturali della protostoria e quelli virili–uranici dei cicli storici, nel passaggio dall’indifferenziato all’ordinato, costituì la fonte di appartenenze di taglio superiore, che – ad es. con la cavalleria – ebbe risvolti di importanza sociale con notevoli ricadute, sia pure al livello sovente di relitti, fino sulle soglie della modernità. Il «declino delle razze superiori» fu il segnale che il ciclo, una volta oltrepassato il suo punto apicale, volgeva alla fine, dando la stura a un crescente moto degenerativo al cui culmine vi sarà il finale collasso, con la certezza di una prognosi inesorabile, ineluttabile. Qui risiede l’anima dello storicismo oppositivo di Evola. E il collasso della sfaldata società occidentale diventa ad un certo punto necessario. Evola, come Spengler, come Esiodo, come Gobineau, come Nietzsche, è un organicista. Egli considera la civiltà un organismo vivente esposto agli assalti di una lacerazione interiore che è già da alcuni secoli all’opera, in qualità di distruttiva infezione in un corpo già sano e vitale.

Alle spalle dell’approccio evoliano alla storia troviamo dunque, come per Spengler, gli insegnamenti di Dilthey (ogni epoca storica è autocentrata, quasi autarchica), di Goethe (la storia è un procedimento organico dinamico) e di Nietzsche (le culture non sono che organismi elementari stretti nei loro cicli biologici: eterno ritorno). Ma rileggiamoci la formidabile pagina di Rivolta contro il mondo moderno, in cui questa svolta decisiva viene tratteggiata coi modi di un drammatico referto diagnostico:

 

È a tale riguardo che può dirsi che le razze superiori occidentali già da secoli sono entrate in agonia e che lo sviluppo crescente delle popolazioni della terra ha lo stesso significato del pullulare vermicolare che si verifica nella decomposizione degli organismi, o quello di un cancro: anche il cancro è l’ipertrofia sfrenata di un plasma che divora le strutture normali differenziate di un organismo essendosi sottratto alla legge regolatrice di esso. Questo è il quadro presentato dal mondo moderno: alla regressione e al declino delle forze fecondatrici in senso superiore, delle forze portatrici della forma, fa riscontro il proliferare illimitato della “materia”, del senza-forma, dell’uomo-massa.

 

A ottant’anni da questa spaventosa analisi scientifica circa le condizioni della civiltà nata in Europa dall’uomo bianco, noi non possiamo che verificare la vorticosa accelerazione di un tale movimento di folle disintegrazione nel frattempo sopravvenuta, per di più accompagnata dall’incosciente cecità dei nostri contemporanei, essi stessi assaliti dalla malattia mortale. Il finale tragico e apocalittico che a grandi passi si avvicina è certamente qualcosa che oltrepassa di gran lunga l’angoscia dolorosa di un Rutilio Namaziano dinanzi alla sconvolgente visione del crollo dell’Impero di Roma. Ciò che emerge e ciò che si inabissa: riconoscere il moto ondoso della macro-storia è quella forma di storicismo che permette di individuare, conoscere e possibilmente fronteggiare tutte quelle forze – palesi o occulte – che agiscono nella storia in senso distruttivo. È uno sforzo culturale, ma anche politico, teso a risvegliare le coscienze, per aprire gli occhi, per rianimare – come in una prassi chemioterapica – possibili cellule vive ancora latenti. Di questa “dottrina del risveglio” ad uso dell’uomo europeo contemporaneo, Julius Evola è stato il grande demiurgo.