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Droghe e controcultura, ieri e oggi

di Stefano Boninsegni - 28/07/2014

Fonte: Italicum



E’ significativo che un numero crescente di persone, prive di qualunque credo religioso, guarda con maggiore attenzione rispetto ad un recente passato alle posizioni ed alle analisi della Chiesa cattolica, probabilmente cogliendo in essa l’ultima autorità credibile nel dare una risposta di senso al vuoto che ci avvolge.

 Con una classe politica preoccupata nel procurarsi essenzialmente le proprie condizioni di sussistenza, la Chiesa di Roma ha evidenziato lo stato di eccezionale gravità, sociale, morale, spirituale, in cui versa il continente europeo.

Sintomo palese, come messo in risalto più volte da Papa Francesco, è l’estendersi del consumo di sostanze stupefacenti, anche a figure sociali fino adesso estranee a problematiche del genere.

Tuttavia, come raccomandano gli operatori del settore, quando si entra a trattare di tale materia occorre tener conto dei cambiamenti avvenuti con il trascorrere del tempo. Gli stereotipi del “ tossico” elaborati nel corso degli anni 80 non troverebbero più riscontro nella realtà odierna. Il dato centrale è il prevalere del consumo di cocaina su quello di eroina. Ciò costituirebbe il passaggio da una mentalità di “stare out” a favore di quella di “stare in”. Ovvero, in altri termini, la cocaina, che produce la fatidica illusione della ottimizzazione delle proprie prestazioni, risulterebbe più confacente nella società del successo ad ogni costo. Il che, per inciso, non ci spiega l’uso diffusissimo della cannabis, sostanza out per eccellenza.

Una metafora efficace di tale passaggio ci è offerta dal bellissimo film di Braian De Palma Carlito’ way. Ambientato nella New York degli anni 80, è la storia di un mitico spacciatore portoricano di eroina, che grazie alla bravura del suo avvocato, dedito all’uso di cocaina, riesce ad uscire in tempi brevi dal carcere. A questo punto l’avvocato gli fa la proposta di dirigere un locale di sua proprietà che Carlito, per spirito di riconoscenza, accetta. Tuttavia, disgustato dall’ inedita aggressività cocainomane che lo circonda, si abbandona a questa riflessione: “dove è andata a finire tutta quella marijuana che fumavamo?” .

Perderà la vita per mano di un giovane boss dello spaccio di cocaina natio del Bronx. Questi una sera si era presentato al locale per omaggiare il grande Carlito e proporgli grandi affari. Per tutta risposta viene pestato e scacciato dal locale. Ciò naturalmente significherà la fine di Carlito.

Ma anche l’uso di eroina, limitato attualmente a strati marginali (in particolare a “quelli con i cani”), sta lentamente riprendendo quota. Le condizioni di disperazione sociale ovviamente non mancano, ma ciò tuttavia, come del resto nel caso della cocaina, dipende anche dall’aggressività dell’offerta: le facoltose mafie nostrane acquistano ingenti quantità di droga che, debitamente tagliata, arriva sul mercato a prezzi accessibili (circa la metà degli anni 80).

Il fenomeno, anche se pure con meno intensità rispetto al passato, non sfugge alle forze politiche.

La destra accusa la sinistra di avere tollerato una cultura che prevede l’uso di droghe, la sinistra rimprovera la destra di fissarsi su politiche proibizioniste che hanno l’unico risultato di riempire le carceri di tossicodipendenti.

Entrambe contengono parziali verità. Di certo, storicamente parlando, furono proprio i dirigenti di Lotta Continua e poi di Autonomia operaia i primi a teorizzare il pestaggio degli “spacciatori di morte”, nella consapevolezza che l’eroina iniziava a circolare in ambienti contigui al “movimento”. Naturalmente, molti fra i prescelti picchiatori (in realtà i casi di aggressione fisica furono rari) diventeranno a loro volta tossico dipendenti, secondo lo spirito dei tempi. In verità anche l’estrema destra pagò il suo prezzo alla “causa”: in città piccole come Firenze si potevano vedere estremisti di destra e di sinistra riappicificarsi acquistando eroina nelle stesse piazze dagli stessi a-politici spacciatori.

Più plausibilmente i neo-conservatori dell’era Reagan attribuirono la circolazione cospicua di droghe alla penetrazione della controcultura che avrebbe indebolito in senso edonista i tratti fondamentali dell’individualismo americano.

Tuttavia questa posizione, come si evince dall’opera di Lasch, non rende conto di come la controcultura costituisca oggettivamente un momento interno di un un più generale movimento teso all’abbattimento di ulteriori vincoli al consumo. Essa se la prende con il razzismo, il sessismo, il nazionalismo della middle class. Ma quest’ultima è anche la detentrice di ciò che resta dell’etica puritana del sacrificio e del demandamento della realizzazione del desiderio, che, come osservato da Keynes ai suoi tempi, costituisce un serio ostacolo al consumo. In questo senso la controcultura è andata a cogliere esigenze profonde del capitalismo dell’epoca. Da qui la sua assimilazione nel costume che perdura.

Già negli anni 70 la California si trasforma in un grande mercato di terapie volte all’equilibrio psico-fisico, ovvero surrogati di quella ricerca psico-fisica costituita dall’underground. Oggi molti giovani vestono come i freaks degli anni 70, e fumano cannabis senza per questo sentirsi dei trasgressori né essere percepiti come tali, mentre ogni grande impresario musicale sa che per fare lucroso business occorre accaparrarsi Bruce Springsteen o ciò che resta dei Pink Floyd, o Rolling Stones.

Il che, ovviamente, non toglie che la controcultura sia stata vissuta come eversiva: alla fine degli anni 60 nasce il movimento yppies di Jerry Rubin, che abbandona il pacifismo degli hippies a favore di un anticapitalismo dai toni confusi ma radicaleggianti. Avviene anche un incontro con l’estremismo nero.

Va inoltre precisato che i teorici della controcultura non hanno fatto mai un’apologia dell’uso smodato di qualsiasi droga. Ciò che si contempla è esclusivamente l’assunzione di cannabis e di acido lisergico (LSD) al fine esclusivo del cosiddetto “allargamento della coscienza”. E’ su questo terreno, fra l’altro, che avviene l’incontro, creativamente scorretto, con la spiritualità indiana.

Che poi lo psichedelismo sia degenerato nel gusto dell’alterazione degli stati di coscienza fine a sé stessa, fino al punto di veicolare, in un determinato contesto sociale e culturale, una conversione ai paradisi, è stata innanzitutto l’esperienza di una miriade di individui su scala globale. E’ comunque significativo che un artista quale Bob Dylan colga nell’esperienza dell’LSD la risposta più a un disagio esistenziale che ad un bisogno cognitivo. Scrive e canta: “Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me, I’m not sleepy and there is no place I’m going to” .

Esiste del resto una versione dark-decadente della controcultura, sviluppatasi alla fine degli anni 60 in particolare nella città di New York, lontana apparentemente dall’ottimismo psichedelico di stampo californiano, più vicina alla nostra tradizione di poetica maledetta. La provocazione elaborata dall’underground in questa fase consiste nel mettere in scena un immaginario popolato da personaggi estremi : prostitute derelitte, tossicomani reduci dal Vietnam, devianti di ogni specie, tutti persi nella solitudine metropolitana.

E’ questa la New York narrata dal poeta e musicista Lou Reed (recentemente scomparso) e Velvet Underground. Le loro canzoni, scritte alla fine degli anni 60, troveranno eco nel decennio successivo, quando nel seno della società americana si affaccerà una generazione disposta ad identificarsi in suggestioni nichiliste.

Difficile esprimere valutazioni univoche su tutto ciò, come è altrettanto difficile sfuggire alla sensazione che nell’arte di Lou Reed si compia la vocazione di una generazione.

Significative le sue avventure concertistiche in Italia: cacciato dal palco milanese, a metà degli anni 70, da estremisti di sinistra che lo tacciono di “nazismo”, farà ritorno nel nostro paese, tenendo un concerto trionfale nella città di Firenze nel 1980, anno in cui l’eroina è nel pieno del rigoglio di diffusione.

A proposito dei “tossici anni 80″, ci sembra giusto ricordare un fenomeno, allora sistematicamente oscurato dai media, ovvero il fatto che un congruo numero di consumatori di stupefacenti (concentrati soprattutto nella città di Firenze) cercò una via di salvezza aderendo alla Soka Gakkai, la potente setta buddista giapponese affiliata al clero della Nichiren Shoshu (che l’ha recentemente scomunicata)

La Soka Gakkai, lo ricordiamo, è impegnata nella propagazione degli insegnamenti del monaco Nichiren, fondati a loro volta sull’opera di Tien Tai, il più alto e sofisticato sistema di pensiero elaborato dal buddismo cinese.

Ora per inciso Nichiren, causa la sua continua denuncia delle eresie a lui contemporanee, è considerato come l’unico caso di intolleranza nell’universo buddista. In realtà si può discutere sulla presunta intolleranza di Nichiren, non certo della sua unicità: nel lungo medioevo giapponese, i monaci non esitavano ad armarsi per imporre le loro diverse interpretazioni del buddismo.

In ogni caso il buddismo è una religione in declino, anche nell’estremo oriente, dove subisce la pressione dell’Islam. Si salva, fra i paesi che contano, In Giappone, dove le varie sette contano su milioni di credenti. Tuttavia, secondo l’opinione di Daisaku Ikeda, attuale presidente della Soka Gakkai, il Giappone sarebbe in realtà una terra infernale popolata da super produttori e super consumatori, che non troverebbe più tempo per pregare e meditare. Vi è più spirito buddista, osserva finemente, nella moderazione dei suq delle città islamiche.

 

Tuttavia, anche l’Islam è religione, da un punto di vista puramente spirituale, in crisi. Nelle sue forme attuali somiglia ad un ideologia, oppure funziona come copertura di scontri etnici.

Palesemente in crisi è invece la religione cattolica, alle prese con il disincanto dell’uomo occidentale, e in America Latina subisce la concorrenza delle deliranti sette protestanti di origine statunitense.

Tuttavia, come abbiamo premesso, nuove attenzioni sono rivolte alle verità cristiane.

Ma si tratta di un recupero sociale, morale, culturale, di risposta alla crisi contemporanea, che non ha niente a che vedere con un senso religioso del vivere. Crollate anche le grandi utopie salvifiche, l’uomo occidentale si ritrova condannato ad un io minimo, barricato sulle proprie strategie difensive e per questo iper disposto ad ogni evasione, drogastica e non.