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La coalizione anti-Hamas impedisce accordo per la tregua

di Michele Giorgio - 30/07/2014

Fonte: Il Manifesto


Striscia di Gaza. Gli interessi convergenti di Israele, Egitto, Anp e Arabia saudita impediscono ancora il raggiungimento di una intesa per un cessate il fuoco che cambi radicalmente la condizione di Gaza.

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Per Gaza la con­di­zione attuale è la più peri­co­losa, come dimo­strano le stragi di ieri. «Io non sparo se tu non spari», si fa per dire, rischia di sosti­tuirsi a un accordo com­ples­sivo di tre­gua, tra­sci­nando la crisi per set­ti­mane, se non per mesi. E all’orizzonte non si vedono pos­si­bi­lità con­crete di una solu­zione nego­ziata. Occorre pren­dere atto che l’impossibilità, sino ad oggi, di rag­giun­gere un’intesa ampia e arti­co­lata per il futuro di Gaza è figlia della pro­po­sta egi­ziana di ces­sate il fuoco che mira uni­ca­mente a distrug­gere Hamas. Il futuro dell’organizzazione isla­mi­sta non è rile­vante: è un movi­mento poli­tico e mili­tare con­sa­pe­vole delle sue scelte, del suo destino e delle poli­ti­che dei suoi amici e nemici. Ciò che ci inte­ressa è la con­di­zione di 1,8 milioni pale­sti­nesi dete­nuti di fatto, da almeno sette anni, nella pri­gione a cielo aperto di Gaza e rima­sti negli ultimi 20 giorni sotto le bombe israe­liane per­chè il regime egi­ziano, in evi­dente alleanza stra­te­gica con Tel Aviv, ha deciso di tirare il collo ai Fra­telli Musul­mani pale­sti­nesi (Hamas).

Tutti i nemici della Fra­tel­lanza si sono schie­rati a difesa della pro­po­sta egi­ziana che pre­vede un ces­sate il fuoco imme­diato senza alcuna garan­zia che gli even­tuali nego­ziati por­tino a un cam­bia­mento radi­cale della vita dei civili pale­sti­nesi. Senza dub­bio anche Hamas ha le sue grandi respon­sa­bi­lità. Kha­led Meshaal e gli altri diri­genti del movi­mento isla­mico hanno accet­tato la strada del con­fronto mili­tare con Israele anche per rom­pere l’isolamento totale in cui si tro­va­vano da un anno, da quando il golpe mili­tare in Egitto ha rove­sciato il pre­si­dente isla­mi­sta (e loro alleato) Moham­med Morsi. E da quando l’Arabia sau­dita ha dichia­rato guerra aperta ai Fra­telli Musul­mani al punto da met­tere sotto asse­dio diplo­ma­tico la rivale monar­chia qata­riota (spon­sor regio­nale della Fra­tel­lanza). Allo stesso tempo chiun­que abbia avuto modo di girare in que­sti giorni per le strade della mar­to­riata Gaza e di par­lare con gli abi­tanti, ha potuto con­sta­tare che le richie­ste pre­sen­tate dalla lea­der­ship di Hamas per il via libera alla tre­gua in realtà sono quelle di tutta la popo­la­zione, di tutte le forze pol­ti­che, anche degli espo­nenti locali di Fatah, il par­tito di Abu Mazen. Che Hamas esi­sta o meno, i pale­sti­nesi di Gaza con­ti­nue­ranno a recla­mare i loro diritti, a chie­dere di essere liberi.

Abu Mazen e l’Anp sono stati tra i cri­tici più duri della pro­po­sta di ces­sate il fuoco pre­sen­tata da John Kerry, pro­prio come Israele che dome­nica scorsa ha reso uffi­ciale il suo rifiuto dell’iniziativa del segre­ta­rio di stato Usa, bol­lata come vicina ad Hamas e lon­tana dalle esi­genze di sicu­rezza dello Stato ebraico. L’Anp accusa Kerry di aver orga­niz­zato un “Sum­mit degli Amici di Hamas” con Tur­chia e Qatar e di non essere stata infor­mata della pro­po­sta sta­tu­ni­tense. E dome­nica Abu Mazen si è recato in Ara­bia sau­dita per con­sul­ta­zioni imme­diate con re Abdal­lah. Poi anche il Cairo ha fatto cono­scere il suo malu­more e infine è giunta la presa di posi­zione israe­liana, con il pre­mier Neta­nyahu che ha riba­dito che per il suo governo esi­ste una sola pro­po­sta, quella for­mu­lata dall’intelligence agli ordini dell’alleato pre­si­dente egi­ziano Abdel Fat­tah al Sisi. E va rimar­cato che qual­che giorno fa il mini­stro degli esteri egi­ziano Sameh Sou­kri, in linea con la posi­zione israe­liana, ha attri­buito la respon­sa­bi­lità delle morti dei civili pale­sti­nesi tutta ad Hamas. Davanti all’isolamento dell’iniziativa di Kerry, Barack Obama è inter­ve­nuto scon­fes­sando il suo mini­stro degli esteri e dando pieno appog­gio alle richie­ste di Neta­nyahu. Ha prima chie­sto «Un ces­sate il fuoco uma­ni­ta­rio imme­diato e incon­di­zio­nato», come indica la pro­po­sta egi­ziana, e poi ha sot­to­li­neato l’importanza di garan­tire una sicu­rezza dura­tura a Israele, che passa attra­verso la «smi­li­ta­riz­za­zione di Gaza» e il «disarmo dei gruppi terroristici».

In defi­ni­tiva molte parti sono felici del pestag­gio che sta subendo Hamas anche se poi il prezzo più alto lo pagano i civili pale­sti­nesi. E ancora una volta die­tro le quinte agi­scono anche i grandi mano­vra­tori sau­diti. L’ex mini­stro della difesa israe­liano Shaul Mofaz qual­che giorno fa aveva sor­preso il con­dut­tore di Canale 10 lasciando inten­dere che Tel Aviv di fatto sta facendo il lavoro anche per l’Arabia Sau­dita e gli Emi­rati Arabi Uniti. Poi ha pre­ci­sato che que­sto due Paesi sono pronti a rico­struire Gaza una volta che Hamas sarà messo fuori gioco. Amos Gilad, uomo di punta dell’establishment politico-militare israe­liano da parte sua ha dichia­rato di recente all’accademico James Dor­sey: «Tutto è sot­ter­ra­neo, nulla è pub­blico. La nostra coo­pe­ra­zione di sicu­rezza con Egitto e gli Stati del Golfo è unica. Que­sto è il miglior periodo per le rela­zioni con il mondo arabo». Mos­sad e fun­zio­nari dei ser­vizi segreti sau­diti si incon­trano rego­lar­mente, rive­lano a mezza bocca gli esperti di sicu­rezza, e coo­pe­rano in molti paesi e aree di crisi, a comin­ciare natu­ral­mente dall’Iran. E in modo sem­pre più aperto. Il prin­cipe Turki, nipote di re Abdal­lah, a mag­gio era volato a Bru­xel­les per incon­trare il gene­rale Amos Yad­lin, un ex capo dell’intelligence mili­tare di Israele.