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L’esistenza prende coscienza di sé nella misura in cui si perde nell’Altro

di Francesco Lamendola - 30/07/2014

Fonte: Arianna editrice


 

 

Tutti vorremmo amare ed essere amati, ma pochissimi sanno che cosa realmente significhi questo concetto.

La maggior parte degli uomini desidera essere amata e forse anche amare, ma solo fino a un certo punto: la loro riserva mentale è che vogliono escludere in partenza la possibilità della sofferenza. Questo, però, non è possibile: si tratta di una contraddizione in termini. Amare vuol dire aprirsi, uscire da sé, posporre se stessi per offrirsi all’altro, per fargli dono di sé: e questo rende inevitabilmente vulnerabili. Nessuno è più vulnerabile di colui che ama.

Però, bisogna aggiungere subito dopo che l’essere vulnerabile è la condizione propria della persona viva; solo chi è interiormente morto, non è più vulnerabile: dunque, l’unico modo per rendersi invulnerabili, mettendosi al riparo dalla sofferenza, è quello di non amare nessuno, di rinchiudersi nella tomba del proprio sé auto-sufficiente. Pertanto, bisogna scegliere: o amare ed essere perciò anche vulnerabili; oppure rendersi invulnerabili e morire dentro. Tertium non datur.

Molte persone, forse la maggioranza, credono tuttavia di amare, mentre non amano che se stesse: non hanno compreso che, per amare ed essere amati, bisogna uscire dal proprio io, bisogna abbandonarlo, bisogna morire alle sue brame e alle sue paure incessanti, per rinascere alla vera vita dell’anima, che si proietta verso le regioni superiori. C’è un grande equivoco sull’amore, una grande ipocrisia; lo si confonde con il suo esatto contrario, l’egoismo.

Certo, donarsi senza riserve non significa essere follemente imprudenti. L’amore è una faccenda per persone mature ed evolute; chi è maturo ed evoluto sa che l’amore è la dedizione totale, ma senza attaccamento e senza riserve mentali; perciò chi ama veramente non resterà mai deluso, per quanto possano risultare deludenti i comportamenti dell’altro. Chi ama con attaccamento, cioè chi ama se stesso credendo di amare l’altro, resta invece deluso alla prima occasione, perché si aspetta sempre di ricevere nella misura in cui dà, ma su di un piano immediato e utilitaristico; mentre il vero amore riceve sempre la sua ricompensa, ma su di un piano più elevato e complessivo e non necessariamente dalla persona fisica dell’altro, ma dell’esperienza dell’amore in se stessa, perché la vera esperienza d’amore è sempre trasformante e trasfigurante. Chi ha amato davvero, non sarà mai più quello che era prima.

Amare, naturalmente, non significa solo amare in senso sessuale. Ogni apertura autentica verso l’altro, ogni atteggiamento di reale dedizione all’altro, è un atto di amore; diciamo di più: l’essere umano si realizza solo nella relazione con l’altro, nella dedizione nei confronti dell’altro. Un “altro” che, chiunque egli sia, se amato in tal modo, dischiude la porta verso le dimensioni superiori dell’esistenza, dove le brame e le paure dell’ego finalmente si acquietano e tacciono e dove subentra la pace del Sé pienamente rivelato a se medesimo. In questo senso, l’altro diviene sempre l’Altro, con la lettera maiuscola: perché mette in comunicazione con l’assoluto, con il divino; non è più un fine concluso in se stesso, ma un tramite verso l’Amore in quanto tale, che non ha determinazioni di spazio e di tempo, non è più amore di questo o quell’ente, ma amore dell’Essere, amore totale e incondizionato.

In altre parole: chi ama davvero, cioè chi fa dono di sé nella maniera giusta, non ama solamente quel singolo individuo con cui si relaziona, ma con quel nucleo luminoso e incorruttibile di Verità, Bontà e Bellezza che non appartiene alla dimensione transitoria degli enti, ma a quella assoluta dell’Essere. Ecco perché chi ama davvero non comincia ad amare di meno quando appaiono le rughe sul viso dell’altro, quando il suo passo si fa incerto o quando la malattia lo riduce all’ombra dell’uomo, o della donna, che fisicamente era prima; al contrario: è allora che l’anima emerge, da entrambe le parti; è allora che si affermano la solidità e la pienezza di ciò che non appartiene alla dimensione del transitorio, ma a quella del permanente. È allora che si incomincia ad amare per davvero, perché ci si libera dalle ultime scorie di egoismo e di utilitarismo, dalle ultime riserve mentali legate dall’immaturità del piccolo ego narcisista e incontentabile. Vecchiaia, malattia e sofferenza purificano l’amore, non lo esauriscono; se si esaurisce, vuol dire che non era amore, ma il solito «mi piaci», che è tutta un’altra cosa, perché non pone e non valorizza l’altro, ma mette al centro sempre e solo il proprio Io.

Diremo di più: il vero amore si rivela pienamente e incondizionatamente solo passando per la porta stretta della morte. Questo è lo scandalo supremo per il modo di ragionare del piccolo ego: la morte, per esso, è lo scacco irreparabile, l’aborrita sconfitta di tutte le speranze, di tutte le cose belle. Perché la radice del piccolo ego è l’attaccamento: la sua natura è quella di attaccarsi alle cose, di desiderarle per sempre, di volerle possedere senza limite alcuno. Invece le cose, anche le più amabili e desiderabili, sono transitorie: passano, non permangono. Tale è la loro natura, tale il loro destino. Attaccarsi alle cose transitorie è la suprema follia: chi ama veramente, da persona adulta e non da bambino capriccioso, non si attacca alle cose, ma all’essenza che si cela dietro le cose; non al corpo, ma all’anima di cui esso è l’involucro illusorio e fuggevole.

Questo può sembrare un discorso duro, ma non lo è: al contrario, è l’unico discorso umano che si apra veramente alla dimensione della speranza. Se la morte avesse l’ultima parola nella vita umana, anche l’amore non sarebbe che una beffa e un’ironia. Invece l’amore è un ponte: lancia le sue arcate poderose fra una riva e l’altra della condizione umana, fra la dimensione dell’effimero e quella del sostanziale. In ultima analisi, tra la vita e la morte. I nostri cari defunti non sono scomparsi nel nulla: sono passati sull’altra riva, là dove giungeremo anche noi. Per intanto, il loro silenzio non è sinonimo di assenza e di abbandono, non è segno di separazione definitiva: è il silenzio carico di palpiti che si stabilisce fra due innamorati, quando non trovano parole per dirsi interamente quello che provano.

Molto dense e pregnanti sono, sul tema che stiamo trattando, le osservazioni svolte del teologo ungherese Ladislaus Boros nel suo libro «Noi siamo futuro» (titolo originale: «Wir sind Zukunft», Mainz, Matthias Grünewald Verlag 1969; traduzione dal tedesco di Piero Caprioglio, Brescia, Queriniana, 1970, pp. 18-20):

 

«L’uomo prende coscienza di sé soltanto attraverso la presenza di un “altro”. Il mondo non è quindi soltanto “condizione di possibilità” dell’esistenza umana, ma anche più radicalmente il momento esistenziale di fondo (la determinazione fondamentale, che impregna ogni altra determinazione) dell’esistere finito. L’”altro” è sempre il “primo dato” per un auto compimento dell’esistenza. Il proprio Io viene sempre solo dopo. In questo si manifesta la fondamentale e ineliminabile IMMANENZA NEL MONDO dell’uomo.

In questa struttura della coscientizzazione si può vedere anche una legge solida dell’esistenza: l’esistenza prende coscienza di sé, nella misura in cui si perde in un “altro”. La essenza della vita umana è situata in una auto-dedizione. La perdita di sé genera il guadagno di sé;  da una dedizione di sé deriva un possesso di sé. Uno spirito incarnato è quindi anche, per necessità interiore,  intessuto nel mondo: la mondanità dell’uomo non è qualcosa che la persona finita “svolga” ancora “a fianco” della spiritualità, ma un momento necessario nell’attuazione di sé di questo spirito. La realizzazione spirituale dell’”altro” è la condizione di possibilità dell’autorealizzazione spirituale. Come già detto prima: il divenire di se stessi avviene nella dedizione di sé. Il primo gesto di ogni aspirazione umana è quindi il circondare un “altro” di premure e di dedizione, ikl restare delicatamente in ciò che ci è dato, il disinteressato  ed altruistico farsi presenti  ad un essere estraneo.

Ciò non dice naturalmente che l’uomo non possa distruggere  o soffocare  questo atteggiamento di fondo dell’aspirazione.  Come ogni dono, anche l’abnegazione personale è un impegno che si può sviluppare in virtù in rare esistenze riuscite. Quelli che sono realmente dimentichi di sé, sono perciò tanto pochi. Per questo si stima come qualcosa di raro - dice Hugo von Hoffmansthal – le persone che sanno ascoltare con calma ed attenzione. Così come è veramente raro un vero lettore. Ma più raro di tutti è ancora uno che lasci agire su di sé il suo prossimo, senza distruggerne o annichilirne continuamente l’influenza con la propria inquietudine interna, con il proprio orgoglio e ricerca di sé. Ma in linea essenziale resta vero: l’uomo è un derivato, un originato dall’”altro”. Egli può entrare in se stesso soltanto se esce da sé, può trovare se stesso soltanto se va incontro all’”altro”. L’essenziale può essere raggiunto solo in un atteggiamento di dedizione, che non cerca vantaggi e non persegue secondi fini, che è quindi “solo-dedizione”, amore. L’amore è perciò il vero studio dell’essere, poiché esso solo trae le conseguenze dall’”altro”. Ed è chiaro perciò che anche il nostro compimento non potrà essere “raggiunto” da noi stessi; esso ci sarà donato come risposta alla nostra dedizione.

La radicale negazione di una dedizione all’”altro”  significa quindi auto-rattrappimento. C. S. Lewis espresse questo dato primario: “Amare significa anche essere vulnerabile. Ama una qualche cosa, ed il tuo cuore sarà sicuramente tormentato e forse anche infranto. Se vuoi tenere il tuo cuore a tutti i costi intatto, non lo devi mai concedere, neppure ad un animale. Vizia pure il tuo cuore con ogni cura; scansa ogni complicazione; chiudilo a chiave  nella bara del tuo egoismo. Ma là – al sicuro, al buio, senza impulsi e senza aria – si trasformerà. Puoi solo scegliere tra una tragedia - o almeno il rischio di una tragedia – e un’auto-condanna. Il solo posto al di fuori del cielo, dove puoi stare pienamente  al sicuro da ogni pericolo e turbamento dell’amore, è l’inferno”. L’uscire nella mondanità rientra quindi nella struttura essenziale del divenire dell’uomo.

Abbiamo già qui una prima conclusione per la nostra riflessione sul cielo.  Da quanto abbiamo detto si intuisce che ogni compimento del nostro essere  si può solo pensare come il contemporaneo COMPIMENTO DEL MONDO, da cui dipende la nostra propria trasformazione. Le nostre riflessioni sulla dinamica della dedizione umana  ci svelano un’innegabile comunanza di destino tra uomo e mondo. »

 

Da questo punto di osservazione, come dalla cima di una montagna, si possono vedere in piena luce tutta la miseria, tutta la pochezza delle filosofie contemporanee che predicano la lotta aggressiva e incessante e la sopraffazione come condizione “normale” della vita, e anche di quelle che deprecano la presenza dell’altro come un potenziale fastidio e come un inciampo rispetto alla progettualità egoistica dell’Io: «l’inferno sono gli altri», affermava Sartre. Ma se gli altri sono l’inferno, allora noi siamo condannati a vivere in mezzo a un tale inferno, perché non possiamo escludere gli altri dalla nostra vita, non possiamo fare a meno di essi, non possiamo cancellarli. Possiamo, questo sì, fare come se non ci fossero; possiamo corazzare il nostro cuore di egoismo e di insensibilità, renderlo simile a una pietra e far sparire il nostro cuore di carne, che sente, che soffre, che ama: ma a quel punto avremo creato un inferno molto, molto peggiore dell’altro. L’inferno della nostra morte-in-vita, l’inferno della nostra esistenza ridotta a un vuoto simulacro di vita e rinchiusa nel gelido sepolcro che nessun raggio di luce potrà mai allietare.

È terribile condurre una vita del genere, è terribile pensare che molte persone finiscono per farlo, così, senza rendersene conto, lentamente, quasi impercettibilmente, fino a che si sono spiritualmente disseccate e suicidate. È tristissimo pensare a quante occasioni di bellezza, di bontà e di verità queste persone si sono negate, giorno dopo giorno: e tutto questo solo per la paura di soffrire o per l’incapacità di porsi correttamente in relazione con l’altro.

Il modo in cui ci relazioniamo con l’altro, d’altronde, è lo specchio del modo in cui ci relazioniamo con noi stessi. Chi non vuole amare nessuno, non sa amare neppure se stesso; chi non sa vedere niente di bello, di buono e di vero nell’altro, ha perso la connessione con la propria sorgente vitale, ha soffocato i battiti della propria essenza spirituale.

Perché al fondo più riposto di noi stessi non c’è il piccolo Io capriccioso ed egoista, ma c’è l’Assoluto, che è Amore. Si tratta di scavare per riportarlo alla luce: solo questo ci renderà delle persone realizzate; solo questo ci restituirà la pace. Solo questo - e nient’altro.