Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il "pericolo jihadista" e i suoi non casuali malintesi

Il "pericolo jihadista" e i suoi non casuali malintesi

di Franco Cardini - 25/08/2014

Fonte: Franco Cardini



Da una ventina d’anni (ma per la verità anche da molto prima) mi càpita ordinariamente di trovarmi nella scomoda condizione di “voce fuori dal coro”. Non sono affatto un bastiancontrario per definizione o per sistematica scelta: tra l’altro, il trovarmi regolarmente “dall’altra parte” rispetto alle posizioni sostenute dai detentori del potere e dai gestori dei media mi è costato piuttosto caro sul piano personale e professionale: lo affermo con la massima serenità e senza un filo di rimpianto, ma tanto meno di pentimento.
Credo che occorresse testimoniare contro le scelte politiche e militari della superpotenza statunitense e dei suoi satelliti riuniti nella NATO (a proposito della quale sono del tutto d’accordo con l’articolo Se la Turchia è una potenza con l’immunità di Barbara Spinelli, “La Repubblica”, 10 aprile 2014, tanto drammaticamente giusto da venir immediatamente circondato da un glaciale silenzio) tanto in occasione della crisi serba del marzo-maggio del 1999 con l’onta del bombardamento di Belgrado, che pesa ancora sulla coscienza di tutti i buoni europei; che fosse necessario denunziare, a proposito dell’aggressione ai danni dell’Afghanistan nel 2001 e dell’Iraq nelle due “guerre del Golfo” e soprattutto di quella del 2003, la pretestuosità degli alibi dietro i quali si nascondevano George W. Bush e i figuri che lo attorniavano (Cheney, Rumsfeld, Rice & Co.) e il ridicolo apparato pseudoscientifico (le tesi di Samuel P. Huntington) dietro il quale si nascondevano i sostenitori di quell’arrogante e feroce avventurismo tra i quali figuravano anche alcuni irresponsabili cattolici simpatizzanti delle idee neoconservative e teoconservative; che fosse indispensabile ricordare a tutti che ormai il meccanismo di “alleanze” che s’incentra sulla NATO ha fatto sì che i paesi ad esso aderenti, Stati Uniti d’America evidentemente esclusi, abbiano ormai perduto la loro sovranità. Siccome la posizione di un gruppo di uomini liberi e onesti – espressa in libri come La paura e l’arroganza, pubblicato nientemeno che da Laterza ma precipitosamente fatto sparire di circolazione - non poteva essere del tutto ignorata, le si scatenò contro la “stampa libera” e il non meno “libero” sistema mediatico: Cardini ed altri furono accusati di essere “filoislamici”, quindi automaticamente “filoterroristi” e, in quanto “filoamericani”, automaticamente anche “antisionisti” e quindi, implicitamente, “antisemiti” (oltre che addirittura “criptocomunisti” e membri di un fantomatico “fronte rosso-bruno”, o meglio “rosso-verde-bruno” in quanto, ovviamente, “complici” del green fascism). D’altronde, come giustamente disse una volta Aleksandr Soljenitzin, quando nel libero Occidente si vuol far tacere qualcuno, non c’è bisogno di spedirlo in Siberia: basta spegnergli il microfono. Fu quanto capitò a me e ad altri ben più illustri di me, sistematicamente “evitati” quando si trattava di discutere pubblicamente di queste cose e abitualmente sostituiti da “esperti”, tali di solito per autocertificazione e/o per “autorevole” investitura. Alle varie TV, ad esempio, era opportuno parlassero i soliti Mezzibusti e Bellimbusti, i quali fra parentesi – dopo aver pontificato dottamente su al-Qaeda, sulle “terribili armi segrete di distruzione di massa” di Saddam eccetera, hanno continuato a venir superascoltati, superpresenti, superpubblicati e superpagati senza nemmeno doversi scomodare a far un minimo gesto formale, una sommessa e magari distratta richiesta di scuse nei confronti di un’opinione pubblica che essi avevano per anni ingannato con le loro menzogne e le loro sciocchezze.
Va da sé che la storia non si ripete: il che non toglie che precondizioni simili comportino sovente esiti che per maggiori o minori aspetti finiscono col somigliare a situazioni precedenti e con il creare un certo effetto di dèjà vu.
Ho trovato allucinante, ma purtroppo tutt’altro che incredibile, che tanti autorevoli commentatori e opinion makers della nostra Italia e del “nostro Occidente”, mostrando di non aver imparato nulla dalla lezione serba, afghana e irakena, nonostante i loro errori passati continuino o ricomincino oggi ad ammorbarci con nuove bugie, incuranti del fatto che gli esiti del fallimento della linea politica da loro difesa siano sotto gli occhi di tutti: un Afghanistan ingovernabile da quasi tre lustri, un Iraq diviso, in preda alla guerra civile e religiosa e il governo del quale, imposto e sostenuto dagli Stati Uniti, è per colmo d’ironia egemonizzato da irakeni sciiti e quindi filoiranici.
Dopo la sospetta messinscena della fine di Usama bin Laden è stata stesa per alcuni lunghi mesi una cortina di silenzio sul fantasma di al-Qaeda, fino ad allora accusato di ogni male e poi misteriosamente scomparso, anzi dato per dissolto. Il fondamentalismo islamico e la sua principale espressione politico-militare, il terrorismo, sembravano ormai morti e sepolti. In realtà, chi ricordava ad esempio l’uso cinicamente strumentale che il governo e i servizi statunitensi avevano fatto del movimento “talibano” in Afghanistan per contrastare al tempo stesso Armata Rossa e prospettive di un intervento iraniano nella guerra afghana di liberazione contro i sovietici, e chi conosceva qualcosa a proposito del legame tra fondamentalismo sunnita e governi emirali della penisola arabica (a loro volta “alleati sicuri” degli USA), chi sapeva anche solo qualcosa sul colossale nodo d’interessi collegante Stati Uniti, lobbies multinazionali petrolifere o affaristiche come Unocal e Hallyburton e monarchia petrolifere d’Arabia sapeva bene anche che uno dei motori del caos avanzante nel Vicino e Medio Oriente era e resta la fitna che gli emiri arabi sunniti stanno da tempo cinicamente conducendo contro l’Islam sciita.
L’ulteriore bufala delle “primavere arabe”, associata al gioco di prestigio della sparizione a livello massmediale del “pericolo fondamentalista”, è servita a partire dal 2011 ad alcune schegge impazzite della dirigenza politica occidentale (soprattutto ai governi britannico, che si è poi precipitosamente tirato indietro, e francese) prima per rovesciare Gheddafi – reo di aver intralciato lucrosi affari nei campi della finanza, del petrolio, dell’acqua potabile e della telefonia africane -, poi per cercar di fare altrettanto con Bashar Assad, accusato stavolta (una variabile di quanto si fece a suo tempo con Saddam) di detenzione di armi chimiche di sterminio di massa. Tanto in Libia quanto in Siria, le milizie “jihadiste” (ormai si preferisce usare quest’aggettivo) sono state in prima fila come alleati della politica “occidentale”, per quanto nella nuova crisi il governo statunitense del povero Obama sia palesemente indeciso sul da farsi.
Ora, la questione del “califfato” dello stato islamico che si va creando tra Iraq e Siria e del suo feroce trattamento dei non-musulmani ripropone però il pericolo che anni fa si definiva fondamentalista, che i francesi preferiscono chiamare islamista e che ormai si denomina jihadista. Al-Baghdadi e i suoi accoliti sono divenuti “peggiori di al-Qaeda”: e come tali sono stati di recente denunziati sul “Corriere della sera” dall’ineffabile Bernard Henri-Lévy, evidentemente insensibile alla sua stessa incoerenza dal momento che mesi fa lo abbiamo trovato tra i principale sostenitori “intellettuali” (?!) delle campagne per rovesciare sia Gheddafi sia Assad, evidentemente senza preoccuparsi che tra i protagonisti di entrambe queste azioni militari ci fossero milizie jihadiste.
Ora, va da sé che ci si debba impegnare per fermare i jihadisti del “califfato” di al-Baghdadi. Lo ha detto con molta chiarezza papa Francesco rispondendo ai giornalisti durante il suo viaggio aereo di ritorno da Seul, il 19 agosto scorso. Ma egli è stato chiaro: sono le Nazioni Unite il soggetto che va investito di una simile missione, che non si può certo lasciare ai valorosi peshmerga curdi. Invece, pare che il meanstram delle voci politically correct che già appoggiarono Bush in Afghanistan e in Iraq si sia messo di nuovo in movimento indicando negli statunitensi i leaders ideali per tale compito. A parte il fatto che la prima e migliore cosa che Obama dovrebbe fare immediatamente per salvare un minimo di faccia, dopo troppi anni di promesse, dovrebbe essere la chiusura dell’infame campo di concentramento e di tortura di Guantanamo, davvero indegno di un paese civile, resta il fatto che questa nuova realtà dello Islamic State “califfale” è ben strana, nata così come un fungo alla frontiera nevralgica tra Iraq, Siria, Iran e Turchia, in un’area petroliferamente e geopoliticamente parlando nevralgica. Oltre che parlarci della loro intolleranza, sarebbe bene che qualcuno ci dicesse qualcosa su chi finanzia la gente di al-Baghdadi, che appare ben provvista di mezzi finanziati e militari. Perché se sommiamo il loro fanatismo sunnita al fatto che essa opera in un’area così delicata, l’ipotetica risposta a tale cruciale domanda finisce con l’essere quella ispirata al cui prodest. A chi giova la destabilizzazione ulteriore di quell’area, se non ai governi arabi sunniti del Golfo che portano avanti la loro fitna, alla Turchia di Erdoğan che non ha poi troppe ragioni per aver in antipatia il jihadismo e che è in rotta con la Siria di Assad per la questione dei bacini idrici dell’alto Eufrate e alle multinazionali petrolifere che, non potendo confidare in un energico appoggio da parte dell’incerto e debole Obama, hanno deciso di lavorare a un nuovo e diverso assetto del Vicino-Medio Oriente per continuar a fare il loro comodo, ragione primaria delle crisi afghana del 2001 e irakena del 2003? E’ abbastanza ovvio che nella fattispecie, invece, Israele sia a sua volta indeciso: da una parte i legami tra jihadisti e una parte del movimento armato palestinese sono ovvi, dall’altra esso ha collegamenti anche con gli sciiti e l’Iran, da un’altra ancora c’è il rischio che un’affermazione jihadista in Siria rimetta in discussione seriamente la questione del Golan. Ma ormai una cosa almeno è chiara: il jihadismo, presentato come il grande rischio che l’ Occidente deve oggi affrontare, è sostenuto fondamentalmente da forze vicino-orientali (gli emirati della penisola araba, la Turchia) che si presentano come alleate dell’Occidente stesso. E nasce il sospetto, senza far del complottismo, che vi siano forze interessate a suscitare il nuovo pericolo jihadista al fine di procurarsi poi l’alibi per la legittimazione di un nuovo intervento e di una nuova presenza militare che si radichi in quell’area di frontiera, a due passi da Taheran. A che gioco stanno giocando i signori – sempre gli stessi, sempre loro – che nel 2008 riuscirono a piazzare i loro missili a testata nucleare puntati contro la Russia in territorio georgiano, e quest’anno sono riusciti a fare lo stesso anche in territorio ucraino, cavalcando il locale nazionalismo e cercando addirittura di sloggiare le basi navali russe dal Mar Nero, apice nordorientale di quel Mediterraneo che è ormai un lago presidiato dagli ordigni della NATO, molti dei quali sono ospitati nella spessa penisola italica in spregio alla costituzione della repubblica italiana?
Da qui la necessità che Obama non si lasci travolgere dalle istanze interventistiche di una buona parte del Congresso, che rischierebbero di provocare una terza frittata peggiore di quella afghana del 2001 e irakena del 2003, e che la società civile appoggi con forza e fermezza l’istanza con coraggio ed energia avanzata dal Santo Padre: è l’ONU, non altri soggetti, che deve – agendo una volta tanto con coerenza e con sicurezza – prender l’iniziativa di fermare l’ISIS. L’ONU, che con il suo immobilismo ci ha regalato l’esito tragico della crisi israelo-palestinese. L’ONU, che con la sua latitanza ha consentito il brigantaggio americano nelle questioni afghana e irakena. L’ONU, non altri: soprattutto, non la NATO. Alla NATO si può solo augurare quel che giustamente le augura Barbara Spinelli: scomparire al più presto, nell’interesse di tutti.